La giostra

racconto di Aurelia Negro

Ho di nuovo varcato quel grande cancello scuro, a lato un manifesto pubblicizza una mostra. Seguendo la strada di ghiaia che porta alla Palazzina, mi guardo attorno e ancora una volta mi sorprendo nel trovare i Giardini quasi uguali a quando ero ragazzo: il laghetto è lì, le tartarughe e i pesci fanno sempre sparire i pezzetti di pane che gli vengono lanciati e la casetta per gli animali continua a specchiarsi in un’acqua che rimane verde in ogni stagione. L’albero vicino al bar è ancora affollato di bambini che danno prova del loro coraggio su rami che già ai miei tempi erano diventati lisci. La giostra, invece, è ferma. È più vecchia e rovinata, ma i cavallini sono gli stessi. Da ragazzo l’ho odiata.
C’è un’età in cui il mondo ti si para davanti, all’improvviso e talmente grande che non riesci ad abbracciarlo. La vita di tutti i giorni ti sta stretta: sempre gli stessi luoghi, le stesse cose e le stesse facce. È il momento di fare qualcosa e far vedere chi sei.
A quel tempo non avevo un obiettivo, né lo cercavo. Di fronte a un mondo in corsa, rimanevo fermo e incapace di avanzare di un passo, circondato da frustrazione e senso di smarrimento. Ero legato da catene invisibili: l’imperativo di dover combinare qualcosa si scontrava con l’impossibilità di abbandonare gli amici e di lasciare il lavoro deludendo la famiglia. A causa della posizione in cui mi trovavo ero in gabbia. Se fossi nato in una città più grande sarebbe stato più facile. Ero certo che in condizioni diverse non sarei finito a gestire la giostra dei Giardini Ducali ed era soprattutto contro quel lavoro che mi accanivo. La quercia secolare che ogni mattina allungava i suoi rami per benedirmi non mi diceva più nulla. Facevo caso solo ai bambini urlanti, al mio sorriso falso, alle canzoncine penetranti e ai cavallini che facevano su e giù fino a chiusura, quando finalmente potevo rifugiarmi dai miei amici. Ma venne un periodo in cui neanche lo stare in compagnia poteva cancellare il mio cattivo umore e smisi di raggiungerli. A fine giornata non andavo a casa, rimanevo ai Giardini a crogiolarmi nel cattivo umore. Facevo il giro del laghetto soffiando in risposta alle oche, lanciavo la ghiaia in acqua finché non sentivo la terra nelle unghie, camminavo fino all’uscita posteriore e poi tornavo sui miei passi. Alla fine, approdavo sempre all’albero su cui da bambino ero salito mille volte e mi sedevo sul ramo più basso, dove la corteccia era stata levigata da tante salite. Da lì vedevo la gabbia dei leoni, un maschio e una femmina: tentativo fallito di dare un aspetto esotico e cosmopolita a Modena. In genere evitavo di passarci vicino perché mi facevano pena. Quella sera, invece, mi piantai davanti alla gabbia e guardai il maschio con tutta la mia rabbia. Aveva gli occhi gialli e tristi: il suo sguardo mi attraversò. In preda a un moto folle presi le chiavi e aprii la gabbia. Quando non ci furono più sbarre a separarci, il leone non guardava più me, ma il giardino alle mie spalle. Uscì solo lui, fiero e stanco. Superandomi respirava a pieni polmoni. Lo vidi proseguire fino al mio albero e lo seguii. Salì incerto su uno dei rami e poi si arrampicò più in alto.
“Guardami – disse – Io sono nato in cattività. Aprendo gli occhi non ho visto il branco, l’antilope e la savana, ho visto gabbie e uomini. Non ho mai visto la mia terra e ora ne sarei escluso. La libertà mi è stata sottratta fin dalla nascita e rimarrò prigioniero fino alla morte. Sono questo vuoto e l’impossibilità di colmarlo che stanno uccidendo la mia compagna e, più lentamente, anche me. Voi uomini, invece, siete liberi come uccelli, ma non lo vedete. Tirate su dei muri per proteggervi da cose che non vi sono nemiche e vi incatenate a cose che in realtà non vi trattengono. Non c’è una gabbia. Potreste facilmente essere felici e invece complicate le cose. Avete conquistato il mondo, addomesticato e piegato la natura, ma continuate ad avere paura delle cose più semplici. Anzi, più avanzate nella vostra conquista, più perdete il contatto con la realtà e diventate prigionieri di voi stessi.
Tu, giostraio, sei insoddisfatto, ma non sei prigioniero. Se aprissi gli occhi, vedresti che niente ti impedisce di fare quello che vuoi. Non ci sono legami che non si possono mantenere, né delusioni che non si possono superare. Prerogativa della libertà è poter cambiare: territorio, compagni, pensieri. E tu puoi fare tutto. Il cambiamento è dettato dall’istinto, ma voi uomini lo rifiutate. Tu però sei ancora abbastanza giovane per ascoltarlo e non soccombere alla paura di fare un passo in territorio estraneo. Non c’è niente che ti impedisca di essere felice. Te lo dice un leone che non lo è mai stato e mai potrà esserlo.”
Mentre diceva queste cose, il leone era sceso dall’albero e aveva raggiunto la giostra. Era saltato sul tetto, sovrastando il razzo bianco e rosso che punta verso il cielo.
“Quella di stasera per me non è altro che una gabbia più grande e confortevole, ma ti ringrazio, per una volta posso vedere un cielo diverso”.
Passammo la notte così: lui a pensare alla sua libertà rubata, io a riflettere sulla mia. La mattina ritornò dalla sua compagna e io alla giostra. Ero confuso, ma pian piano mi resi conto che aveva ragione. Non era vero che non potevo fare niente, la verità era che avevo paura di fare qualcosa e di sbagliare. La mia vita non cambiò all’improvviso, ma iniziai a cercare la mia strada e pian piano le catene invisibili che mi circondavano si sciolsero. Negli anni non sono sempre riuscito a tenere a mente che molti degli ostacoli che incontriamo siamo noi a crearli, ma oggi non sono più giostraio. Ogni tanto ritorno ai Giardini Ducali. I leoni per fortuna non ci sono più.

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ultima modifica 2020-11-20T17:01:16+01:00
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