Dal Pakistan al Fossolo (Bologna)

racconto di Stefania Sommacal

Mi chiamo Kamran. Questa mattina il materasso è impregnato di umidità. Il grande cespuglio di lauroceraso che ci sovrasta e ci protegge dagli sguardi estranei non può difenderci dal rigore della notte. Io e Atfah ci stringiamo la mano. Guardiamo la bruma alzarsi dal prato di via Spina e rimaniamo fermi, ancora un po’.
Prima di uscire dal nostro rifugio improvvisato e di combattere la faticosa lotta di sopravvivenza urbana, restiamo vicini, in silenzio, e ci facciamo coraggio.

Sono un parrocchetto dal collare, una Psittacula krameri, e sono posato su un pioppo vicino alle scuole Farini, in zona Fossolo. Intorno a me il vociare chiassoso degli altri parrocchetti, noi ci spostiamo sempre in piccoli branchi. Quest’area vicina alle scuole e alla vecchia villa su via Spina ospita molti alberi d’alto fusto e il colore verde delle nostre penne si confonde con le chiome delle grandi piante. Ci piace stare appollaiati sui rami più sottili e da fermi siamo quasi invisibili.

Io e Atfah pensiamo ogni giorno alle persone che abbiamo lasciato. Ci mancano le nostre greggi, la nostra vita quotidiana errante, il nostro essere Bakarwal, pastori d’alta quota. Il viaggio dal Punjab pakistano è cominciato lungo la valle dell’Indo e poi è proseguito verso ovest, verso il confine afgano.
Nomadi lo siamo sempre stati, assieme alla nostra gente e ai nostri animali, sempre in cerca di pascoli migliori e di una stagione propizia. Ma migranti no, siamo i primi della nostra famiglia. Nessuno mai si era allontanato così tanto dal proprio luogo di origine.
Quando la sera veniamo a dormire sotto il lauroceraso vorremmo poter essere invisibili. Dal cespuglio scrutiamo le luci delle finestre che si affacciano sul parco e immaginiamo case asciutte e zuppe calde.

Ci siamo adattati perfettamente a questo clima, a questa latitudine. Del resto, i nostri genitori provengono dalle aspre montagne del Pakistan, i nostri geni sono fatti per sopportare inverni lunghi e severi.
Eppure noi non siamo uccelli migratori, le nostre ali non conoscono le traiettorie intercontinentali, i nostri corpi non sono abituati ad estenuanti traversate.
Ci hanno trasportato in grandi gabbie, nella stiva di altri migratori dei cieli, e siamo finiti in una voliera e in voliera siamo diventati troppi. Così un giorno ci hanno liberato, in aperta campagna, a nord est di Bologna.
Per la prima volta il cielo si è colorato di penne verdi e si è riempito di suoni esotici.
Sopravvivere è stato facile in questa terra fertile: siamo una specie aliena che ha trovato facilmente la propria casa.

Io e Atfah ci siamo sposati il mese prima di partire. Le nostre madri sono lontane cugine, noi siamo cresciuti insieme, condividendo le fatiche nei silenziosi pomeriggi al pascolo. Noi però ci dicevamo che avremmo potuto vivere un’altra vita, avremmo potuto troncare quella catena che rendeva inevitabile immaginare un’esistenza uguale a tutto ciò che era sempre stato.
Al matrimonio i parenti sono arrivati a piedi o a cavallo, percorrendo centinaia di chilometri. Due giovani sposi normalmente ricevono in dono un piccolo gregge, invece abbiamo convinto tutti a donarci una somma di denaro. Che ci è servito a percorrere una strada lunga mesi e a traversare un mare lungo una buia notte di terrore.

Negli ultimi anni ci siamo moltiplicati, ormai stiamo colonizzando tutti i parchi cittadini.
Siamo tanti, rumorosi, la nostra silhouette inconfondibile si staglia nel cielo mentre voliamo schiamazzando da una pianta all’altra.
Di solito partiamo dai grandi pioppi che sono accanto alle scuole Farini, sorvoliamo il boschetto di querce e ci inoltriamo nel parco Roselle, poi rapidamente sgusciamo fra gli alti condomini e ci posiamo sui gelsi di via Vetulonia. Basta un richiamo e ricominciamo ad inseguirci, torniamo su via Spina ed attraversiamo il grande prato. Ci fermiamo sui tigli, ma la sosta dura poco, siamo sempre pronti per altre scorribande.
Siamo arrivati da prigionieri, ma ora in questo cielo siamo liberi.

Abbiamo steso a terra un tessuto colorato, come usiamo fare nelle tende. Poi abbiamo recuperato un vecchio materasso dal bordo di una strada e abbiamo cercato di rendere questo luogo un posto nostro, abbellendolo con qualche foto e pochi effetti personali.
Cerchiamo di non farci mai trovare qui, sul nostro giaciglio. L’altro giorno abbiamo visto da lontano delle persone che si sono avvicinate al cespuglio e hanno osservato le nostre cose. Temevamo che ce le prendessero, invece no, forse hanno capito che questa è la nostra casa, forse hanno sentito che avrebbero violato una dimora.

Cominciano ad occuparsi di noi, dicono che stiamo costringendo le specie locali a ritirarsi in altre aree, che da quando siamo arrivati si è verificato un declino di uccelli autoctoni. Si parla di strategie di contenimento.
Mi chiedo fino a quando una specie sia considerata aliena, ovvero dopo quanti anni o secoli una specie possa essere considerata indigena. Niente è mai rimasto immutabile su questo pianeta, gli esseri viventi hanno sempre conquistato tutti gli spazi possibili pur di sopravvivere.
Noi resisteremo, questa è diventata anche casa nostra.

Stamattina i parrocchetti sono più irrequieti del solito, sembrano allarmati.
Per noi è cominciata una giornata importante, abbiamo riposto le nostre cose in due sacchi di juta e riportato il vecchio materasso vicino al cassonetto. Abbandoniamo il nostro cespuglio: ci accolgono in una casa parrocchiale e mi hanno anche proposto un lavoro come aiuto giardiniere. Le mani nella terra, non posso chiedere di più.
S
iamo nati pastori, destinati a rincorrere le stagioni lungo vallate pietrose. Il cammino che abbiamo percorso per raggiungere l’Italia ci ha lentamente spogliato della nostra identità. Ora siamo un uomo e una donna stranieri, non importa a nessuno cosa fossimo prima, a casa nostra, a 6 mila chilometri di distanza.

Ma oggi è un giorno di tregua nella lotta per la sopravvivenza, Io e Atfah siamo un uomo e una donna coraggiosi.

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ultima modifica 2020-11-20T17:01:13+01:00
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