Il parlante autocosciente è "garantito". L'esempio tedesco, Giovanni Nadiani
SECONDO CIFRE circolanti a Bruxelles, dei 350 milioni di cittadini dell'Unione Europea, circa 50 milioni parlano una lingua diversa da quella dello stato di appartenenza. Nell'U.E. vi sono più di 40 lingue ben radicate nell'uso quotidiano di cui, però, soltanto undici sono riconosciute come ufficiali. Ad esclusione del Portogallo, non esiste uno stato membro che non abbia minoranze linguistiche all'interno del suo territorio. L'U.E. potrebbe essere, dunque, tranquillamente definita oltre che una comunità di stati, una grande comunità di popoli, culturalmente complessa e variegata.
Se da un lato la stragrande maggioranza delle persone residenti nelle aree linguistiche minoritarie degli stati membri dell'U.E. può considerarsi senz'altro come bilingue, e quindi in grado di comunicare nella lingua maggioritaria dando nel contempo un contributo particolare alla rispettiva cultura maggioritaria, per converso i parlanti una lingua minoritaria raramente possono far valere nella vita pubblica gli stessi diritti linguistici spettanti ai parlanti la lingua maggioritaria di quel determinato stato, con tutti gli svantaggi del caso.
Ma che cosa si intende per "lingua minoritaria" ovvero "regionale", ovvero "meno diffusa" secondo l'importante (per tutta una serie di provvedimenti e relativi impegni finanziari) terminologia comunitaria? Se è difficile cogliere con una precisa e univoca definizione i molteplici e sfumati aspetti di tale problematica, si possono comunque distinguere alcuni grandi gruppi di lingue minoritarie: a) lingue nazionali non impiegate come lingue di lavoro dell'U.E.: irlandese e lussemburghese; b) comunità linguistiche ristrette senza stato proprio presenti in uno stato membro: bretone, gallese, friulano ecc.; c) comunità linguistiche ristrette senza stato proprio presenti in due stati membri: basco, catalano, occitanico ecc.; d) lingue di gruppi etnici minoritari in uno stato, maggioritari in un altro: tedesco (I, B), francese (I), danese (D) ecc.
Pur variando da paese a paese il grado di riconoscimento, lo status, l'uso e la promozione delle diverse lingue minoritarie, una caratteristica comune a tutte è, tuttavia, il limitato impiego nella vita pubblica. Fondamentale per la salvaguardia di queste lingue e dei diritti dei relativi parlanti è, comunque, il fatto che l'U.E. ne abbia riconosciuto ufficialmente il valore e la dignità con specifiche risoluzioni votate dal Parlamento Europeo, con il varo di un intergruppo parlamentare delegato a tale problematica e con la stretta collaborazione con il Bureau europeo per le lingue meno diffuse. Dal 1992 esiste, inoltre, la convenzione per la Carta delle lingue regionali e minoritarie del Consiglio d'Europa, vincolante dal punto di vista giuridico per gli stati membri che l'abbiano ratificata.
Questo lungo preambolo per dire che cosa? Che anche nell'Europa delle regioni e dei popoli si sta linguisticamente delineando un'Europa a diverse velocità: quella delle cosiddette "grandi lingue di cultura" (si senta tutta la prosopopea nazionalistica di una simile definizione!); quella delle lingue meno diffuse "garantite"; quella, infine, delle lingue "precarie", "bastarde", figlie misconosciute, dei dialetti insomma.
Astutamente (e giustamente, ben sapendo cos'è in palio) i funzionari dei singoli paesi addetti alle "lingue regionali e minoritarie" riferendosi ai loro codici si guardano bene dall'usare anche solo minimamente il termine "dialetto", quasi fosse sinonimo di "appestato", bench‚ in molti casi e sotto diversi aspetti sia quasi impossibile non considerarli tali. Ma spesso dietro un semplice gioco di definizioni si rivela ben altro: la forte autocoscienza dei parlanti una data lingua, un dato dialetto.
