Ravenna città
La città di Ravenna, con il suo immenso patrimonio di edifici sacri di epoca bizantina e paleocristiana, fu particolarmente in pericolo nell’autunno del 1944, quando si fece strada l’idea che gli Alleati avrebbero potuto liberare la città dai tedeschi solo attraverso un bombardamento dall’alto.
I nazisti, sconfitti a Cervia il 22 ottobre e a Forlì il 9 novembre, erano retrocessi fino a Ravenna, occupando saldamente la città dopo averla isolata su tutti i fronti: a est, lungo la costa, avevano costruito a tempo di record bunker e campi minati contro un eventuale sbarco alleato dal mare; a sud del capoluogo avevano fatto saltare i ponti e allagato la piana dei Fiumi Uniti; a nord della città potevano approfittare della piena del fiume Lamone. L’ingresso alla capitale bizantina era possibile solo da Porta Adriana, all’estremo ovest del centro cittadino, che tuttavia era quasi deserto: la maggior parte della popolazione era sfollata in campagna, le poche fabbriche erano ferme e i forni chiusi per mancanza di farina.
L’OPERAZIONE TEODORA
Fin dal luglio del ’44 una vedetta tedesca era stata posta, giorno e notte, sul campanile medievale della basilica di Sant’Apollinare in Classe che, con i suoi 38 metri di altezza, garantiva un prezioso osservatorio sia sul mare che sul Po. La chiesa venne quindi dotata di batterie antiaeree e di un collegamento telefonico con la città, diventando quindi il principale obiettivo sensibile dell’aviazione inglese.
Sia i Tedeschi che gli Alleati sapevano di mettere a rischio l’incolumità di uno dei massimi esempi di arte paleocristiana, con il mosaico bizantino del Buon Pastore e gli antichi sarcofagi marmorei dei vescovi. In via precauzionale, fin dal 1942 i mosaici dell’abside erano stati rivestiti di materassi in lana di vetro, le finestre chiuse con mattoni imbottiti di sabbia e il sarcofago dei dodici Apostoli (datato a metà del V secolo) sepolto sotto cumuli di macerie.
Ciò non aveva impedito che la basilica, con le sue mura solide, diventasse due anni dopo un rifugio per i civili, e che i Tedeschi ormai in ritirata collocassero delle mine sul campanile, per non lasciare un’ottima postazione strategica agli inglesi.
All’arrivo dei carri armati inglesi il 18 novembre, fu grazie a un intervento concertato tra il maggiore inglese Popski e un gruppo di partigiani che Classe venne liberata senza bombardamenti e con la cattura dei pochi tedeschi rimasti a presidiare la basilica.
Tutto il piano di protezione dei monumenti ravennati prese il nome di Operazione Teodora, dal nome dell’imperatrice ritratta sui mosaici della basilica di San Vitale, con il marito Giustiniano. Il partigiano ravennate Arrigo Boldrini (detto Bulow) descrisse agli Alleati i tesori della sua città e li convinse a rinunciare ai cannoneggiamenti, in favore di uno spostamento del fronte di guerra presso le valli di Comacchio, venti chilometri più a nord.
Fu quindi grazie a questa “mozione” che Ravenna, pur non essendo stata dichiarata città aperta come Atene o Roma, riportò danni bellici per lo più recuperabili, a parte tre chiese interamente abbattute.
LE CHIESE VIOLATE
La prima di queste fu la basilica di San Giovanni Evangelista, eretta dall’imperatrice Galla Placidia nel V secolo e chiesa più antica della città. La basilica sorgeva nei pressi della stazione ferroviaria, e per questo non fu risparmiata dalle bombe, che la ridussero a poco più che un rudere: furono perduti l’abside e l’atrio, con relative decorazioni musive, gli affreschi giotteschi di una cappella e il portale anteriore. Si salvò invece il magnifico campanile gugliato, alto 42 metri, a pianta quadrata, risalente al X secolo.
Alla fine del conflitto si disputò a lungo se lasciare l’edificio in rovina, a testimonianza della follia della guerra, oppure se riedificarlo riportandolo al suo aspetto originario. Fu questa seconda opzione a prevalere, con il recupero dei muri e dei pavimenti originali e il contributo decisivo della Curia, che già nel 1951 la riaprì al culto.
Sorte simile toccò alla basilica di Sant’Apollinare Nuovo, anch’essa non molto distante dalla stazione ferroviaria. La chiesa, particolarmente famosa per le Processioni di Martiri e Vergini (mosaici del VI secolo), aveva già rischiato la distruzione durante il primo conflitto mondiale, quando il 12 febbraio 1916 i bombardieri austriaci avevano sganciato una bomba sull’angolo sinistro della facciata.
L’immagine della basilica semidistrutta aveva fatto il giro del mondo suscitando lo sdegno internazionale, ma poiché nel 1944 la stazione dei treni e la darsena portuale, occupate dai tedeschi, si trovavano sempre a breve distanza, anche i bombardamenti alleati squarciarono la basilica, danneggiando in particolare il soffitto a cassettoni e l’abside. Per puro caso i mosaici non furono violati, e tuttavia la chiesa necessitò di un intervento tempestivo che ne permise, per una seconda volta, la ricostruzione conservativa.
