Piacenza provincia
La provincia di Piacenza si caratterizza come uno dei territori a maggior densità di fortificazioni, data la posizione di cerniera di questo territorio tra il Po, la Pianura padana e l’Appennino ligure. Durante la Seconda guerra mondiale molti dei suoi castelli riconquistano in forme nuove il loro antico ruolo militare, grazie alla posizione strategica e alla difendibilità. Diverse strutture, in particolare quelle situate nelle zone montane, vengono occupate dall’esercito tedesco soprattutto dopo l’8 settembre 1943 e sono utilizzate come basi logistiche e centri di comando militare, oppure adibite a campi di prigionia per militari e civili.
Gropparello
Il Castello di Gropparello, che nei documenti antichi compare come Rocca di Cagnano, è uno straordinario esempio di fortificazione medievale: la sua posizione, arroccata su uno sperone roccioso di 85 metri che sprofonda a picco sul torrente Vezzeno, lo ha reso inespugnabile per secoli, protetto com’è dal luogo stesso su cui sorge.
Durante la Seconda guerra mondiale la Rocca venne adibita a comando di guarnigione per le Schutz-Staffeln tedesche, anche perché presiedeva la strada che conduce ai pozzi petroliferi di Montechino. Qui infatti, come in un piccolo Texas, fin dal 1866 erano stati scoperti giacimenti di petrolio ed estratte grandi quantità di oro nero, tanto da impiegare ben trecento operai specializzati intorno alle torri di estrazione. Diverse incursioni aeree, in particolare quelle del 7 e dell’8 aprile 1945, distrussero completamente i 500 impianti petroliferi, che nel 1950 cessarono definitivamente la produzione.
I campi di prigionia
Nelle prime fasi della Seconda guerra mondiale l’esercito italiano aveva conseguito qualche successo e fatto dei prigionieri, soprattutto in Nord Africa grazie al contributo delle truppe di Rommel. Il Piacentino era particolarmente adatto anche a ospitare centri di detenzione, sia perché era un importante nodo ferroviario (i prigionieri viaggiavano in treno), sia perché aveva già conosciuto i campi di raccolta per i reduci della Grande Guerra, attivati a Gossolengo e Cortemaggiore.
Sul territorio furono allestiti quattro campi “P.G.” (Prigionieri di Guerra), prevalentemente destinati agli ufficiali: il P.G. numero 17 nel castello di Rezzanello, con 50 internati greci; il P.G. numero 26 nel convento francescano di Cortemaggiore, con 235 internati prevalentemente jugoslavi; il P.G. numero 29 nella sede estiva del Collegio Alberoni a Veano, con 252 internati britannici e del Commonwealth, fra cui molti ufficiali superiori; infine il P.G. numero 41 realizzato nel castello di Montalbo, in funzione tra il 1942 e il 1943, con ufficiali britannici e dei dominions (150 posti).
Il campo di Rezzanello, aperto nel marzo 1941 e operativo per gli alleati fino al febbraio del 1943, venne insediato in un castello di origini medievali più volte riadattato, fino a fungere, prima della guerra, da residenza estiva di una congregazione di suore. Riservato a un ridotto numero di prigionieri, il campo-castello fu destinato prima agli ufficiali alleati e poi, quando questi furono trasferiti a Fontanellato nel marzo del 1943, venne riservato ai prigionieri greci.
Il campo di Montalbo venne insediato all’interno di un castello medievale più volte rimaneggiato nel corso dei secoli, e prima della guerra utilizzato come residenza estiva di seminaristi. Nel settembre del 1941 risultavano reclusi 61 prigionieri britannici (dei quali 47 ufficiali) che andavano ad aggiungersi ai 69 greci già presenti: si trattava, in entrambi i casi, di ufficiali e dei loro complementi. Gli alleati, arrivati tra agosto e settembre, erano senza dubbio trattati meglio dei greci e, nonostante la separazione degli spazi, questa disparità rese difficile la convivenza.
