Le terre basse
Vedrete case o cascine sperdute in lontananza, isolate l’una dall’altra,
ma dentro un reticolato di strade dritte che le situa nello spazio come su una scacchiera;
e soltanto quando un canale viene a interrompere la simmetria,
troverete una strada che divaga, dandovi improvvisamente un senso di avventura nell’imprevisto.
Gianni Celati, “Ultimi contemplatori”
Dare un’idea della pianura con un’immagine sola è come cercare di rendere la poesia del mare “mostrando una bigoncia piena d’acqua marina”: parola di Giovannino Guareschi. A sentire lo scrittore parmense, l’essenza di queste lande “non va cercata sulla terra, bisogna cercarla nell’aria”, perchè la Bassa “è fatta per chi non ha paura di restar solo con i suoi pensieri”.
Se occorresse una conferma, potremmo trovarla nel sonetto dedicato da Giovanni Pascoli al Rio Salto, il piccolo fiume che incide la piana romagnola all’altezza di San Mauro, dov’era e dov’è ancora la casa in cui era nato. In questi versi il poeta ricorda i suoni che sentiva da piccolo, quando i pioppi in brusìo sulla sponda erano altrettanti cavalieri erranti e la pioggia sul tetto i loro cavalli in corsa. Il fanciullo diventato adulto sa bene che si tratta di miraggi, eppure è questo l’effetto magico della pianura, dove le strade lunghe e diritte vanno a finire così lontano che la loro destinazione fa rima facilmente con l’immaginazione di chi le guarda.
Dopo aver lasciato la Romagna, Pascoli ha abitato in tante città diverse dell’Italia ma non ha mai dimenticato “quella striscia di terra sotto la grondaia” dove da piccolo giocava insieme al fratello. “Era il mio nido”, confessa nella poesia che ha dedicato a questo territorio così propizio al fantasticare: una vera e propria miniera di sogni a cielo aperto, dove volar via in sella a un ippogrifo è facile come dai fieni appena falciati sentire il verso dei grilli “che perpetuo trema” e “dalle rane dei fossati / un lungo interminabile poema”.
Fieni e fossati padani fecero da culla, un secolo prima, anche a un altro poeta.
Vincenzo Monti, nato vicino ad Alfonsine, nella casa che il padre aveva fatto costruire sul podere dell’Ortazzo, visse in campagna fin verso i dodici anni, quando dovette partire per gli studi. Crebbe poi in città grandi e piccole, ma l’aria “fantastica” della pianura continuò a lavorare dentro di lui anche a distanza: “Nella storia dello spirito umano e de’ suoi progressi” - scriverà un giorno - “tutto è prezioso. Gli stessi delirii sono splendidi monumenti d’ingegno, sono fonti di maraviglia; e i sogni dell’immaginazione vagliono qualche volta più che le veglie della ragione”.
A uno di questi sogni, realizzato nella realtà, Monti dedica una delle sue poesie più note, l’ode Al signor di Montgolfier, che nel 1784 celebra il primo volo di un pallone a idrogeno “nel mar dell’aure”. E chissà che, nel descrivere la vista dalla mongolfiera, non abbia ripensato ai giorni della sua infanzia in pianura, quando, per vedere il mondo dall’alto, bastava salire sui rami di un acero o di un olmo, e da lì far vagare gli occhi in lontananza:
Fosco di là profòndasi
Il suol fuggente ai lumi,
E come larve appaiono
Città, foreste e fiumi.
Oggi, dalla casa che vide crescere Vincenzo Monti, partono le visite nella Riserva naturale di Alfonsine, oasi di rifugio per la flora e la fauna del Parco regionale del Delta del Po. I canti di usignoli, cardellini e upupe, che ancora di questi luoghi trapuntano il silenzio, fecero da nutrimento sonoro anche per l’udito del piccolo Gioachino Rossini, quando viveva poco lontano da qui. Durante l’infanzia, per seguire gli spostamenti del padre, il futuro musicista viaggia spesso fra Pesaro, Ravenna, Ferrara e Bologna; per qualche tempo riesce a fermarsi a Lugo, nella casa del nonno, ed è tra queste mura (ora museo) che apprende i primi rudimenti della teoria musicale.