Completamente rasa al suolo il 5 novembre, e successivamente riedificata, fu la chiesa di Santa Maria in Porto Fuori, un edificio di culto mariano databile attorno al XII secolo e collocato in prossimità dell’antico scalo portuale di Ravenna.
La chiesa era famosa per un importante ciclo di pittura murale trecentesca attribuito a Pietro da Rimini, e per una meravigliosa pala d’altare del ferrarese Ercole de Roberti. La Pala portuense si può tutt’oggi ammirare alla Pinacoteca di Brera, in quanto già nel 1811 era stata requisita alla Chiesa e traslata a Milano. L’edificio sacro era inoltre citato nel Paradiso di Dante, al canto XXI, come ‘la casa / di Nostra Donna in sul lito adriano’.
Dal punto di vista strategico, come Sant’Apollinare in Classe, la basilica di Porto Fuori disponeva di un alto campanile su cui i tedeschi avevano fissato un osservatorio permanente e una batteria antiaerea. Inoltre il campanile, risalente al Medioevo, era costituito da due torri massicce, una interna all’altra, con la scala posta nell’intercapedine: un rifugio antiaereo perfetto per i molti abitanti della zona.
Data la sensibilità dell’obiettivo, e senza i riguardi riservati alla basilica Sant’Apollinare in Classe, la mattina del 5 novembre 1944 una formazione di caccia alleati sganciò una serie di bombe che demolirono l’abside e la navata centrale, mentre degli affreschi di scuola riminese, in particolare quello che raffigurava la strage degli innocenti ordinata da Erode, non rimasero che alcuni lacerti. Rimase invece intatto il sarcofago di Pietro degli Onesti, il beato fondatore del luogo di culto.
Anche in questo caso, la chiesa fu ricostruita con la ripresa parziale dell’originale struttura romanica, e fu consacrata nuovamente al culto nel 1952. I frammenti pittorici degli affreschi, sopravvissuti ai bombardamenti e collocati all’interno della nuova chiesa, furono oggetto di furto alla fine degli anni Novanta, e oggi si possono ammirare solo nelle riproduzioni fotografiche dei fratelli Alinari donate dallo storico dell’arte Federico Zeri all’Università di Bologna.
I SEGNI DELLA LIBERAZIONE
Ravenna venne liberata il 4 dicembre 1944 da un’operazione congiunta di inglesi e partigiani, che riuscirono a spostare la battaglia nelle Valli per preservare i tesori bizantini della città.
I segni del passaggio della guerra in città sono ancora nelle due piazze principali del capoluogo.
Piazza del Popolo, prima chiamata piazza del Comune e poi piazza Maggiore nei documenti d’Età Moderna, fu intitolata a Vittorio Emanuele II dopo la proclamazione del Regno d’Italia. L’attuale denominazione risale al referendum istituzionale del 1946, quando l’88% dei ravennati (la più alta percentuale in Italia) preferì la repubblica alla monarchia.
La piazza ospita il Municipio o Palazzo Merlato a ovest, la Prefettura a sud e istituti bancari sugli altri lati. Qui arrivarono le prime avanguardie inglesi e canadesi nel pomeriggio del 4 dicembre 1944, raggiunti poco dopo dai partigiani della 28ª Brigata Garibaldi. Gli uomini di Arrigo Boldrini fecero sfilare i prigionieri tedeschi da loro catturati durante la Battaglia delle Valli, suggellando con questa parata sia l’impegno profuso che il ruolo determinante per la liberazione della città.
Sulla parete dello scalone d’ingresso di Palazzo Merlato, una grande lastra con incisioni rosse ricorda il sanguinoso e valoroso contributo della città nella lotta al nazifascismo, che le valse nel 1950 il riconoscimento della Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Da piazza del Popolo, attraversando via Mario Gordini (il partigiano ravennate a cui fu intitolata la 28ª Brigata Garibaldi, dopo la sua fucilazione nelle carceri di Forlì il 14 gennaio 1944), si arriva in piazza Garibaldi, che ospita il Lapidario cittadino. Tra le numerose lapidi dedicate alle vittime dei conflitti, è presente una stele in memoria di don Giovanni Minzoni, il parroco ravennate ucciso ad Argenta dai fascisti il 23 agosto 1923, una a ricordo delle 946 vittime civili di guerra in provincia di Ravenna, una per i 64 ebrei deportati da tutta la provincia nel gennaio 1944, un’altra ancora ai 45 soldati della Brigata Ebraica, volontari dell’esercito britannico caduti nel conflitto, e una per gli 86 B.C.M., cioè Bonificatori Campi Minati della Romagna, morti in seguito alle esplosioni procurate dalle mine poste nelle campagne.
La piazza fu inoltre teatro di uno dei momenti più significativi per la consacrazione della Resistenza ravennate: il 20 febbraio 1945 il generale Richard McCreery, comandante dell’8ª Armata Britannica, consegnò al comandante “Bulow” Arrigo Boldrini la Medaglia d’oro al valor militare per il contributo dato alla liberazione della città. Era la prima volta che un partigiano italiano veniva insignito della medaglia al valore, e l’unica in cui a consegnarla furono direttamente gli Alleati.