Al campo di Cortemaggiore, in funzione dal maggio del 1941, i 170 posti disponibili erano destinati a ufficiali, appartenenti in prevalenza all’ex esercito jugoslavo. Il campo aveva sede presso il convento dell’Annunziata, composto da una struttura a due piani organizzata intorno a un grande cortile interno porticato, attiguo alla chiesa dei frati, splendido esempio architettonico di Rinascimento padano.
Il campo di Veano venne insediato all’interno di una villa che fungeva da residenza estiva per gli studenti del Collegio Alberoni di Piacenza, un seminario per aspiranti al sacerdozio. Il campo era destinato a internare in particolare gli ufficiali di nazionalità inglese: il 28 febbraio del 1943 ne risultavano ben 271.
La Rocca di Olgisio
Tra i complessi fortificati raggiunti dalla guerra c’è anche la Rocca di Olgisio, annidata su un alto sperone fra i torrenti Chiarone e Tidone. Il castello, costruito su roccia arenaria, è difeso da ben sei cinte murarie e integra armoniosamente strutture medievali e rinascimentali. Il complesso, molto articolato, comprende un mastio con saloni affrescati e loggiato di vedetta cinquecentesco, un oratorio e la torre della campana. Durante la Seconda guerra mondiale la Rocca ospitò il comando della Seconda divisione partigiana di Piacenza e per questo subì due attacchi da parte tedesca. Entrambi videro come protagonista Giovanni Lazzetti: il leggendario partigiano, conosciuto in zona come “Ballonaio”, riuscì a respingere i nemici solo al loro primo attacco; al secondo i tedeschi scacciarono i partigiani e fecero crollare alcune parti in muratura della fortezza.
Di ritorno da un fallito assalto alla Rocca, il 30 luglio 1944, reparti tedeschi e della Repubblica sociale perpetrarono l’eccidio di Strà: nove civili, tra cui donne, anziani e un bambino di 2 anni, furono falcidiati per rappresaglia. La causa scatenante della strage non è mai stata accertata: tra le ipotesi, l’uccisione di un maresciallo tedesco o la vendetta per un’imboscata tesa dai partigiani nei giorni precedenti.
Altri teatri di guerra
Tra i luoghi più significativi della storia partigiana piacentina ci sono anche i castelli di Monteventano e di Monticello, che si fronteggiano sulle colline a sinistra e a destra del torrente Luretta, rispettivamente nei comuni di Piozzano e Gazzola. Il Castello di Monteventano, situato su una rupe scoscesa da cui si può controllare il passaggio nel fondovalle, dall’agosto al dicembre del 1944 fu la sede del distaccamento partigiano comandato da Ludovico Muratori, detto “Muro”.
Nell’aprile del ’44, per la sua posizione dominante sul crinale tra la Val Trebbia e la Val Luretta, anche il Castello di Monticello diventò l’avamposto di una brigata partigiana: quella comandata da Gino Cerri, detto “Cicogna”. Qui, nella notte del 16 aprile, si svolse una battaglia epica, che vide i trenta uomini di presidio al castello resistere all’attacco di circa trecento assalitori fascisti e tedeschi, armati di “Panzerfaust”: questi ordigni, capaci di perforare i carri armati con un getto incandescente, vennero lanciati contro il castello sfondandone il tetto. I partigiani riuscirono tuttavia a resistere alcune ore, fino all’arrivo di altri distaccamenti della Val Luretta, che costrinsero gli assalitori alla ritirata.
La battaglia, sebbene vittoriosa, oltre che a Gino Cerri costò la vita a Lino Vescovi, il “Valoroso”, a Carlo Ciceri e ad Aldo Passerini. Al “Valoroso”, capo carismatico e audace, hanno dedicato due statue in bronzo sia la rocca Monticello (suo luogo di morte), sia il cimitero Monticelli d’Ongina (suo paese natale). Entrambi i monumenti sono opera dello scultore Secondo Tizzoni e riproducono in maniera quasi fotografica le fattezze del giovane partigiano, ritratto armato, con scarponi da montagna e pantaloni corti.