Le terre alte


Le cime più lontane dell’Appennino paiono avvolte in un vapore purpureo,
che le tagliate dei faggi macchiano di un rosso vivo.
Come si respira bene, quassù! Chi passa per questa magnifica strada
dacchè la ferrovia attira altrove merci e viaggiatori?
- Alfredo Oriani, “La bicicletta” -


La Casa dei Mandorli, Pennabilli (Rimini) - foto di Luca BacciocchiVista dal cielo, la striscia montuosa degli Appennini può sembrare una gigantesca creatura preistorica: come un lungo serpente che si è addormentato da millenni, disteso tra due mari, fino a pietrificarsi.
Non è un caso, quindi, se tra queste valli si può ancora “sentire l’odore dell’infanzia del mondo”; sono parole di Tonino Guerra, il poeta e artista di Santarcangelo di Romagna che ha trascorso l’ultima parte della sua vita tra le rocce di Pennabilli.
Qui, nel cuore della valle scavata dallo scorrere del Marecchia, Guerra ha lasciato molte testimonianze della sua creatività: a cominciare dalla “Casa dei mandorli”, dove viveva con la moglie Lora. Oggi la dimora è il fulcro dei “Luoghi dell’anima”, un percorso che unisce una serie di installazioni concepite come vere e proprie “poesie nel paesaggio”, fatte apposta per darci l’occasione di ritrovare “la voce dell’uomo antichissimo che emerge quando il greto del fiume resta secco e il sole spacca le argille sbiancandole”.
Sono luoghi dai nomi evocativi: il “Giardino pietrificato”, la “Strada delle meridiane”, il “Santuario dei pensieri”... e l’“Orto dei frutti dimenticati”, un “museo dei sapori” che raccoglie rari esemplari della flora spontanea: il giuggiolo, il melo cotogno, la pera volpina.

Visti dalla montagna, i campi vasti della pianura sembrano molto più facili da coltivare, ma anche più vulnerabili alle tentazioni delle monocolture, quelle che mettono a rischio la diversità delle specie e ne fanno dimenticare i frutti più antichi. Se ne accorge l’artista Mattia Moreni già negli anni Sessanta del Novecento, quando, lasciata Parigi per le colline di Brisighella, sceglie uno dei frutti più familiari della “bassa” e ne fa l’emblema delle relazioni pericolose tra natura e tecnologia. Nella cascina delle “Calbane vecchie” prende forma, così, il celebre ciclo delle “Angurie”: dalle prime rappresentazioni naturalistiche del frutto, intero o tagliato a spicchi abbandonati sul terreno, di alterazione in alterazione si arriva a metamorfosi sempre più inquietanti (e oggi, purtroppo, sempre più comprensibili).

Il Cardello - Casa Museo "Alfredo Oriani", Casola Valsenio (Ravenna) - foto di Luca BacciocchiSe le pendici di Brisighella, e poi quelle di Santa Sofia, sono state per Moreni un rifugio desiderato, non si può dire altrettanto per le vicine colline di Casola Valsenio, che a dispetto della loro dolcezza furono piuttosto lo scenario dell’esilio subìto (se non autoimposto) da Alfredo Oriani.
Dal “Cardello”, l’edificio dove nel corso dell’Ottocento trascorse gran parte della sua vita, e dove oggi se ne conserva la memoria, lo scrittore fuggiva appena possibile, magari in sella alla bicicletta da corsa che qui si può ancora ammirare. Anche se poi, da misantropo qual era, ciò che del mondo lo emozionava di più era la bellezza solitaria di paesaggi non molto diversi da quello che ogni giorno aveva intorno:

A mano a mano la luce sembra purificarsi e il silenzio diventa maestoso: appaiono le prime rocce tagliate nei fianchi della strada, poi boschi di abeti e altre rocce e prati senza una casa: appena qua e là, lontano, un fumo diafano e azzurrino sale da una carbonaia; non un rintocco di campana, non un muggito di vacca... È l’ora del meriggio acciecante e inerte nella propria vampa. Solamente un falco disegna al disopra dei monti larghe e pigre ruote con le ali che sembrano incendiarsi alle punte, ma il suo strido sottile si perde nel sereno. Come appare leggero lassù!

E, pedalando sui tornanti, si sente leggero anche lui, mentre sfiora ogni vetta con lo sguardo, “quasi volando”. Tra salite e discese la fatica si fa sentire, certo, ma “che importa?”, confessa Oriani: “Da un pezzo non sono stato così. Visioni di viaggi, avventure del deserto, poemi lontani di paesi lampeggianti e roventi mi passano tumultuando nella fantasia, appunto perché sono così solo con la sicurezza di non incontrare alcuno”.

