Bologna provincia
La lenta ritirata tedesca verso il Nord Italia si arrestò ai primi di agosto del 1944 fra Toscana ed Emilia, dove già dall’anno precedente era stato organizzato il complesso sistema difensivo della Linea Gotica. Nell’area montana bolognese erano infatti presenti quattro linee di difesa: la linea di Monghidoro, la linea di Loiano, la linea di Livergnano, detta anche “Caesar”, e quella di Pianoro detta “Gengis Khan” o “Winter Line”, in cui i tedeschi si trincerarono da metà ottobre ’44 a metà aprile ’45.
La guerra in montagna
Gli eventi bellici, che caratterizzarono una vera e propria guerra di posizione durata otto lunghissimi mesi, sono vividamente illustrati nel Plastico multimediale della Linea Gotica, visibile a Castel d’Aiano nella sala civica comunale. Su una scala 1:50.000 e una superficie di 5 metri per 2 è rappresentato tutto l’Appennino tosco-emiliano, dal Mar Tirreno all’Adriatico, con i suoi crinali, le valli, i fiumi e le strade che lo attraversano. Un sistema multimediale composto da luci, musiche, suoni, immagini e filmati d’epoca racconta la fase conclusiva della guerra in Italia, con il suo carico di battaglie, lotte partigiane ed eccidi di civili.
Un altro monumento simbolo della guerra in Appennino è il Museo Winter Line a Livergnano, frazione di Pianoro. Il borgo rappresentava un formidabile caposaldo della difesa tedesca, che sfruttava lo sperone naturale per costruire una serie di posizioni fortificate in grado di dominare il campo di battaglia per chilometri. Già noto per le numerose case incastonate nella roccia, Livergnano oggi ospita il piccolo museo all’interno di una grotta. Durante la guerra, il vano fu prima utilizzato come rimessa per un carro armato tedesco, poi come rifugio per i soldati americani. Gestito da alcuni appassionati locali, il museo mette a disposizione del pubblico un’interessante raccolta di materiali militari abbandonati dai contendenti durante il passaggio del fronte, e ritrovati nella zona in anni di pazienti ricerche.
Una raccolta di cimeli militari simile a questa è stata allestita fin dal 1978 a Castel del Rio: è il Museo della Guerra-Linea Gotica, nato grazie all’impegno di alcuni cittadini che hanno recuperato personalmente molti dei reperti esposti. In questo caso siamo nei pressi di Monte Battaglia, tra le valli del Senio e del Santerno. La collezione è ospitata nel cinquecentesco Palazzo Alidosi, al centro del piccolo borgo, e contiene circa 1.600 pezzi con prevalenza di armi, attrezzature, materiale bellico e divise (peculiare il kit per posa e bonifica di campi minati). Di particolare rilievo la prestigiosa collezione di radio militari prodotte tra il 1930 e il 1970, di provenienza inglese, tedesca, statunitense e italiana. Infine una biblioteca tematica, anch’essa frutto di donazioni, raccoglie circa 1.500 testi.
Monte Battaglia, nella valle del Santerno che da Imola sale verso l’Appennino toscano, fu teatro di una guerra di posizione sanguinosa tra il 27 settembre e l’11 ottobre 1944. Il rilievo, sul cui apice sono ancora visibili i resti di una rocca risalente al periodo longobardo, era già stato campo di battaglia per tutto il medioevo a causa della sua posizione strategica. In questa porta d’accesso alla Pianura Padana, nell’autunno del ’44, tra la rocca e il bosco circostante venne combattuta una sanguinosissima battaglia, con migliaia di perdite tra morti, dispersi e feriti.
Ai combattimenti parteciparono da protagonisti anche i partigiani della Trentaseiesima brigata “Bianconcini”, oltre agli americani del Trecentocinquantesimo reggimento “Blue Devils” e agli inglesi della First Guards Brigade. A loro sono dedicate le lapidi che sulla sommità del monte circondano il monumento bronzeo “alla Resistenza, alla Liberazione e alla pace tra i popoli”, in cui lo scultore Aldo Rontini ha rappresentato Davide che sconfisse il gigante Golia: la vittoria della ragione e della civiltà sulle forze della sopraffazione. Altre lapidi sono affisse sulle pareti del mastio medievale, mentre sulle pendici del monte sono ancora riconoscibili numerose trincee.
