Prima le cose delle parole. Intervista a Raffaello Baldini a cura di Manuela Ricci
NELL'ESTATE 1996, Casa Moretti di Cesenatico ha organizzato e ospitato nella suggestiva cornice delle stanze già appartenute al poeta Marino Moretti, e oggi divenute museo, la mostra bibliografica "Caro gergo natio", dedicata alla letteratura in dialetto di Romagna con una scelta degli autori e dei testi più significativi, curata da Giu seppe Bellosi e Maria Laura Troncossi.
Suggerita soprattutto dal fenomeno, di sempre maggiore diffusione, dell'uso letterario del dialetto in Romagna, la mostra si è presentata come il primo contributo all'organizzazione di materiali talvolta poco noti e di non facile reperibilità, tracciando un profilo storico dei diversi generi letterari - e degli studi relativi - attraverso l'esposizione di esemplari provenienti da raccolte private e dalla biblioteca di Casa Moretti, nei quali spesso al valore letterario si unisce il pregio della rarità bibliografica.
La sera dell'inaugurazione della mostra, si è tenuto nel vicino Teatro Comunale un incontro con il poeta Raffaello Baldini, vincitore quest'anno del Premio Bagutta con Ad nòta, la sua quarta raccolta di versi in dialetto romagnolo (le precedenti sono E' solitèri, Galeati 1976, La nàiva, Einaudi 1982, Furistir, Einaudi 1988) Alla serata, presieduta da Renzo Cremante, del Comitato Scientifico di Casa Moretti, ha preso parte anche Giuseppe Bellosi, studioso e poeta lui stesso. In quell'occasione abbiamo posto a Raffaello Baldini alcune domande sul dialetto e sullo scrivere in dialetto. Ecco le sue risposte.
Anche se può apparire scontato, credo sia opportuno conoscere innanzitutto le motivazioni della sua scelta: scrivere in dialetto.
E' una domanda forse inevitabile. Alla quale ci può essere più di una risposta, compreso "Non lo so", che sembra una non risposta, ma non lo è. Un'altra risposta può essere questa: uno s'accorge che quel che vuol raccontare succede in dialetto e che tradurlo significa in fondo raccontarlo non come è realmente successo. Questa risposta chiarisce che la scelta del dialetto, almeno per me, non è stata assolutamente in negativo. Non è che io ho scelto il dialetto perch‚ l'italiano non funziona. L'italiano funziona splendidamente da parecchi secoli, in italiano si sono scritte, si scrivono, e si scriveranno, cose meravigliose. Solo che, come dicevo, ci sono, in Italia, in questa Italia che ormai parla tutta in italiano, ed è un gran bene, ci sono ancora situazioni, persone, paesaggi, storie, che succedono in dialetto e che è ragionevole lasciare in dialetto. Perch‚, non dimentichiamolo, chi scrive oggi in dialetto è bilingue. Tanto bilingue che in questo momento, le ragioni del dialetto, io (e non solo io e non solo in questo momento) le dico in italiano (il che fa parte di quel paradosso che, come ho avuto già modo di osservare, costituisce lo scrivere in dialetto oggi). Ora, questo signore bilingue può scegliere di scrivere anche in italiano. Se scrive in dialetto è perch‚ di fatto non ha scelta. E a questo punto può venire da domandarsi come quel signore bilingue vive il suo bilinguismo. Io, per me, devo confessare che la risposta è parecchio difficile. Posso esprimere solo impressioni, sensazioni, che daranno magari, e me ne scuso, nel pittoresco. Per esempio, io ho la sensazione che in italiano sei tu che parli; in dialetto è lui, è il dialetto che parla, tu devi solo secondarlo, andargli dietro, obbedirgli. L'italiano è in piedi, il dialetto è seduto. Basta contare, e lo senti: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici, dodici...éun, déu, trèi, quàtar, zéinch, si, sèt, òt, nóv, dis, óngg, dògg...
Detto in linguaggio da caserma, l'italiano è sull'attenti, il dialetto è in posizione di riposo, in italiano sei in servizio, in dialetto sei in libera uscita. In italiano puoi dire tutto, in dialetto no, non puoi dire tutto, ma alcune cose puoi dirle meglio che in italiano.
