Qui si dice così

Breve itinerario tra i dialetti dell’Emilia-Romagna attraverso dieci parole particolari, appositamente “tradotte”

Arbuffeint
Arbuffeint - foto Herr S. Loeffler (CC0)
A Piacenza e dintorni per dire scontroso si dice “arbuffeint”: la parola sta a indicare una persona intrattabile, di quelle che non sai mai per quale verso prendere.
Il termine deriverebbe dall’antico gergo dei falegnami, che l’usavano per indicare un legno difficile da piallare, tanto da rendere necessario lavorarlo “all’arbuff”, di scontro, ossia contro filo rispetto al verso naturale delle fibre.
Si può riferire anche al verso naturale dei capelli e, in tal caso, viene a significare scapigliato o scarmigliato: oggi si direbbe “diversamente pettinato”.

> etimologia: Lorenzo Foresti, “Vocabolario Piacentino - Italiano” (Piacenza, Coi Tipi di Francesco Solari, 1855).
> foto: Herr S. Loeffler (CC0).


Bissabóga
Bissabóga - foto ELLK photo (CC BY 2.0)
A Parma e dintorni la parola zig zag si traduce con “bissabóga”.
Che derivi dal francese o dal tedesco, com’è più probabile, il termine fonde insieme due immagini, quella della biscia (“bissa”) e quella della curva (“boga”), e così descrive in un colpo solo l’andatura sinuosa di una strada tutta svolte, o anche il procedere contorto di un discorso poco chiaro.
Da queste parti, del resto, per definire una persona dalla vita non tanto lineare, o addirittura spericolata, si dice che vive “pròpi cme ’na bissa”: proprio come un serpente!

> etimologia: Carlo Malaspina, “Vocabolario Parmigiano - Italiano” (Parma, Tipografia Carmignani, 1856); Memento Mori, “Vocabolario della lingua parmigiana” (Parma, Marcello Valentino Editore, 2017).
> foto: ELLK photo (CC BY 2.0).


Calamèr
Calamèr - foto Minette Layne-Worthey (CC BY-NC 2.0)
A Reggio Emilia e dintorni la parola “calamèr” ha ben tre significati.
Derivato dal latino “calamarius”, un tempo il termine stava per calamaio: il contenitore in cui si intingeva nell’inchiostro il calamo, ossia la cannuccia usata per scrivere prima che si inventasse la penna a sfera.
Oggi, più di frequente, indica il mollusco che quando fugge espelle un liquido scuro, animale che l’italiano antico chiamò “calamario” per analogia con l’oggetto da tavolo.
Ed è proprio l’occhio del calamaro di mare, così simile a quello umano, a suggerire il terzo significato di “calamèr”: quello scuro alone antiestetico meglio noto come occhiaia.

> etimologia: “Vocabolario Reggiano - Italiano” (Reggio Emilia, Torreggiani & Compagno, 1832).
> foto: Minette Layne-Worthey (CC BY-NC 2.0).


Gatózzel
Gatózzel - foto Nuala (CC BY-NC-SA 2.0)
A Modena e dintorni fare il solletico si dice “fèr al gatózzel”.
La parola deriva da “gatózz”, gattuccio, ed esprime perfettamente quel leggero grattare con le dita che fa subito fare le fusa ai nostri felini. Se in italiano non c’è traccia di parole simili, il francese ha “chatouiller”, un verbo che si ispira ancora una volta al gatto (“chat”) per rendere con efficacia la morbida piacevolezza del solleticare.
Anche per i modenesi la felicità si raggiunge più facilmente avendo un micio per amico: non a caso, da queste parti, per dare una scossa a chi è troppo serio la frase di rito è: “T’è mòrt al gat?”.

> etimologia: Sandro Bellei, “A m’arcòrd. Dizionario enciclopedico del dialetto modenese” (Finale Emilia, Edizioni CDL, 1999); Giovanni Galvani, “Saggio di un glossario modenese” (Modena, Tipografia dell’Immacolata Concezione, 1868).
> foto: Nuala (CC BY-NC-SA 2.0).


Låuv
Làuv - foto NPS Photo - Tim Rains (CC0)
A Bologna e dintorni il lupo, sia quello delle fiabe, sia quello da tempo tornato sui monti, è senza dubbio “al låuv”.
Un vecchio dizionario dialettale lo definisce “quadrupede salvatico voracissimo” e da questa presunta voracità fa derivare il senso figurato della parola, che sta per ghiotto o mangione, come conferma l’antico proverbio per cui è la fame a far venire fuori il lupo dalla tana.
La saggezza popolare ha sempre temuto questo animale così fiero, ma gli ha anche riconosciuto il suo istinto di libertà: “Dà da magnèr al låuv tótt i dé”, dagli pure da mangiare tutti i giorni, “mo ló al guèrda sänper ala furèsta”, ma lui guarda sempre la foresta. 

> etimologia: Claudio Ermanno Ferrari, “Vocabolario Bolognese-Italiano” (Bologna, Editori Mattiuzzi e De’ Gregori, 1853); Luigi Lepri, “Dî bän só, Fantèṡma” (“Repubblica - Bologna”).
> foto: NPS Photo - Tim Rains (CC0).


Stlà
Stlà - foto Lisa Redfern (CC BY-SA 2.0)
A Ferrara e dintorni per dire rompere si dice “stlàr”, verbo che al participio passato fa “stlà”: fatto a pezzetti.
L’origine è nella parola che nel tardo latino indicava la scheggia di legno, “astella”, diminutivo di “assis”, l’asse ossia la tavola di legno intera.
Da “astella” si arriva quindi al ferrarese “stèla” (con la e aperta) e da qui al verbo “stlàr” e al participio “stlà”, che ha tuttora due accezioni diverse, figlie entrambe della stessa idea di scheggia: la sottigliezza (“màgar stlà”: magro come una listella) e la rottura (“stuf stlà”: più che stanco, proprio a pezzi). 