Nella celebre ouverture del “Guglielmo Tell”, l’ultima opera composta da Rossini, c’è un passaggio fondamentale: dopo l’allegro che descrive l’arrivo della tempesta in un tranquillo paesaggio agreste, e prima del crescendo finale, lo scemare di pioggia e vento viene reso da un andante melodioso, in cui il corno inglese, espressione della serenità ritrovata, si alterna con il flauto, che dà voce agli uccelli finalmente tornati a cantare. Si sa che il musicista compose l’opera in campagna, poco fuori Parigi, nello splendido castello di Petit Bourg, tra stagni e boschi creati ad arte: distante mille miglia dalla terra in cui era cresciuto, era ancora ben vicino, con l’orecchio, ai suoni di quella natura che, secondo lui, la musica “esprime e non imita”.
Quando Rossini era già poco più che ventenne, Giuseppe Verdi mandava i primi vagiti in un piccolo casolare della pianura parmense. Oggi, alle Roncole, tra le mura che accolsero le prime note della sua spinetta, si può fare una visita multimediale suggestiva, punto di partenza per l’itinerario che attraversa le terre verdiane: a Busseto c’è la sontuosa dimora di Antonio Barezzi, uno dei primi a sostenere il talento del giovane musicista; da qui poi, andando verso il Po piacentino, si arriva a Sant’Agata, dove Verdi, divenuto ormai celebre, acquista una villa immersa nella campagna.
Qui, tra il Maestro e il suo paesaggio di origine, il legame si fa sempre più stretto. Oltre a sorvegliare i lavori agricoli nelle tenute che si estendono tra i fiumi Arda e Ongina, Verdi si occupa personalmente del parco che circonda la villa, dando persino il nome delle sue opere agli alberi più grandi: la quercia Trovatore, il salice Traviata, il platano Rigoletto. E quando la moglie Giuseppina Strepponi, grande cantante lirica, gli chiede di far le valige per svernare via dalle nebbie della Bassa... lui rimanda ogni volta che può. Perché alla fine, con i suoi sentieri e i suoi silenzi, questo pezzo delimitato di territorio è anche un rifugio prezioso per continuare a coltivare in pace la sua arte.
Tuttavia, oltre che voluti, gli isolamenti che foschie, spazi aperti ed estese alberature vengono a creare dentro la pianura possono essere subìti. Lo raccontano le storie parallele di Antonio Ligabue e di Pietro Ghizzardi, vissuti a poca distanza dal Po reggiano e dai suoi alti argini serpeggianti, uno a Gualtieri, l’altro a Boretto. Per entrambi l’arte è stata un canale di navigazione provvidenziale per esprimere il mondo interiore e affermare la propria esistenza, a dispetto dell’emarginazione che li voleva strambi o addirittura matti.
I loro percorsi sono diversi: il primo si concentra sulla rappresentazione di sé stesso e degli animali che ama, scrutando i propri stati d’animo, o raccontando agguati, difese e assalti improvvisi di tigri, galli o cani. Il secondo sogna, ricorda e dipinge, con linee sinuose, decine di donne, simboli sacri e personaggi storici. Il paesaggio che vedono ogni giorno è quasi del tutto assente dalle loro opere, eppure vive nella materia stessa con cui le creano: nell’argilla che Ligabue prende dal fiume per le sue sculture, nella terra e nelle erbe che Ghizzardi impasta sopra i suoi cartoni.
Gli effetti degli spazi aperti sulla fantasia sono imprevedibili. Per Gianni Celati, esploratore attento della pianura padana, attraversare le campagne da Piacenza fino al mare può dare un senso di vuoto e di fissità, o l’impressione di non saper bene cosa guardare; ma se capita d’incontrare qualche vecchio abitante del luogo, “magari un vecchio solitario in bicicletta, oppure qualcuno che sosta sulla porta d’un bar di paese”, e ci si ferma a parlare, si scoprirà “una specie di stravaganza congenita che tende alla divagazione comica o sorprendente”.
Sono gli “ultimi contemplatori”, osservatori quotidiani delle trasformazioni del paesaggio, della bellezza che gli rimane e delle brutture che lo minacciano. Difendono il loro isolamento dietro un silenzio o una battuta in dialetto ma “sono loro i veri esperti dei luoghi, gli osservatori più attendibili, gli ultimi spiriti fantastici della nostra regione”.
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