Introduzione
Le sue opere sono nelle collezioni dei maggiori musei internazionali, tra cui il MoMa, il Metropolitan Museum of Art di New York e la Tate di Londra; a New York, nel Financial District, c'è una piazza che ha il suo nome e dove è collocato in modo permanente un gruppo delle sue sculture monumentali. Parliamo di Lija Isaakivna
Berljavs’ka, nata nei pressi di Kiev nel 1899, universalmente conosciuta con il nome di Louise Nevelson. Il padre, taglialegna, migra negli Stati Uniti a inizio Novecento a causa del clima persecutorio contro gli ebrei diffuso nel suo paese. Nel 1905 con tutta la famiglia si trasferisce definitivamente nel Maine. Lija/Louise studia arte a New York e diventa assistente di Diego Rivera. Sposa Charles Nevelson, adottandone il cognome, e diventa mamma.
All'età di 41 anni Louise prende una drastica decisione: divorzia dal marito e decide di dedicarsi completamente all'arte, emancipandosi come donna e come artista. Nasce quella che sarà di lì a poco definita come "la grande dame della scultura contemporanea".
(Louise Nevelson, 1973. Foto di Enrico Cattaneo)
La mostra
A Palazzo Fava la Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna e Opera Laboratori, nell’ambito del progetto culturale Genus Bononiae, presentano una grande retrospettiva dedicata a Louise Nevelson (Kiev, 1899 - New York, 1988), curata da Ilaria Bernardi e prodotta per la prima volta dall'Associazione Genesi . Nelle cinque sale del piano nobile del palazzo, sotto lo sguardo dei Carracci, si articola un percorso espositivo che ripercorre tutta la carriera dell'artista, famosa per le sue grandi sculture monocrome nere, bianche e oro, create con assemblaggi di materiali di recupero, principalmente di legno.
(Senza Titolo, 1964)
(Allestimento a Palazzo Fava)
Arte come processo alchemico
Cuore dell'esposizione sono le iconiche sculture di grandi dimensioni in legno dipinto, prodotte tra gli anni Cinquanta e Ottanta del Novecento.
L'artista nei primi anni Quaranta inizia a lavorare con il legno, così come facevano il padre e il nonno, entrambi taglialegna. Inizia a raccogliere oggetti di recupero in legno per fare scultura attraverso il loro assemblaggio. Residui di oggetti, sfere, cubi, scarti, parallelepipedi, assi, parti di porte e
balaustre, supporti di tavoli, sono inseriti in casse di legno che dipinge completamente di nero, o, meglio, di un nero color piombo, trasformandoli in Arte. Così come la prima fase del processo alchemico, la "nigredo" (o "opera al nero"), trasforma la materia in piombo, qui agli scarti, già sottratti alla loro tradizionale funzione, è conferita una nuova vita. Si trasformano in sculture. Per farlo, è fondamentale dipingerli di nero: “Quando mi sono innamorata del nero - affermava Nevelson - , esso
conteneva tutti i colori. Non era una negazione del colore. Era un’accettazione. Perché il
nero racchiude tutti i colori. Il nero è il colore più aristocratico di tutti. L’unico colore
aristocratico. Per me è il massimo”.
Lo stesso processo si ripete intorno alla metà degli anni Settanta con la serie delle cosiddette “porte”:
elementi lignei rettangolari, dalla forma e delle proporzioni delle tradizionali porte di
un’abitazione, sono utilizzati come basi per applicarvi oggetti aggettanti (o parte di questi),
tra cui sedute, schienali, gambe di sedie…. Alla stregua delle sculture presenti nella prima sala, le “porte” sono interamente dipinte di nero, ma, anziché essere autoportanti, sono
concepite per essere sospese a parete, come se fossero dipinti: rendono ancor più evidente
la volontà dell’artista di trasfigurare in Arte, ossia in una dimensione sacrale “staccata” da
terra, la realtà quotidiana da cui sono tratti gli oggetti di recupero inclusi in queste opere.
