A zonzo nei ricordi

racconto di Barbara Franceschini

Elena cammina veloce, contando i passi. La rilassa questo ripetitivo avvicendarsi dei numeri. 1, 2, 3 … fino a 100 e, di nuovo, da capo. Attraversa il grande parco del quartiere. Pausa nel verde. Boccata d’ossigeno nello smog cittadino. Un susseguirsi di aree pubbliche e giardini condominiali ben curati. Un alternarsi di alberi, piante, cespugli, fiori più o meno spontanei e di animali: gazze, corvi, picchi, merli, passerotti, fagiani, pappagallini e lumache che, coraggiose eppur fragili, escono allo scoperto dopo piogge abbondanti. Natura che narra il variare delle stagioni, regalando stupore a chi la sa ammirare. Foglie secche scrocchiano calpestate in autunno, gialla forsizia annuncia la primavera, cespugli di agrifoglio rigogliosi anche se non è Natale. Elena attraversa il grande campo: tarassaco, margherite e, ad agosto, fiori blu che la luce del primo mattino fan sembrare un mare d’argento. Giunge all’area pubblica dedicata ad Antonio Ivan Pini. Ce l’ha davanti il suo professore di storia medievale, a lezione e, soprattutto, il giorno del primo esame all’Università. Nonostante gli anni passati, ce l’ha davanti l’emozione di quella giornata e delle successive fino alla tesi. Ce l’ha ancora nel cuore lo sguardo dei vent’anni aperto sul mondo. Svolta, ora, per tratti lastricati e arriva alla pista di pattinaggio di via Lenin. Sotto alberi alti e frondosi ecco la ringhiera, l’accesso alla pista, le montagne di cartone, lei piccola col tutù, i pattini bianchi da campionessa. Scivolando leggera, passa oltre quelle montagne e cade. Vorrebbe piangere ma si rialza. Succede. Un applauso. L’incoraggiamento di suo padre, lì quella sera, tutto per lei. Arriva dunque al giardino CADUTI VITTIME UNO BIANCA. Inverno 1985. Per lei, a quei tempi, quello è il giardino della sua scuola.
Una straordinaria nevicata lo ricopre e appesantisce i rami degli alberi. Affondano i passi nella coltre alta, la calzamaglia rosa si bagna. Le palle di neve gelata. È un attimo schivarle o venirne colpiti, sepolti, diventare un bianco pupazzo di neve e riderne come solo sanno fare i ragazzi. Si siede sulla panchina che guarda il monumento alle vittime, ne osserva la particolare forma a piramide. D’un tratto s’accorge che oggi mancano le cicale. Solo ieri il loro verso incessante, ossessivo riempiva l’aria del parco, era colonna sonora delle attività quotidiane. Lo sguardo si perde. Alla mente ritorna un’immagine a marzo. “Accesso interdetto al pubblico” intimano alcuni cartelli apparsi all’improvviso sui tronchi degli alberi. Incredibile! Inimmaginabile! Ma è vero o è solo un sogno? Piuttosto un incubo. Tutti in casa, resta solo qualche passo guardingo e furtivo. E sui rari volti mascherine di vario tipo sostituiscono sciarpe e foulard colorati. Era il tempo in cui i prati iniziano a macchiarsi di viola e al primo sole sprigionano un profumo dolce che sa di buono come le camicette delle nonne. Elena, il suo parco, l’ha ritrovato solo all’inizio di giugno in una giornata straordinariamente fresca, per essere quasi estate, a Bologna. L’ha ritrovato a piccoli passi, prima timorosi ed incerti, via via riacquistando, a fatica, con cautela, la consueta frequentazione. In apparenza uguale a se stesso, quei mesi, il parco, l’hanno cambiato. A ben guardare gli anni l’hanno cambiato. Impercettibili mutamenti quotidiani, grandi trasformazioni nel tempo. Come il proprio volto ogni giorno allo specchio, che muta solo allo sguardo di chi non lo osserva da un po’. In una luminosità azzurra i post-it hanno ripreso a colorare le pagine dei libri che ora Elena può leggere all’aperto, dopo mesi passati fra le quattro mura di casa, avvolta finalmente in una nuvola profumata di tiglio. Distanziata sì, protetta certo, ma di nuovo immersa in una natura che dona quiete e ristoro. Riprende il cammino. In via Marx, sulla sinistra il monumento ai CADUTI DELLA MAIELLA e laggiù sulla ciclabile che fronteggia i resti dell’ex caserma GENERALE G. PEROTTI li incontra, come ogni mattina. Una coppia di anziani. Camminano accanto, mano nella mano, sembrano sostenersi a vicenda. L’uomo, a tratti, ha il passo ancora elastico di quando era ragazzo. La signora, quello incerto e rallentato della malattia. Si fermano e guardano quella parte che ora è palazzi e quando loro sono arrivati lì, primi anni Settanta, erano campi di grano. Costeggiano un prato che è stato orti comunali. Di quel passato ortivo restano tracce nel fico che regala ai passanti i suoi frutti gratuiti. Per l’uomo quegli spazi verdi sono memoria. Le strade ancora sterrate. I palazzi in costruzione, i giardini che via via li circondano. Il progetto di una piscina e di campi da tennis mai realizzati. Sua figlia che può crescere giocando, sicura, all’aperto. Le note del Silenzio che arrivavano dalla caserma e concludevano la giornata, commuovendo sua madre. Un luogo finalmente suo dove costruire un nido accogliente. Per la donna quel verde è il luogo dell’abituale passeggiata mattutina, è l’oggi che fra un minuto non ricorderà più, come non ricorda la fuga della sua bimba sul triciclo, i mazzolini di margherite e piscialletti che la figlia coglieva solo per lei, i rusticani ancora acerbi, bottino di bande di ragazzini scatenati, le zucchine lunghe, verdi, ricurve dell’orto, gentile omaggio del suo vicino, sua figlia che raggiungeva la scuola a piedi attraversando parchi e strade allora senza strisce. Elena guarda quella coppia. Quell’amore, che ha resistito allo scorrere del tempo e alle sue metamorfosi come una quercia secolare, la commuove. Quell’amore si è fatto tenerezza che consola. Intimità che merita pudore e rispetto. Vorrebbe fermarli ma si trattiene. Passa loro vicino e sorride. L’Amore esiste. Forse. È possibile. E continua il cammino, grata dell’opportunità di averlo intuito nella immutabile trasformazione della Natura e in due mani che si intrecciano nodose come il tronco ancora solido del vecchio albero che li osserva protettivo dall’altro lato della strada.

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ultima modifica 2020-11-20T17:01:16+01:00
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