Deodara
Era stato un percorso difficile. Ci aveva messo molti mesi, dieci mesi per l’esattezza. Doveva trovare il posto giusto, il posto perfetto, il posto in cui la madre avrebbe potuto riposare in pace. Anni prima la madre aveva scritto una bellissima poesia dedicata al cedro Deodara, il cedro dell’Himalaya, un albero sacro, forte, maestoso e gentile. La poesia, intitolata “Deodara”, si concludeva così:
Accogli le mie ceneri
intrise dalla pioggia
nelle fonde radici.
E questo era stato il suo obiettivo in tutti quei mesi: trovare un cedro Deodara che potesse accogliere le ceneri della madre. Fin da quando era andata al cimitero della Certosa, pochi giorni dopo la cremazione, a ritirare l’urna. L’aveva messa in una borsa a tracolla, ed era salita sull’autobus. Si sentiva veramente strana su quell’autobus, con le ceneri della madre a tracolla. Era una scena assurda, a guardarla da fuori, ma dentro di lei c’era un Maremoto, uno Tsunami, si direbbe oggi. La parola Maremoto, pur presentando una vaga assonanza giapponese, le sembrava più dolce e più violenta, più aderente alla sua situazione interiore. Da quel giorno l’urna era stata su uno scaffale della libreria in salotto, nascosta da un telo variopinto. Era come se la madre fosse ancora lì, come era stata negli ultimi quattro anni. Però ridotta in cenere. Non era una bella sensazione. L’elaborazione richiese del tempo. Cominciò a fare sopralluoghi e ricerche, doveva essere sicura di poter trovare e riconoscere il cedro Deodara, che assomigliava moltissimo al cedro del Libano. Ogni volta che ne trovava uno cercava di capire se appartenesse all’una o all’altra specie, e piano piano imparò a distinguerli.
Nel parco di Villa Ghigi ne aveva trovato uno molto bello, grande, però era un po’ in mezzo, la gente gli girava intorno. Fece alcune foto e ci pensò su, poi decise che non era il luogo adatto. Vicino Marzabotto, sulle colline, c’era una casa dove la madre andava spesso con un gruppo di amiche, un luogo di meditazione, di comunione. Era lì che la madre aveva visto il grande cedro Deodara da cui aveva tratto ispirazione per la sua poesia. Chiese al suo collega, ex marito, socio, fratello adottivo, insomma Marco, se poteva accompagnarla a fare un sopralluogo, a vedere quel cedro. Ma una volta arrivati alla casa si resero conto che era stata venduta. Come avrebbe potuto spargere le ceneri in un giardino privato? No, non ci siamo. Niente da fare. Il tempo passava… Infinite ricerche in internet, sperando di trovare qualche bel cedro Deodara nelle vicinanze, in un parco, nella situazione giusta. Serviva anche un luogo dove avrebbe potuto andare a visitare la madre negli anni a venire, se lo avesse voluto.
Un giorno pensò all’Eremo di Ronzano: un rifugio di pace, sui colli sopra Bologna. In qualche modo, affacciandosi al balcone, dal lato sud del suo appartamento, poteva immaginare l’Eremo dietro al colle dell’Osservanza. Ci era andata diverse volte, anche con la madre. Si fece accompagnare da Marco all’Eremo, sperando di trovare lì un cedro Deodara. E ne trovò due, lungo il viale che partendo dalla chiesetta porta verso l’Infinito. Un luogo stupendo, dove sono sepolti anche alcuni monaci dell’Eremo. Immediatamente, con un profondo sospiro di sollievo, seppe che quello era il posto giusto. Ma prima doveva chiedere il permesso… A chi? Si ricordò di padre Alfredo, che aveva conosciuto anni prima. Chiamò quel vecchio amico di cui era stata innamorata per dieci anni, una lunga storia, gli chiese il numero del frate. Chiamò il frate, Le devo chiedere una cosa molto importante, molto personale, possiamo incontrarci? Padre Alfredo fu molto gentile, fissò un appuntamento dopo una settimana nella Basilica dei Servi di Maria. Lei era intimorita, le sembrava di dover chiedere qualcosa di enorme, forse di proibito, sentiva come se stesse infrangendo una legge, anche se non sapeva quale. Finalmente, dopo vari tentennamenti, riuscì a chiedere se poteva spargere le ceneri della madre sotto al cedro Deodara.
Padre Alfredo, come se gli avesse chiesto un bicchier d’acqua, rispose tranquillissimo: Ma certo! Quando? Può andare bene il primo novembre? Era fatta. La prova era quasi conclusa, in inglese si sarebbe definita un ordeal. Una bellissima parola, ordeal. In italiano veniva tradotta con calvario, traversia. Ma per qualche motivo in inglese le dava il senso giusto, il senso della faticosa prova da superare, un lungo cammino ad ostacoli che l’aveva portata fino a quel momento. L’ordeal si avvicinava alla fine. Non le restava che compiere il Grande Gesto. Venne il primo novembre, erano passati esattamente dieci mesi dalla morte della madre. Si fece accompagnare da Marco, naturalmente. Era un giorno di pioggia. Sotto il grande cedro Deodara la cenere volò, si posò, di disperse, cercò la sua strada. Fu come la liberazione di due spiriti, il suo e quello della madre, che si riunirono nell’aria, nella terra, nell’odore di bagnato, nella nebbia, nelle lacrime che si mischiavano alla pioggia fine. Nei versi dell’Infinito di Leopardi, che tante volte le aveva recitato, nel corso della sua malattia. Era la sua poesia preferita. E in quel luogo, su quella collina, i versi, il naufragare, il volo, lo sguardo, le parole, il silenzio, le lacrime, il dolore, il groppo alla gola, la madre, lei. Era lì, in quel luogo, che l’ultimo atto della sua vita di figlia si era compiuto. Era stata fedele e obbediente, rispettosa e devota fino all’ultimo. Era riuscita a trovare quel benedetto cedro Deodara che finalmente aveva accolto le ceneri della madre
intrise dalla pioggia
nelle fonde radici.
La mattina dopo aveva notato tre piccioni sul davanzale della finestra, che guardavano in casa. Pensò che avessero un messaggio da darle. Un messaggio da sua madre? Forse erano le tre Moire? Le filatrici del destino degli uomini, che venivano a sancire la fine di un’era, a comunicarle una notizia importante. La madre ora stava bene, insieme a quel cedro affacciato verso l’Infinito.