(Le "porte", allestimento Sala Rubianesca Palazzo Fava)
La fase successiva del processo alchemico, la "albedo" (o "opera al bianco"), la ritroviamo nel lavoro di Louise Nevelson nella serie di sculture completamente dipinte di bianco. In mostra la testimonianza in una video-intervista e le fotografie della Chapel of the Good Sheperd di New York, interamente decorata nel 1977 dall'artista con sculture in legno dipinto di bianco. La massa informe plumbea scaturita dalla nigredo si purifica, e gli oggetti in legno non sono più racchiusi in scatole, come nel periodo nero, ma rinascono liberi e più spirituali attraverso l'arte.
“Il bianco si muove un po’ più nello spazio cosmico. […] Nella Chapel of the Good Shepherd ho voluto creare un ambiente che evocasse un altro luogo, un luogo della mente, un luogo
dei sensi”, dichiarò l'artista.
(Dawn's Presence - Three, 1975. Foto di Kerry Ryan McFate)
Infine, nella Sala Carracci, si conclude il processo alchemico con la "rubedo" (opera al rosso), il compimento finale delle trasmutazioni che culminano con la realizzazione della pietra filosofale e la conversione dei metalli vili in oro. Anche per Louise Nevelson questa fase coincide con la comparsa nei suoi assemblaggi dell'oro. Che può accompagnare il nero, oppure come nell'opera The Golden Pearl del 1962, presente in mostra, coprire tutta la superficie scultorea.
“L’oro è un metallo che riflette il grande sole. Di conseguenza penso sia giunto naturalmente
dopo il nero e il bianco. In realtà era per me un ritorno agli elementi naturali. Ombra, luce, il
sole, la luna”, affermava Nevelson. E agli elementi naturali ritorna nelle sculture dell'ultima parte della sua carriera, dove al nero e all'oro si associa anche il legno non più dipinto, ma lasciato al naturale.
L'oro è anche il simbolo della sua totale "rinascita" come artista donna. Per questo il suo lavoro si può considerare "femminista": la trasformazione dello scarto in arte, che la impegna per tutta la vita, è metafora del processo con cui la donna da "essere di scarto" può diventare completamente autonoma dall'uomo. E brillare come l'oro.
(The Golden Pearl, 1962)
Collage e acqueforti
Lungo il percorso espositivo sono presentate acqueforti inedite del 1953, unite a serigrafie del 1975,
anch’esse raramente presentate prima. Louise Nevelson si avvicina a questa tecnica grazie
all’esperienza di studio e di esercizio grafico che svolge nel 1946 e nel 1953 presso l’Atelier
17 di Stanley W. Hayter, dove elabora tecniche di stampa anticonvenzionali, molto personali
per procedura, rapidità e sperimentazione.
Troviamo anche, nella sala Albani, alcuni collage e assemblage a parete, di medio-piccole dimensioni, più o meno aggettanti, e di differenti tonalità di colore. E' una pratica che accompagnerà tutta la carriera dell'artista. Sono realizzati su supporti lignei o cartacei e mediante la
giustapposizione di materiali eterogenei quali cartoncini, legni, carta di giornale, carta vetrata, lamine di metallo. Ciò che interessa all’artista è ancora una volta il vissuto delle
cose, la loro storia, il tempo che le ha possedute, l’azione umana intorno ad esse.
(Sala Albani, allestimento)
Informazioni
La mostra è a Palazzo Fava (Via Manzoni, 2, Bologna) dal 30 maggio al 20 luglio 2025:
Orari di apertura:
Martedì-domenica, ore 10.00 – 19.00.
Ultimo ingresso alle ore 18.00.
Chiusura settimanale: lunedì
Accanto alla mostra, l'attività educativa, distribuita
in un programma di visite guidate e workshop, inclusivi e partecipativi, in presenza,
destinati a bambini, ragazzi e adulti.
Inoltre, sarà prevista la speciale partecipazione di alcuni volontari del Gruppo FAI
Ponte tra culture di Bologna che accoglieranno i visitatori con storie e racconti
personali riferiti alle tematiche della mostra.
Per ampliare gli strumenti educativi, l’Associazione Genesi ha inoltre affidato a Hidonix la
realizzazione di un’app scaricabile gratuitamente dagli store di cellulari e tablet, dove
sarà possibile trovare tutte le informazioni sulla mostra, sulle visite guidate, e sui workshop.
Per tutti i dettagli c'è anche il sito web di Genus Bononiae
Ultimo aggiornamento: 30-05-2025, 15:01