Non so se l'Italia abbia ratificato o no la Carta del 1992, certo dalle nostre parti non si sono avute molte notizie circa la volontà popolare - e quindi politica - dei romagnoli, degli emiliani o di altri parlanti dialetti della penisola per far ancorare le loro parlate nella Carta in qualità di "lingue regionali" garantendo loro un nuovo status giuridico e, dunque, forse un futuro "parlato". Non mi è giunta voce che qualche parlamentare romagnolo abbia alzato la propria usando il suo dialetto in parlamento per sensibilizzare questo sulla richiesta dei romagnoli a far parte della Carta.
A tanto sono giunti, invece, nel Bundestag tedesco i deputati dei Länder del Nord della Germania dove si parlano i dialetti basso-tedeschi (Plattdeutsch) parenti stretti dell'olandese più che del tedesco vero e proprio. E ormai è certo che il Plattdeutsch (bench‚ sia solo un'espressione per definire un insieme di dialetti consimili, in assenza di una koiné, con una "vita pubblica" che ricorda da vicino quella dei nostri dialetti) verrà accolto nella Carta europea con tutti i benefici finanziari che ne conseguiranno e che potranno contribuire e ridefinirne anche lo status d'uso.
Ma un risultato del genere non si improvvisa, esso è il frutto di una forte pressione popolare che dal basso ha investito, in senso piramidale, gradino per gradino, le istituzioni fino ai vertici dei parlamenti dei Länder principalmente coinvolti (Bassa-Sassonia, Schleswig-Holstein, Meclemburgo, Amburgo, Brema) e, successivamente, di quello federale.
Un'operazione del genere non sarebbe comunque stata pensabile senza la forte e ramificata "infrastruttura culturale" costituita da una miriade di associazioni private e di enti pubblici già operante da tempo sul territorio e resa in gran parte possibile dal "vizio" tutto nordico di riunirsi in gruppi operativi (e eventualmente di pressione) legalmente riconosciuti (come le associazioni sportive o culturali) o spontanei (le iniziative civiche), ma soprattutto dal sistema federale tedesco.
E' a quest'ultimo che si deve la macroregionalizzazione radiotelevisiva postbellica di matrice pubblica, ancora ben solida nonostante l'invadenza della superficiale emittenza commerciale: come diretta conseguenza di ciò il parlante basso-tedesco può assistere mensilmente a un talk show dialettale di due ore nella fascia di maggior ascolto televisivo; ascoltare settimanalmente per un'ora un radio-dramma (da sempre considerato un genere letterario importante nei paesi nordeuropei); due volte alla settimana sintonizzarsi sul notiziario dialettale; stare a sentire quotidianamente la parola dei pastori luterani nonché‚ una rubrica di costume ad opera di scrittori basso-tedeschi.
A tutto ciò si devono aggiungere diverse altre trasmissioni settimanali in o sul dialetto a cura delle redazioni regionali minori. In Germania anche l'istruzione è di competenza dei L„nder; ciò ha facilitato la creazione a livello universitario di numerose cattedre di filologia germanica specializzate in dialettologia o letteratura basso-tedesche con conseguente ricaduta sull'istruzione secondaria, sia nella formazione dei docenti di tedesco, nella produzione di materiale didattico o nell'attività curricolare, sia, infine, nell'offerta di corsi "dialettali" all'interno delle diffusissime università popolari.
All'impegno finanziario delle regioni-stato unitamente a quello di fondazioni e enti privati si deve anche l'ormai trentennale e importantissima attività di ricerca e di archiviazione dell'Institut fr niederdeutsche Sprache (Istituto per la lingua basso-tedesca) con sede a Brema, vero punto di raccordo documentario e scientifico per tutta la realtà basso-tedesca.
Restando ancora in ambito istituzionale bisognerà citare almeno l'impegno finanziario delle città-stato di Amburgo e Brema a favore dei rispettivi teatri dialettali professionali, le cui produzioni non di rado vengono riprese dalla televisione pubblica. Date queste premesse, ricordare che opere letterarie di qualità, ambiziosi progetti di ricerca folklorica, produzioni musicali e cinematografiche vengono sovvenzionate pubblicamente (tra l'altro per il tramite di proventi di varie lotterie regionali) suona quasi come una banalità.