L’eccidio di Monte Sole
Tra i luoghi-simbolo della guerra in Appennino c’è il Monte Sole, all’interno dell’omonimo Parco regionale che copre un’area di circa 6.300 ettari. Nel territorio compreso tra i comuni di Marzabotto, Monzuno e Grizzana Morandi si consumò l’eccidio che tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 costò la vita a 770 individui, tra civili e partigiani (di cui 216 bambini sotto i 12 anni).
Principale responsabile della strage fu il battaglione della Sedicesima divisione granatieri corazzati SS, comandato dal maggiore Walter Reder, che con la partecipazione di informatori italiani, mise in atto una vera e propria operazione militare “allo scopo di bonificare il retro del fronte dal pericolo minaccioso di disordini partigiani”.
Sul posto c’erano piccoli villaggi, borghi e case sparse, in cui risiedevano famiglie contadine e numerosi sfollati. Vi operava la brigata partigiana Stella Rossa, guidata da un giovane del luogo, Mario Musolesi detto Lupo, che perse la vita nelle prime ore dell’azione militare. I partigiani si dispersero convergendo per lo più verso Monte Sole e Monte Caprara, senza essere inseguiti dai tedeschi, che non avevano l’obiettivo di combattere ma di fare terra bruciata, uccidendo gli abitanti, distruggendo le case, razziando il bestiame. Il massacro riguardò tutti i centri principali disseminati sulla collina (San Martino, Caprara, Casaglia, Cerpiano) e diverse decine di luoghi sparsi. Sei giorni dopo, dei borghi in cui si consumò la strage non restavano che poche rovine.
I luoghi dell’eccidio sono raggiungibili oggi con percorsi di trekking a piedi o in bici, a partire dal punto informativo della Fondazione Scuola di Pace, un istituto che promuove iniziative di formazione e di educazione alla pace e alla nonviolenza. Di fronte alla Fondazione, all’incrocio tra via San Martino e via Casaglia, nel 1985 è stato collocato il Monumento alle vittime, costituito da un muro di pietre su cui sono installate quattro lapidi con scritte in bronzo e una scultura in ferro. La lastra più grande riproduce una mappa della zona di Monte Sole con le località in cui i nazisti operarono le stragi e il numero delle vittime per ciascuna di esse. La scultura con la figura di Cristo è opera dell’artista bolognese Luciano Nenzioni (1916-2007) ed è stata realizzata in ferro da don Ilario Macchiavelli, allora parroco della frazione di Gardelletta. La cripta della chiesa parrocchiale ospita il Sacrario ai caduti, che raccoglie i resti delle vittime civili e partigiane della strage.
All’esterno del municipio di Marzabotto c’è il monumento alla Resistenza, scultura in cemento di Nicola Zamboni e Antonio Papa, con figure umane dolenti raccolte in cerchio, ispirate all’arte etrusca della vicina necropoli. La cima di Monte Sole venne conquistata dagli Alleati solo nell’aprile del 1945, in particolare grazie all’azione della Sesta Divisione Corazzata sudafricana. I pesanti bombardamenti di artiglieria, oltre al fatto che la zona era stata pesantemente minata, provocarono la morte di oltre ottocento uomini, di cui 300 alleati e 500 tedeschi.
I cimiteri di guerra
Nei pressi di Castiglione dei Pepoli fu individuato un terreno rivolto verso monte Sole che fin dal novembre del 1944 divenne il luogo di sepoltura dei caduti della Sesta Divisione corazzata. Ogni corpo, avvolto in una coperta legata all’altezza dei piedi, della vita e della testa, veniva sepolto, anche con l’aiuto di civili locali assoldati per questo lavoro.