L'italiano è un porto di mare, il dialetto è un porticciolo fuori mano. Se vuoi parlare in italiano ormai devi sapere anche l'inglese; se vuoi parlare in dialetto devi sapere anche l'italiano, e in effetti oggi il dialetto non è mai puro, ci si mescola sempre dell'Italiano. In italiano ci sono lingua e grammatica, lingua e sintassi; in dialetto no; una battuta che ancora si sente è: quello l parla in italiano ma non sa la grammatica, non sa la sintassi; cioè, italiano e grammatica italiana sono in qualche modo separabili; invece non senti mai dire: quello là parla in dialetto, ma non conosce la grammatica, sarebbe un non senso. A parlare in italiano si può sbagliare, a parlare in dialetto non si sbaglia mai. In italiano vengono prima le parole delle cose, in dialetto vengono prima le cose delle parole. Ripeto: sono solo sensazioni, impressioni. Di chi ha conosciuto il mondo, da bambino, parlando in dialetto ed è arrivato all'italiano un po' dopo. In realtà, se ci pensi, non eri solo tu che parlavi in dialetto, era tutto il mondo, e non solo la gente. Parlavano in dialetto anche le cose, appunto. Da cui la sensazione che il dialetto sia più dentro le cose dell'italiano, che il dialetto sia sostanza e l'italiano vernice. Da cui in fine il pericolo maggiore che corre il dialetto oggi: di diventare, da sostanza, vernice.
A proposito del dialetto sempre più mescolato con l'italiano, si avverte anche nei suoi versi, via via che passano i titoli, una progressione, un infittirsi di termini e battute in italiano...
Beh, l'essenza del dialetto, almeno per me, è l'oralità. Per me il dialetto, ho già avuto occasione di dirlo, è un animale orale. Può darsi anche che questa sia una sensazione dovuta al fatto che il mio dialetto non ha tradizione scritta. Il primo testo in santarcangiolese è I scarab¢cc di Tonino Guerra del 1946. Fatto sta che se si vuole restituire l'oralità del dialetto non si può non registrarne la crescente mescolanza con l'italiano.
Basta passare mezz'ora al caffé per accorgersene. Una volta i "dialettanti" parlavano italiano solo col dottore e con il maresciallo dei carabinieri. Oggi se vogliono parlare di questo o di quello devono metterci molto italiano, perché questo o quello o quell'altro, insomma quasi tutto (non tutto) succede in italiano. Addirittura c'è qualcuno che dice che oggi quasi tutto succede in televisione. E dato che, come pure si dice, gli italiani hanno imparato l'italiano alla televisione...
Possiamo partire dagli inizi? Come è cominciato? Giuseppe Bellosi ipotizzava che l'esperienza di Guerra, e la pubblicazione de I bu, sia stata trascinante anche per gli altri amici di Santarcangelo. Il "Circolo del giudizio" fu importante?
L'ipotesi di Bellosi è legittima. Quanto al "Circolo del giudizio", fu un'esperienza certo importante, ma remota rispetto a I bu. (E forse è il caso di ricordare, non per pedanteria, che il nome era "e' circal de giudeizi", in dialetto, anzi, non il nome, piuttosto il "soprannome", affibbiatoci da qualcuno, in chiave chiaramente ironica, e che divert anche noi quando lo sapemmo).
Nell'incontro avvenuto nel teatro di Cesenatico è stato molto suggestivo il suo inizio con la lettura di A Cesena di Marino Moretti. Ripensando a quella lettura, ho ritrovato delle analogie fra lei e il poeta di Cesenatico: una poesia prosastica e la vocazione teatrale. Entrambi avete scritto per il teatro.
La ringrazio per l'analogia. Quanto alla prosa, tentare di restituire l'oralità del dialetto è tentare di cogliere il parlato quotidiano e il parlato quotidiano è inevitabilmente prosastico. Non solo. Il parlato è anche in qualche modo teatrale. E può capitare che a un certo momento quel parlato si sciolga dai versi e si affidi alla voce di un attore.
Ha mai pensato lei di fare l'attore? Glielo chiedo perch‚ le sue letture sono sempre molto coinvolgenti. Ho visto persone che non capiscono il dialetto ridere e commuoversi durante queste serate.
Quando penso agli attori mi viene sempre una domanda demenziale: ma come fanno a ricordarsi tutta quella roba? Non escludo d'aver pensato qualche volta che avrei potuto fare l'attore. Nella vita si pensano tante cose. Ma ci avrò pensato per un attimo: io sono del tutto sprovvisto di memoria.
Pier Vincenzo Mengaldo dice nella prefazione di Ad nóta che è ancora vivo il pregiudizio secondo cui uno scrittore in dialetto è un "minore"...