> etimologia: Floriana Guidetti, “Storie dei nostri dialetti”; Francesco Nannini, “Vocabolario portatile Ferrarese - Italiano: ossia Raccolta di voci Ferraresi” (Ferrara, Per gli Eredi di Giuseppe Rinaldi, 1805).
> foto: Lisa Redfern (CC BY-SA 2.0). 


Zóla
Zóla - foto Thamizhpparithi Maari (CC BY-SA 2.0)
A Ravenna e dintorni c’è un detto: “Dàj, dàj, la zóla la dvénta àj”, dove la “zóla” è la cipolla che, a forza di insistere, diventa aglio.
Può voler dire che la testardaggine dà i suoi frutti, ma può essere anche un monito a non esagerare con l’insistenza, perché non sempre i frutti sono quelli sperati.
Comunque sia l’ortaggio più odoroso della tavola fa parte integrante della storia urbana e lo dimostra la chiesa dedicata al Battista, nel cuore del centro storico, da sempre nota come “Sa’ Zvan da la zóla”, San Giovanni della Cipolla: proprio qui infatti, ogni 24 giugno, un grande mercato portava in città il suo aroma inconfondibile. 

> etimologia: Adelmo Masotti, “Vocabolario Romagnolo - Italiano (Bologna, Zanichelli, 1996); Libero Ercolani, “Vocabolario Romagnolo - Italiano” (Ravenna, Monte di Ravenna, 1960).
> foto: Thamizhpparithi Maari (CC BY-SA 2.0). 


Braghìr
Braghìr - foto Eduardo Amorim (CC BY-NC-SA 2.0)
A Forlì e dintorni chi si dà molte arie è un “braghìr” e chi se ne da troppe è proprio un “braghiròn”.
L’aggettivo, che in italiano si può rendere con superbo, sbruffone o persino arrogante, deriva dalla parola “braghière”, che nel Medioevo indicava la fascia di cuoio usata dalle persone più ricche per reggersi le brache, ma definiva anche il cinturone allacciato in vita come segno di autorità o di onorificenza.
Per chi invece le brache doveva tenerle su con un semplice pezzo di corda, quella fascia era il segnale che chi la indossava era potente e, di lì a diventare superbo, il passo era breve. 

> etimologia: Libero Ercolani, “Vocabolario Romagnolo - Italiano” (Ravenna, Monte di Ravenna, 1960); Adelmo Masotti, “Vocabolario Romagnolo - Italiano (Bologna, Zanichelli, 1996).
> foto: Eduardo Amorim (CC BY-NC-SA 2.0). 


Prissia
Prissia - foto Kumweni (CC BY 2.0)
A Cesena e dintorni se qualcuno va di fretta vuol dire che ha “prissia”, parola diffusa in forme diverse in tutta l’Italia, dove la variante più nota è prescia.
L’origine è nel latino volgare “pressia”, participio passato del verbo “prĕmere”, e già all’epoca il termine indicava oggetti o situazioni in cui la pressione era forte, dalla pressa utilizzata per stampare, alla spinta creata dalla folla.
Si arriva così alla fretta, che come si sa è cattiva consigliera, a meno che non sia motivata: “a so sempra passè in prissia”, sono sempre passato in fretta - scrive il poeta Gino Della Vittoria - e non ho mai lasciato un segno, come se dovessi andare in un altro posto. 

> etimologia: Gilberto Casadio, “Vocabolario etimologico romagnolo” (Associazione Istituto Friedrich Schurr, Imola, Editrice La Mandragora, 2008); Accademia della Crusca.
> foto: Kumweni (CC BY 2.0). 


Sulóstre
Sulóstre - foto Jim Lukach (CC BY 2.0)
A Rimini e dintorni  il dialetto conserva un termine raro, che fin dall’antichità definisce un tipo di luce particolare. La parola è “sulóstre” e in italiano si può rendere con barlume o riverbero.
Derivata dall’aggettivo latino “sublustris”, che indica qualcosa di debolmente luminoso, questa voce calza a pennello quando si vuole indicare la luce tenue del sole dopo un temporale, quella fredda riflessa dalla neve o quella lontana di una città vista dal mare.
Sono tante le parole con cui la nostra lingua descrive le infinite varianti della luminosità, da bagliore a sfavillìo, ma il “sulóstre” si può vedere (e sentire) solo sulla costa romagnola. 

> etimologia: Gilberto Casadio, “Vocabolario etimologico romagnolo” (Associazione Istituto Friedrich Schurr, Imola, Editrice La Mandragora, 2008); Gianni Quondamatteo, “Dizionario Romagnolo (ragionato)”, Villa Verucchio, Tipolito La Pieve, 1983.
> foto: Jim Lukach (CC BY 2.0).


Per approfondire: 

Legge regionale 16/2014
La normativa della Regione Emilia-Romagna per la salvaguardia e la valorizzazione dei dialetti

Dialetti in vetrina
Bacheca online aperta ai contributi di studiosi e appassionati delle parlate in uso tra Piacenza e Rimini

Risorse online
Video, audio, dizionari, testi di approfondimento e progetti di promozione dedicati ai dialetti emiliani e romagnoli, disponibili in rete

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ultima modifica 2023-08-02T11:07:39+02:00
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