Ci si poteva innamorare di un dipinto? Zvanì aveva sceso la larga scalinata in graniglia senza dire una parola, la testa ancora rivolta ai tratti dolci di Adele, Una madre
Anche Walter sembrava pensieroso, la visita alla Sala del Consiglio lo aveva colpito molto. Una volta raggiunto l'androne, illuminato dai faretti nelle volte del soffitto, fu proprio l'amico a spezzare quel momento di riflessione. 
"Al set quel c'hat degh me?" disse grattandosi dietro la testa "la cultura la m'ha mes una gran fam". "La sendrome ad Stocolma te t'an sé quel cl'a sia"gli rispose Zvanì con una risata. 
E con la promessa di terminare la giornata in trattoria, aveva convinto Walter a rimanere ancora un po'. Zvanì voleva ascoltare l'introduzione della guida al secondo gruppo in partenza. 
Molti forlivesi continuavano ad entrare nel Palazzo del Monte di Pietà, attirati dalla locandina esterna e dalle porte aperte, con la voglia di conoscere la storia dell'antica istituzione pubblica. 
Il Consiglio generale della Comunità cittadina, aveva spiegato la ragazza, ne aveva approvato l'erezione nel lontano 21 marzo 1511, con una votazione di quarantanove fave bianche contro due sole fave nere.
"L'è un pez ca'n magn una mnestra cun al fev" disse Walter all'amico "ajo' un gran bus in te stomac...". 
Una signora bionda cotonata con due chili d'oro addosso si girò di scatto verso di lui, fulminandolo. "L'antico ingresso del Monte dei Pegni era ubicato in Via Saffi.." continuò la ragazza, accennando ai due portoni di legno che i presenti avrebbero potuto ammirare una volta usciti. 
"Andè a vdè, valà, u jè un'usterì cla fa una sfoja can te deg, propi in fond a la stré..." propose sottovoce Walter. 
Stavolta fu Zvanì a zittirlo senza pietà, guadagnandosi un sorriso ammiccante della cotonata. 
"..e nel 1839 la neonata Cassa dei Risparmi di Forlì iniziò ad operare proprio in due stanze del Palazzo del Monte" concluse la guida, arrossendo per gli applausi. 
"Te capì?" disse Zvanì "Quant ui sareb da di' par stal muraj". 
Ma Walter si era allontanato, avvicinandosi all'immensa scultura in bronzo, posizionata al centro dell'ingresso. "Il minatore" lesse sulla didascalia nel basamento. 
Un giovane uomo era stato raffigurato in una pausa dal proprio lavoro. Lo sguardo rivolto verso il basso, la mascella serrata, il torso nudo e un braccio fermo sulla cariola, appoggio del proprio corpo, trasmettevano un senso di annientamento non solo fisico. 
La fatica sembrava scaricata sui muscoli, le mani che avevano stretto la picozza durante il turno, chiuse in un pugno e lo strumento di lavoro abbandonato a terra. 
Mani nodose,le cui vene ingrossate parevano pulsare sotto il bronzo. 
"Neca me a so' strac" disse Walter, coprendo uno sbadiglio con la mano.
"Am pe' ad sugnè, am tut in zir?" tuonò una voce maschile dietro di lui. 
"E minador u la jà cun te" disse Zvanì, indicando la scultura. 
Walter si ritrasse, ancora spaventato per il rimprovero imprevisto. 
"Set fat incù, par esser incè strac?" gli chiese il minatore. 
"Ta me da scusè minador" rispose Walter, paonazzo per la vergogna " ai so' sol stè in te Palaz par vder di quedar". 
"Na bela fadiga eh!" rispose il minatore, prima di scoppiare a ridere insieme a quei due.
"L'è un po' sgumbiè, ma l'è un bon burdel" lo giustificò Zvanì, 
"Eh zà, e mi amig um porta in te palaz par insgnem" disse Walter. 
Zvanì fissò gli stivaloni del minatore. 
Gli avrebbe voluto chiedere se conosceva davvero il lavoro che rappresentava, ma non osava. 
La scultura, che sembrava leggergli nel pensiero, iniziò a raccontare la storia che il suo creatore gli aveva trasmesso, regalandogli l'anima di un vero minatore. 
Una storia di miseria e giorni al buio, di polvere nei polmoni, respirata lungo gallerie strette e l'umidità che toglieva il respiro, una storia di visi duri e pelle segnata dal freddo. 
I turni di lavoro non sempre erano uguali, migliaia di metri sotto la terra. 
Un giorno, disse commosso il minatore, il più giovane di tutti non era riemerso, alla luce di un mondo che li aveva dimenticati. 
Si chiamava Antonio e sognava di scrivere un libro, anche se aveva la prima elementare. Ma le sue idee e il racconto che aveva nella testa, ogni giorno, erano morte con lui in quel buco scuro, schiacciate come il suo corpo sotto il peso di grossi massi. 
Quella era la vita nelle miniere di fine ottocento, dove un minatore con tante idee, pagine di errori di ortografia e virgole al posto sbagliato, non aveva potuto studiare e migliorarsi la vita.
"At ringrezi par la tu fola, minador" disse Zvanì " ta sedè una bela lezion".
Walter annuì, passandosi in fretta la manica della giacca sugli occhi umidi. 
"Ades un zir par e museo ut parà una pasigieda" gli disse la scultura sorridendo.

Più tardi, davanti a un piatto di tagliatelle al ragù in trattoria, Walter sembrava essere giunto a una conclusione. "E zà, par un pez a so' a post cun la cultura" disse pulendo il piatto con l'ultima fetta di pane rimasta. 
Ma non aveva considerato un piccolo particolare.
"Fat curagi parchè la prèma dmenga de mes la jè drì" disse Zvanì.

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