Camillone
Se fosse uno dei vecchietti del bar, Camillone sarebbe quello più grande e grosso.
Quello con la canottiera bianca cannettata, madido di sudore, che sembra evaporare sotto il ciocco del sole ma che non si schioda dalla sua sedia. Sempre quella, dall’alba dei tempi.
Quello burbero per finta, che ti regala una caramella dopo un tozzone o che ti manda un colpo perché ti vuole bene. Invece non ha gambe, non ha braccia e nemmeno parla. Se ne sta giorno e notte spaparanzato a riflettere il cielo e a farsi grattare dalle pale dei salinari che per generazioni si son mescolati a lui, versando il sudore nelle sue vasche.
Camillone è vecchio. Vecchissimo. Sembra abbia sentito addirittura imprecare in latino. È l’ultimo sopravvissuto di una tribù di cento quarantanove esemplari, tutti convertiti alla modernità. Convertite, a dire il vero, perché le saline sarebbero femmine. Ma Camillone è un rude dalla barba di salicornia e ha lo spirito di un vecchio lupo di mare. È fatto di onde ormai quiete, rapite dai canali, e incarcerate nella piana per rubarne il tesoro.
Su di lui si lavora ogni giorno, lo si protegge con una sapienza che viene da lontano: ancora prima di quando le burchielle cariche di sale, con le corde come timoni, erano trainate su strade d’acqua fin davanti al Magazzino e alla Torre. I motori erano le braccia degli uomini che tiravano come tori. Tempi di visi color cuoio, in cui spostarsi in bici era un atto rivoluzionario, da moderni.
Camillone non distingue il bene dal male ma sa riconoscere la fatica e la passione degli uomini. Anche se non regala niente è un generoso e ripaga gli sforzi con un sale speciale, che è dolce.
È un romantico, in fondo. Ne ha viste e sentite di cotte e di crude ma da secoli non gli scappa nemmeno un segreto. Si tiene per sé la verità su Domenico, detto Minghinàz, che per ben due volte forzò il posto di blocco dei Carabinieri con la Moto Guzzi a scoreggetta. C’era la Ines in casa che lo aspettava tutta nuda e lui pensava solo a quello. Non si accorse della paletta quasi in faccia e dei due appuntati che balzarono per acciuffarlo al volo. Lui tirò dritto, intrepido. Ma per i tre giorni seguenti mancò dalla salina: se li fece in gattabuia.
Camillone ha assistito pacioso alla passione segreta di Angelina per Tazio Nuvolari. Lei lo pensava giorno e notte: persino mentre estraeva il sale rovinandosi le mani. A casa ritagliava dal giornale le foto del Mantovano Volante, come fossero Santini, e filava in Chiesa. Pregava di incontrarlo e di sposarlo. O Nuvolari, o niente. Poi cambiò idea e si convinse a diventar la moglie di Minghinàz, che di Nuvolari almeno aveva la stessa passione per i motori e il rischio. Più quella per la Ines.
Camillone ha superato chissà quante diavolerie della storia. Guerre di tutte i tipi, da quelle a suon di spada a quelle a colpi di moschetto, in cui ha protetto dalla fame, ha accolto famiglie sfollate e ha fatto bruciare, curandole, innumerevoli ferite. Sopporta tutto, tra la terra, l’acqua e il cielo. Tace e resiste. Quando le nuvole glielo consentono sfoggia dei tramonti da lasciare senza fiato, con le sagome scure dei fenicotteri e le montagne di sale bianco. Un miraggio di neve in piena estate.
Ogni sera che Dio manda in terra Camillone confeziona uno spettacolo diverso, sempre più bello. Sembra proprio che ci goda ad ostentare il suo fascino, a farsi fotografare e a strappare sospiri. In fondo, se non fosse anche un po’ “patacca”, non sarebbe un vero romagnolo.