Da Salimbene a Pascoli, Fabio Marri
rivista IBC IV, 1996, 4
UNO SGUARDO SULLA LETTERATURA nei dialetti emiliani potrebbe cominciare addirittura dalla simpatica cronaca latina di fra Salimbene da Parma, che verso la metà del Duecento trascrisse fedelmente vari frammenti poetici pescati in regione; o dai Memoriali dei notai bolognesi, che accanto a pezzi d'autori illustri conservano qualche componimento in cui l'ambientazione popolaresca si sposa a una lingua decisamente emiliana, se non bolognese, e ricca di tratti vernacolari. Esemplare è la ballata Pur bii del vin, comadre (1282), che descrive le gesta pantagrueliche di due signore tra gnocchi e lasagne, capponi lardellati e uova, barili e botticelle di vino. Contemporanea alla poesia dei Memoriali è la narrazione delle lotte tra guelfi e ghibellini negli anni 1274-1283, che leggiamo nel Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei e nel Serventese romagnolo.
Ma sarà il Quattrocento a valorizzare il dialetto quale componente della poesia giocosa. Come tappe di questa presa di coscienza citerei il bolognese Cesare Nappi (circa 1440-1518); poi il ravennate Bernardino Catti (umanisticamente, Lydius Cattus), che nell'edizione 1502 dei Carmina et eclogae pubblica un Sonetto romagnolo in cui la lingua italiana comune si concede robusti innesti di furbesco e di dialetto. Notevoli, infine, le invettive politiche di ambiente ferrarese: soprattutto i 32 sonetti integralmente dialettali, non posteriori al 1494, in un linguaggio che risente dell'Emilia e del Veneto polesano. I temi sono vari, pur nella comune prospettiva 'dal basso': si lanciano ad esempio strali su Niccolò Ariosto (padre di Ludovico, e degno precursore di Tangentopoli).
Col Cinquecento si arriva all'impiego del dialetto (inizialmente, misto all'italiano) nella commedia. Il primato cronologico per la nostra regione spetta a due faentini, Alessandro Caperano (Il Rifo, Il Melandro: Venezia 1508) e soprattutto Piero Francesco da Faenza (Commedia nuova, stampata a Firenze verso il 1545): qui un villano parla un vernacolo ancora cosparso di italianismi. Ma dalla fine del secolo la capitale del teatro in dialetto diviene Bologna, grazie all'esempio geniale del persicetano Giulio Cesare Croce (1550-1609), che non è specialmente noto come autore di testi teatrali ma la cui Filippa combattuta per amore da duoi villani, per esempio, ebbe una discreta serie di rifacimenti popolari. Sulla sua scia si misero in tanti, tra cui citerei il benedettino bolognese Adriano Banchieri per la sua attività nel campo della commedia musicale.
La fama di Croce è soprattutto affidata ai romanzi Bertoldo (stampato nel 1606) e Bertoldino (continuato da Banchieri col Cacasenno), capolavori che però appartengono alla storia della letteratura in lingua; e, quanto al settore specificamente dialettale, alle tantissime "canzoni di piazza", consegnate a foglietti volanti da distribuire durante fiere o mercati, e che in ossequio al variopinto pubblico introducono personaggi esprimentisi nei più disparati dialetti. Con Croce prende piede anche la figura, allora di recente creazione, del dottore in legge dall'eloquio strampalato, che avrà fortuna nella commedia dell'arte ed è giunta fino ai nostri anni col nome di dottor Balanzone (originariamente: dottor Graziano).
Col secolo XVII nasce un nuovo genere letterario, il travestimento dialettale di poemi celebri (Furioso, Liberata, Secchia rapita ecc.). Al Furioso si era ispirato, verso il 1591, un anonimo cesenate, autore di un Pulon (o Pvlon, `Paolone') matt del quale restano tre canti e mezzo.
Verso la metà del Seicento fu composta la prima poesia ravegnana (dopo l'assaggio del Catti): la Batistonata, cioè 'cicalata di Giovan Battista', quasi 850 versi di monologo messo in bocca a un ciarlatano da Lodovico Gabbusio. Proprio nello scorcio del secolo e, anzi, con un leggero sconfinamento nel successivo, cade l'esperienza dialettale del bolognese Lotto Lotti (1657-1714), che nel 1685 pubblicò i cinque canti in ottave Ch' n' ha cervel hapa gamb, ("o sia la liberazione di Vienna assediata dall'armi ottomane"), unendosi al giubilo di tutta Europa; e nel 1703 stampò a Milano i sei dialoghi Rimedi per la sonn da liezr alla banzola, che si proponevano di ammaestrare garbatamente il pubblico, lasciando da parte i toni farseschi e poggiando invece sul parlato quotidiano, quasi ad anticipare Goldoni.
Il Settecento e il primo Ottocento saranno ricchi di episodi dialettali, singolarmente non di grande portata, ma che vedranno coinvolti autori illustratisi in ben altri campi (dal grande Muratori a Giovanni Paradisi, per fare due nomi).
Se ci spostiamo agli anni dell'unità nazionale, quando è di nuovo il teatro ad assumere il rilievo maggiore, incontriamo il bolognese Alfredo Testoni (1856-1931), autore verso la fine del secolo di drammi interamente in dialetto, come Quell ch' paga l'oli, Mestreini, La sgnera Tuda, su argomenti 'seri' come il dissesto economico o la tragedia familiare; né possiamo dimenticare Il Cardinale Lambertini (in lingua ma con ampie spruzzate dialettali), che tiene ancor oggi le scene. Fuori dai teatri, Testoni fu apprezzato per il mezzo migliaio di sonetti della Sgnera Cattareina, una popolana che passa in rassegna trent'anni di cronaca e storia primonovecentesca.
Legato allo stesso ambiente di Testoni è Olindo Guerrini (1845-1916), un ravennate (santalbertese) trapiantato a Bologna, dove diventa famoso per varie opere erudite e per il clamoroso successo letterario delle poesie uscite col nome di Lorenzo Stecchetti.
Accanto al verso italiano Guerrini coltiva quello in dialetto, sia veneto (le Ciacole de Bepi, cioè di papa Giuseppe Sarto-Pio X), sia soprattutto romagnolo, in un libro di sonetti che è tuttora ristampato da Zanichelli. Come nel <commedione> di Belli, tutta la vita è filtrata e dissacrata attraverso le parole della gente, qui rappresentata dal cittadino Pulinera (Apollinare) e dal campagnolo Tugnazz.
Con Testoni e Guerrini, col loro umorismo bonario e 'sano', si chiude l'Ottocento anche per la letteratura dialettale: nuove inquietudini si affacceranno negli autori più giovani, per i quali (come ha visto Pasolini) sarà determinante, al pari che per i loro colleghi in lingua, la lezione di Pascoli.