Vertigo: la videoarte per il mondo che cambia
L'ultima definizione, e forse già superata, è che viviamo dentro la "gig economy" o "delivery economy", dove al precariato si somma la smaterializzazione di un mondo basato sulle app. E dove tutti ci comportiamo come criceti in corsa, dentro la ruota di quella rivoluzione permanente causata dalla tecnologia e dalla digitalizzazione, dal progresso (?) che accorcia anche la durata delle generazioni, un tempo quantificate in un periodo di 25 anni e oggi ristrette a meno di 10, passando dai Baby boomers alla generazione X, Y (i millenials), fino all'attuale generazione Alpha (i cosiddetti screenagers). Si calcola poi che a livello neurologico la quantità di informazioni che ognuno di noi elabora in un giorno è equivalente a quella che un contadino di mille anni fa processava nell'arco della sua vita. Una buona notizia? Non pare, se tutto questo rischia di sopraffarci. E la delega in bianco che offriamo all'intelligenza artificiale, al suo controllo, se ci semplifica da un lato la vita non rischia di indebolirci proprio come esseri senzienti?
Smarriti, insicuri, storditi: ecco come ci sentiamo il più delle volte. "Vertigo", la mostra in corso al MAST Bologna fino al 30 giugno 2024, ci propone di riflettere sulle "vertiginose" mutazioni in corso nella nostra società grazie al mezzo artistico più indicato a restituire l'idea di continua trasformazione, ovvero l'immagine in movimento, la videoarte. Ecco che 29 artisti internazionali con 34 videoinstallazioni, suddivise in sei sezioni, riflettono sugli scenari di una società che cambia.
Si parte con il balletto automatizzato dei container nei porti di Los Angeles e Long Beach: una danza ipnotica in cui vengono sollevati, abbassati e sganciati, per essere poi trasportati. Non si vedono umani. E' una catena di montaggio che ritroviamo in un altro video, rilettura di Tempi Moderni di Chaplin nell'era dei magazzini Amazon. Qui non si crea nulla, vediamo solo scatole in movimento. E gli operai? Li ascoltiamo in un video girato all'interno della fabbrica giapponese Toyota, nella città omonima. Discutono dell'impatto dell'automazione e dell'IA sul futuro del loro lavoro. Gli interrogativi sono quelli universali: avrò più tempo libero, certo, lavorerò meno, ma che farne se vengo pagato di meno? La "libertà senza impiego" cara ai filosofi si carica qui di una concretezza allarmante.
Segue, in un altro video, l'inferno delle 15 ore di lavoro all'interno di una fabbrica cinese di indumenti che impiega ben 18000 lavoratori migranti. Ti volti, e sei sovrastato dai suoni e dalle immagini di una fabbrica automatizzata che produce vetro in Turchia.
Una sezione è dedicata ai "nuovi comportamenti": assistiamo alle gesta di un giovane nel ruolo di un manager che, trafelato, cerca di salire sempre più in alto le scale di un enorme edificio vicino ad Amsterdam, metafora della sua smania di ascesa sociale. Per scoprire alla fine che il posto più in alto, al termine della scala, è già occupato. Viviamo poi le angosce di un uomo che guida la sua auto nella notte. Non dorme da una settimana, è sovraccarico di lavoro, stanco. Sta tornando a casa e per star sveglio canta, ma la radio lo bombarda di notizie terrificanti.
In antitesi allo stile di vita frenetico in cui siamo immersi è il video che fissa una panchina su cui campeggia la parola "Kapitalism": a questa si appoggiano, per riposarsi o come supporto all'attività fisica, i cosiddetti "scartati", ovvero chi non è più produttivo, gli anziani, o chi ha perso il lavoro.
La sezione "comunicazione" ci spinge ad interrogarci su come oggi distinguere il vero dal falso, il buono dal cattivo. Ci aiutano forse i meccanismi di moderazione dei contenuti che i social media applicano con criteri decisamente opachi? In generale crediamo che i post corredati da testi aggressivi e da immagini violente o porno vengano cancellati da filtri automatici e dall'intelligenza artificiale. Non è così: la maggior parte di questi contenuti sono processati, letti e valutati da esseri umani sottopagati, chiamati "content manager", che per contratto non possono parlare del loro lavoro con nessuno.Sono condannati al silenzio, come le centinaia di content manager che lavorano come zombie in un grattacielo di Manila. I loro "segreti" sono raccolti in tre video dove i protagonisti-interpreti dissimulano le informazioni riservate sul loro lavoro in un tutorial di make-up online. Davvero inquietante.
Al piano zero ci sono i video dedicati all'ambiente naturale: il lavoro di Richard Mosse sull'Amazzonia davastata, già protagonista di una mostra al MAST, le conseguenze del disastro di Fukushima, le periferie e il degrado delle grandi città...
Una mostra, a cura di Urs Stahel, che richiede più di una visita e ti aiuta a riflettere, il tutto negli spazi di una delle realtà più all'avanguardia d'Italia. L'ingresso è come sempre gratuito. Sono previsti incontri, visite guidate e percorsi educativi per bambini e ragazzi (e, a proposito, splendido il video in cui si parla ai bambini di capitalismo e profitto).
Tutte le informazioni:
Fondazione MAST