In una fase economicamente critica per il mondo culturale tedesco dove imperversa il massimo risparmio, a causa dell'immane costo dovuto alla "ricostruzione" della parte orientale del paese susseguente all'unificazione (tutto è, comunque, relativo: in Germania, ad es., sono tutt'ora operanti più di cento orchestre sinfoniche, più di Italia, Francia e Inghilterra insieme), la continuità nell'impegno morale e soprattutto finanziario degli enti pubblici verso le attività dialettali è soggetta a un serrato controllo da parte delle associazioni dei parlanti, siano esse le tantissime compagnie teatrali amatoriali; la rivista filologico-letterario "Quickborn" con le sue migliaia di abbonati; la società organizzatrice della "Bevensen-Tagung", l'annuale convegno di tutti gli specialisti plattdeutsch giunto alla sua 49a edizione; la "Freudenthal-Gesellschaft", società impegnata annualmente nella gestione di un importante convegno nazionale sulla cultura e letteratura regionali e nell'attribuzione dell'omonimo premio letterario riccamente dotato; tutte realtà, accanto a moltissime altre, in grado, alla bisogna, di mobilitare i rispettivi soci e simpatizzanti, in soldoni: una buona fetta di elettorato! A rafforzare l'autocoscienza linguistica dei parlanti il basso-tedesco ha contribuito nell'ultimo ventennio anche un fenomeno che non ha paragoni in Europa: l'impegno a tappeto dei tanti pastori e pastore protestanti del movimento "Plattdtsch in de Kark" (Il basso-tedesco in chiesa), sia sotto l'aspetto della ricerca storica e teologica - tutto esclusivamente scritto in dialetto -, sia sotto l'aspetto pratico delle funzioni religiose. Del resto a suo tempo Lutero, padre del tedesco ufficiale e propugnatore di una evangelizzazione a misura di parlante, per portare a successo la riforma nelle regioni settentrionali dovette far tradurre la sua Bibbia in basso-tedesco dall'allievo Bugenhagen. Insomma, volendo il parlante basso-tedesco può oggi di nuovo pregare in dialetto (per qualsiasi credente italiano un tabù).
Alcune delle esperienze citate finora si potrebbero estendere anche ad altre aree dialettali tedesche, soprattutto meridionali. Non è un caso, infatti, che proprio in Austria oltre vent'anni fa scrittori e poeti dialettali provenienti dalle diverse regioni tedesche abbiano dato vita all'I.D.I. (l'Istituto internazionale per i dialetti e le lingue regionali) (attualmente ha sede ad Innsbruck e raccoglie membri di molti paesi europei), allo scopo di impegnarsi direttamente nella promozione di una forte coscienza linguistica dialettale rispettosa della diversità e desiderosa di arricchirsi nell'alterità, in questo differenziandosi notevolmente dai nostri pur grandi (o grandissimi) poeti dialettali, da sempre frenati nel loro engagement dal sentirsi figli della "lingua di ieri".
In assenza di questa coscienza degli ancora-parlanti, privi di lobbies istituzionali (si pensi solo al ridicolo trattamento economico riservato in sede regionale alla legge per la promozione dei dialetti), saranno dunque le parlate emiliano-romagnole destinate a un irriversibile e precipitoso patoisement (l'abbandono progressivo di una data lingua, perch‚ considerata poco prestigiosa e utile, a favore di un' altra)? Molte cose lo lasciano presupporre, tanto più che certe assurde rivendicazioni localistiche da "sciovinismo del benessere" stanno minando alla radice il grande lavoro intellettuale di tanti, singole personalità o gruppi organizzati, che, in tempi di globalizzazione incombente, aveva contribuito a creare un clima favorevole alla dialettalità, provocando come reazione un duplice, assurdo ostracismo: da una parte in senso passatisticamente nazionalistico; dall'altra illuministicamente snobbante.
E per difendere l'identità italiana (che molti fanno coincidere con il fantomatico italiano medio da tutti parlato) si rivanga, mutuandolo, il vecchio preconcetto già sfruttato contro il bilinguismo: una lingua, un'identità, una persona: una lingua, un'identità, una nazione. Ma come ogni bi- o plurilingue senza crisi di identità può confermare (quasi il 70% della popolazione mondiale e, secondo l'ultimo sondaggio Doxa, il 62% di quella italiana), l'identità, anche di una nazione, è cosa ben più complessa e misteriosa per restringerla all'uso esclusivo e limitante di una sola lingua.