Genius loci

racconto di Salvatore Caiazzo

Aprile 1981

Mi trovavo in città da circa otto mesi e la corsetta al parco, per raggiungere il percorso vita e tenere allenate le articolazioni, era diventata una piacevolissima consuetudine. Abitavo in via Castelfidardo e in pochi minuti raggiungevo il mio pezzo di paradiso, scoperto per caso, durante una delle mie lunghe camminate.
Bastava girare un angolo di strada e la città spariva come d’incanto, insieme alla stanchezza delle lunghe ore trascorse in corsia al Maggiore.
La primavera si era presentata in tutto il suo splendore e fiori e profumi saturavano i sensi.
Quel giorno, al termine del percorso, privo ormai di forze, mi avvicinai a una panchina dove sedeva un anziano ed elegante signore, indossava una berretta, candida come il suo pizzetto.
“Buongiorno, posso?” Chiesi. “Buongiorno a lei, che è giovane. Prego, si accomodi, il parco è di tutti, sa?”
“Ho bisogno di ricaricarmi un attimo.” dissi al mio compagno di panchina.
“Oh, ma lei è giovanissimo, ne avrà ben parecchia di energia, quanti ne ha, diciotto?”
“Venti, ne ho venti appena compiuti, e lei? Se posso permettermi.”
Non omo, omo già fui… per dirla citando il Sommo Poeta. Ho superato da un pezzo i novanta, ma mi trovo benissimo a parlare con i giovani; in loro ho sempre visto la speranza del futuro, nella mia vita di docente.”
“Ah, un professore quindi? Caspita! Il mio sogno è arrivare a frequentare l’Università di Bologna, ma non ho ancora la maturità. Sa, prima la necessità economica, il lavoro, poi il resto.”
“Non desista! Porti avanti i suoi propositi sempre e comunque! Se veramente ci crede, riuscirà nei suoi intenti e un po’ per volta gli obiettivi verranno raggiunti. E cosa vorrebbe studiare?”
“Mah, fin da piccolo sono rimasto affascinato dalla natura, piante, animali, rocce… ecco, vorrei trovare una facoltà che mi fornisse conoscenze in tutti questi campi.”
“Ho quello che fa per lei!” disse il professore con sicurezza “Scienze Naturali, e non se ne pentirà! Bologna ha una lunghissima tradizione in questo campo e abbiamo avuto grandi maestri, l’Aldrovandi sopra tutti.”
“Grazie” risposi, un po’ intimorito da quel consiglio che sembrava quasi un ordine, proferito con veemenza dall’arzillo prof.
“Viene qui da molto? Conosce bene il parco?” chiesi d’impeto, per cambiare argomento.
“Mio caro giovinotto, posso dire che questo parco lo conosco dimondi, come diciamo a Bologna, lo conosco molto bene. Lo vede quell’enorme albero alla sua destra? È un magnifico esemplare di Cedrus deodara. Ebbene, fu messo a dimora da mio padre, insieme a quell’altro di cui può vedere il tronco a terra più a destra.”
“Si l’ho visto, lo uso a volte per appoggiarmi a fare stretching; è caduto da molto? Era ammalato?”
“Si, andava abbattuto, avvenne nel ’75… nel ’70 invece era venuto meno un esemplare di un’altra specie, anch’egli quasi secolare, che ne aveva viste e passate tante nella sua vita…”
Il prof. rimase in silenzio, pensieroso, con lo sguardo che osservava lontano, oltre il parco, oltre le colline, come se stesse vagando in immensi spazi visibili solo a lui.
“Perbacco! Quindi lei era il figlio del fattore? Del giardiniere?”
“Diciamo così,” aggiunse, scuotendosi dai pensieri “ed ho visto piantare tanti altri alberi, come le grandi querce, e i mandorli sul crinale, le viti, e i cachi. Conosce il nome scientifico del caco? Diospyros kaki, il frumento di Giove, il cibo degli Dei. Ma, mi scusi se ogni tanto cado nella inguaribile malattia, quella di spiegare e dare sempre un nome a tutto.
“Ma si figuri, è un piacere ascoltarla. E, mi dica,” continuai, cercando di non farmi scappare quella preziosa fonte di notizie: “Quella recinzione che ospita, mi sembra, dei faggi, sa perché è chiusa?”
“Fu un esperimento, si voleva riprodurre una faggeta con il suo ecosistema, ma siamo giù di altitudine, e gli alberi stentavano e si schiantavano, diventando un rischio per le persone. Ma è interessante vedere i grandi funghi a mensola che crescono indisturbati; inoltre tanti animali di pelo e di penna vi trovano riparo.”
“E le voliere vuote, sa cosa contenevano?” Incalzai.
“Ah, quelle, le rivedo ancora piene di fagiani dorati, galline multiformi, piccioni viaggiatori; una passione di due generazioni di proprietari della villa, acqua passata.” Aggiunse malinconicamente.
“A proposito, la villa, come mai è abbandonata? Deve aver vissuto tempi migliori.” Provai a chiedere.
Damnatio memoriae. Sa cosa significa? Gli errori si pagano anche dopo morti, e pur di cancellare un nome dalla memoria collettiva, si è preferito far andare in malora un bene, le cui fondamenta risalivano addirittura al Seicento.”
Aggiunse: “Lo sa a cosa era destinata questa villa nell’idea del proprietario? A diventare un centro di studio sulla salvaguardia della natura, un luogo dove associazioni e persone interessate potessero portare avanti la loro opera di paladini del Creato.”
Continuò: “Oggi si parla tanto di proteggere l’ambiente, ma ai miei tempi, tempi in cui era normale andare per safari e riportare trofei, cacciare centinaia di uccelli a battuta, porsi delle domande sul futuro della natura sembrava un’eccentricità, un inutile vezzo. Inoltre,” concluse “se oggi lei riesce a farsi la sua corsetta nel verde in santa pace, lo deve anche a chi ha evitato e sventato speculazioni, che avrebbero trasformato questo posto in un esclusivo quartiere cittadino.”
“Professore, è stato un piacere conoscerla e, mi perdoni se non ci siamo neanche presentati, mi chiamo Salvatore” Dissi. E lui, indicandomi col dito in lontananza il volo fluttuante di un picchio verde che intonava la sua inconfondibile risata: “Alessandro, il mio nome era Alessandro.”
Quella declinazione imperfetta mi fece distogliere gli occhi dall’uccello, ormai scomparso tra gli alberi e, ripetendo il suo nome, mi voltai, guardando con stupore la panchina vuota.
Ripresi lentamente la strada verso San Mamolo, lasciandomi alle spalle Villa Ghigi.

Nel 2011 ho discusso la tesi di laurea in Scienze Naturali all’Università di Bologna.

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ultima modifica 2020-11-20T17:01:11+01:00
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