Beh, i pregiudizi hanno una vita lunga. In fondo, il pregiudizio sul dialetto non è senza una sua logica. Gli scrittori in dialetto sono dei minori perch‚ scrivono in una lingua minore. Senonch‚ anche la minorità del dialetto è un pregiudizio. Se il dialetto non è, come non è, una nomenclatura, ma una lingua, non c'è problema n‚ di minorità n‚ di maggiorità. Semplicemente c'è una realtà italiana e c'è (ancora) una realtà dialettale. Qualcuno dice che scrivere in dialetto è in sostanza una fuga: è con l'italiano oggi che si deve fare i conti, è in italiano che si gioca la vera partita. E qualcun altro dice che scrivere in dialetto è come nuotare con le pinne. Perch‚ chi scrive in italiano deve inventarsela la sua lingua, mentre chi scrive in dialetto ce l'ha bell'e pronta per l'uso. Insomma, il dialetto, se non è una fuga, è una scorciatoia. Resta solo da chiedersi se è proprio vero che il dialetto è una lingua bell'e pronta per l'uso. Di fatto, il milanese di Loi non sembra il milanese di Tessa, e il friulano di Giacomini non sembra il friulano di Pasolini. Succede anche, qualche volta, che davanti a un testo in dialetto qualcuno noti e faccia notare una parola o un'espressione "non dialettale", una parola o un'espressione, come dire?, stonata, impropria, mal imprestata dall'italiano, fuori posto. E quasi sempre quella parola o quell'espressione suona davvero stonata, impropria, fuori posto. Ma davanti a un testo italiano questo non succede mai. Perché? A questa domanda non so rispondere.
Forse la connotazione di secondario, di minore, è venuta al dialetto perché il dialetto si identifica con la realtà di provincia. Anche se, come sappiamo bene tutti, da Renato Serra il concetto di "provincia" è stato giustamente rivalutato.
La lingua italiana è una, i dialetti sono molti. Forse più che la loro obiettiva incomprensibilità, ha pesato la loro molteplicità. L'unità è sempre rassicurante il molteplice, non dico che spaventa (anche se non lo escludo), ma mette in difficoltà. Uno si trova a sfogliare un'antologia di versi dialettali, deve saltabeccare dal piemontese al veneto, dall'abruzzese al genovese, dal napoletano al siciliano, e ha pure il diritto di sentirsi un po' sbalestrato. Ma forse, anche, la condizione di minorità viene al dialetto da suo tradizionale ruolo di controcanto comico al canto alto dell'i ta liano. Il comico da noi è sentito come un registro minore. Si può anche consentire che far ridere è più difficile che far piangere, ma lo si considera meno serio.
La sua poesia è popolata di personaggi. Personaggi che si raccontano. Che, come ha osservato Franco Brevini, nei primi libri sono veri e propri casi clinici, e nei successivi appaiono più comuni, quasi normali, anche se rosi dentro da tarli tormentosi. Vogliamo parlare di questi signori?
Non credo d'essere la persona giusta. Non ne so molto. So che sono gente che si può incontrare in piazza, al cinema, al caffè. Con cui magari conversiamo amabilmente tutti i giorni. In fondo, sono gente, credo, almeno spero, come noi. Soltanto che loro parlano, parlano, si parlano addosso. Noi no. Ed è meglio così.
In questi ultimi anni si è assistito a un fiorire della poesia dialettale e di conseguenza a un accendersi dell'attenzione dei critici verso il genere. In Romagna poi il fenomeno appare vistoso. C'è addirittura un "caso Santarcangelo". Come lo spiega?
Non lo spiego. Credo si tratti di una coincidenza. Il mondo è pieno di coincidenze. C'è addirittura chi le studia.
Più in generale, riesce a spiegarsi il crescere, in tutte le regioni d'Italia, della poesia dialettale?
Forse lo sbocciare di tanti particolarismi è una risposta a un generalismo incombente. Non ci sono mai state, credo in Europa, rivendicazioni localistiche cos forti, dalla Corsica alla Catalogna, dal Tirolo alla Slovacchia (per citare quelle meno drammatiche), come da quando l'Europa s'è incamminata sulla via dell'unità. Forse, analogamente, il rivitalizzarsi (ma non esageriamo) dei dialetti risponde a un bisogno di identità a un sentimento frustrato di appartenenza.
Che dentro questa "rivitalizzazione" ci sia anche un po' di nostalgia? In dialetto il passato ci appare più vicino e il confronto col presente più malinconico.
Forse. Ma il passato gronda anche di miseria e di sofferenza. Io sono solito dire che oggi si sta molto peggio e molto meglio che una volta.