Rocchetta Mattei, Riola di Vergato (Bologna) - foto di Luca BacciocchiAzione e contemplazione, solitudine e senso di comunità: nelle valli che solcano l’Appennino questi opposti si congiungono facilmente, tanto che non di rado, dove c’era un eremo lontano da tutto, nasce un centro di comunicazione con il mondo. È la storia della Rocchetta di Riola, il castello costruito da Cesare Mattei sui ruderi di un antico possedimento matildico, alla confluenza dei fiumi Reno e Limentra.
Credeva nella forza guaritrice della natura, il conte Mattei, e altrettanta fiducia riponeva nel potere benefico della bellezza: per questo non si limitò a fare della sua Rocchetta il laboratorio in cui creava rimedi a base di sostanze vegetali e acque sorgive, volle anche disegnarla come un’opera d’arte. Così il profilo fiabesco del castello, stampigliato sugli involucri dei suoi farmaci “elettromeopatici”, partiva alla volta di Londra e Parigi, della Russia e dell’India, fino alla Cina e agli Stati Uniti d’America... mentre dal mondo intero, come dai paesi vicini, chi era in cerca di speranza si inerpicava volentieri fin quassù.

Un secolo dopo la costruzione della Rocchetta Mattei, e a poca distanza dalle sue torri orientaleggianti, un altro uomo straordinario sceglie l’Appennino per costruire la sua casa. Intorno al 1960 Giorgio Morandi ha settant’anni ed è già un pittore famoso; quando il paesaggio urbano dipinto tante volte dalla finestra bolognese di via Fondazza viene nascosto da un muro, decide che è l’ora di restituire agli occhi un orizzonte meno costruito. E la scelta cade su Grizzana, dove è già stato ospite tante volte con le sorelle, in cerca di aria buona e poi di rifugio durante la guerra. Nella dimora che fa edificare non ci sono particolari notevoli, se non la grande quantità di finestre da aprire, così da moltiplicare i punti di vista possibili su case e colline circostanti.
A Grizzana (che oggi, al suo, aggiunge anche il nome di Morandi) il pittore ha trascorso le ultime estati della sua vita, continuando la sua ricerca sulla variabilità infinitesima del visibile. Lo studio conserva gli strumenti del lavoro quotidiano, dai colori mescolati fino a ottenere sfumature inedite, agli oggetti attentamente selezionati per dare avvio alle sue esplorazioni interiori: vasi, barattoli, brocche. Fuori dalle finestre, anche le colline e i calanchi cercano di conservarsi come lui li dipinse, resistendo agli uomini più che al tempo. Cose e paesaggi sembrano condividere in silenzio il mistero della creazione artistica che faceva rivivere nella materia l’incanto della visione.

Fondazione Museo "Ettore Guatelli", Ozzano Taro (Parma) - foto di Luca BacciocchiDire che tra queste valli si sente ancora “l’odore dell’infanzia del mondo” non è affatto un’iperbole: in effetti, dai biancori della Vena del Gesso romagnola agli scuri affioramenti magmatici delle ofioliti emiliane, l’Appennino racconta una storia che risale a più di 180 milioni di anni fa, quando qui c’era un oceano. E non è un caso se la varietà delle rocce che popolano queste valli colpisce da sempre la fantasia di chi le osserva: accadeva anche ai piccoli alunni di Ettore Guatelli, il maestro elementare che dai tanti sassi raccolti nella sua scuola di montagna, e utilizzati per insegnare, ebbe l’ispirazione per creare un museo unico al mondo:

Inizialmente ho raccolto per riutilizzare. Dai rigattieri vedevo cose che potevano servire: pinze, martelli, congegni... Speravo sempre che l’ultima fosse la migliore. Cose umili, ma anche ingegnosissime, poetiche nella loro umiltà, da amare. E da far venire il desiderio di capire, di sapere chi c’era e cosa c’era dietro queste cose, come e in quali circostanze si usassero.

Oggi, a Ozzano Taro, sulle prime colline parmensi, nella casa in cui Guatelli visse con i suoi fratelli sul podere Bella Foglia, rimane una silenziosa famiglia di centinaia e centinaia di oggetti, tutti salvati dall’oblio che ha cancellato la civiltà contadina: secchi, scodelle, chiodi, vanghe, falcetti, scarpe, scatole di latta, orologi, giocattoli, grattugie... Adoperati tutti insieme come se fossero colori con cui affrescare i muri, o sculture con cui animare le stanze. Qualcuno lo ha definito “il bosco delle cose”, come a ribadire il legame stretto che, tra colline e montagne, ha legato per secoli le leggi della natura e i desideri degli uomini.

Per ascoltare il podcast audio dedicato:
Case e studi delle persone illustri. Viaggio dentro ai paesaggi culturali dell’Emilia-Romagna: le terre alte

Per approfondire:
> Libro-guida:
“Case e studi delle persone illustri dell’Emilia-Romagna” (Bologna University Press)
> PatER - Catalogo del Patrimonio culturale regionale:
“Case e studi delle persone illustri dell’Emilia-Romagna” / LE TERRE ALTE

Per continuare il viaggio nei paesaggi culturali dell'Emilia-Romagna: 
> La linea del mare
> Le terre basse
> Le prospettive urbane

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