Oggi il Castiglione South African Cemetery accoglie le spoglie di 502 caduti, di cui 401 sudafricani, 99 britannici e 2 indiani. Come per gli altri 36 cimiteri in Italia del Commonwealth, il progetto è opera dell’architetto Louis De Soissons. In una lapide posta all’interno del muro confinario, si legge: “Il suolo di questo cimitero è stato donato dal popolo italiano per l’eterno riposo dei marinai, soldati e aviatori alla cui memoria è qui reso onore”.
A poca distanza da Castiglione dei Pepoli, in una sommità che domina il Passo della Futa, nell’area in cui si trovavano le opere difensive della Gotica, agli inizi degli anni Sessanta del Novecento venne costruito il più grande cimitero di guerra tedesco (tra i 14 presenti in Italia). Progettata dall’architetto Dieter Oesterlen, l’opera è stata inaugurata nel 1969 e conserva le spoglie di 30.600 caduti tedeschi. Il disegno si presenta come una lunga spirale di 2 chilometri che sale cingendo la montagna, fino a interrompersi improvvisamente davanti a un muro piramidale troncato, su cui sorge una terrazza: su di essa si innesta una sorta di vela, che appare come un’ala spezzata rivolta verso il cielo. Il cimitero della Futa si trova in territorio toscano ed è curato dalla Volksbund Deutsche Kriegsgräberfürsorge (Servizio per le onoranze ai caduti germanici), con l’aiuto del governo della Repubblica Federale Tedesca e in stretta collaborazione con le istituzioni italiane.
Altri due cimiteri militari si trovano alle porte di Bologna, nella zona del torrente Savena, da cui gli Alleati entrarono in città dirigendosi verso Porta Mazzini. Il primo, il Cimitero di guerra polacco, con i suoi 1.432 militari caduti sulla Linea gotica e per la liberazione del capoluogo emiliano, è la più grande tra le quattro necropoli militari polacche in Italia. I soldati, provenienti da Montecassino e appartenenti al Secondo corpo di spedizione polacco, contribuirono prima alla liberazione di varie località dell’Appennino forlivese (fra cui Predappio), e poi alla liberazione di Bologna, sotto il comando del generale Władysław Anders: a lui è dedicato il monumento che si trova all’ingresso.
Realizzato su iniziativa dello stesso Anders tra luglio e dicembre del 1946, il cimitero è stato progettato dal sottotenente architetto Zygmunt Majerski. Gli elementi ornamentali furono progettati e realizzati dall’architetto e scultore Michał Paszyna, con l’ausilio di alcuni scalpellini italiani. Come in ogni cimitero polacco coesistono tombe di diverse religioni, testimoniate dalla croce latina dei cattolici e protestanti, dalla doppia croce degli ortodossi, dai simboli musulmani e buddisti. Al centro, sotto un portico con otto snelli pilastri, si trova l’altare. Alle spalle del ripiano è stata ricavata una cripta con lapidi che rievocano il sacrificio dei polacchi in Italia.
A fianco di questo luogo di memoria è visibile il secondo cimitero di guerra esistente in zona, il Bologna War Cemetery, che ospita 184 tombe di militari appartenenti alle forze alleate che hanno combattuto sotto il comando del Regno Unito: 125 tombe sono di soldati inglesi, 31 di canadesi, 11 di sudafricani, 5 di neozelandesi, 3 di indiani, 3 di australiani, 2 di maltesi, 1 di un palestinese e 1 di un membro del Pioneer Corps del Sudafrica.
Il Museo Memoriale della Libertà
Dal 2000, a poca distanza dai due cimiteri di guerra bolognesi, esiste il Museo Memoriale della Libertà, fondato da Edo Ansaloni, partigiano appassionato di fotografia, che da adolescente ritrasse con la sua cinepresa scene della guerra e della liberazione di Bologna. Il Museo è composto da un parco veicoli, con mezzi di trasporto usati durante la Seconda guerra mondiale (tra questi, un carro armato Sherman originale), una mostra fotografica di riferimento nazionale e un memoriale composto da cinque scene di guerra ricostruite con diorami.