SGUARDI DI MEMORIA

Scritti di Giancarlo Susini per l’Istituto Beni Culturali

 

a cura di Valeria Cicala

Bologna, Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna - Grafis, 1997

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato in versione elettronica in giugno 2013

ISBN 978-88-97281-3o-6

 

 

 

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Introduzione

L’idea di raccogliere nel primo volume della collana “Quaderni di “IBC” gli articoli che Giancarlo Susini ha scritto sulle riviste dell’Istituto, “IBC Informazioni”, “IBC” e “L’ippogrifo”, ha un pretesto al quale certo non può sottrarsi proprio chi ci ha insegnato a leggere eventi, anniversari e cifre della storia: il suo settantesimo compleanno.

In realtà desideravamo, al di là di questo importante genetliaco, esprimere in qualche modo, con un “segno”, per usare una parola cara al professor Susini, un ringraziamento sincero ad uno studioso, ad un maestro, che da sempre, anche al di là della lunghissima “militanza” come consiglierdell’Istituto, ha seguito ed alimentato il lavoro di redazione, non solo con i suoi scritti, ma con una partecipe attenzione, con suggerimenti critici, con novità di idee.

 

Al dibattito sui beni culturali Susini del resto si è sempre appassionato ribadendo come ricerca e divulgazione scientifica siano costantementconiugabili; come gli strumenti dell’informazione, laddove correttamentimpiegati, siano imprescindibili da un impegno di lavoro finalizzato alla salvaguardia e alla memoria del patrimonio culturale.

Giancarlo Susini può ben essere considerato un precursore di quella “ricerca sul campo”, di quell’approccio al documento e al suo contesto di cui si è poi nutrita la cultura dagli anni settanta in avanti.

Nei suoi scritti, ben precedenti a quella temperie, il suo far storia, la lettura del tutto innovativa dei documenti epigrafici studiati in loco attraverso un costante peregrinare per l’Europa e per tutte le propaggini dell’ecumengreco-romana, l’osservazione del paesaggio, dello spazio trasmettono una novità di linguaggio, un metodo d’indagine in cui la civiltà antica divienstimolo alla conoscenza delle dinamiche contemporanee.

In questa linea d’analisi documentaria e d’attenzione ai contesti, nel 1979 Susini avviò con l’Istituto per i beni culturali il progetto di “rilevamento e studio del patrimonio epigrafico di età romana nell’Emilia-Romagna” in raccordo con le università e le istituzioni internazionali preposte all’edizione ufficiale dei testi iscritti, che ha consentito di realizzare, sotto la sua guida scientifica, un articolato lavoro di censimento ed informatizzazione dei testi epigrafici conservati nella regione, finalizzato anche alla progettazione dei lapidari.

Rileggendo gli articoli qui raccolti, che compongono un segmento di quel lungo cammino anche sul bene culturale, che Susini percorre da diversi lustri, si coglie l’attualità di contributi che risalgono ormai a dieci o dodici anni fa, si ritrova quello sguardo acuto, e forse anche disincantato, da cittadino del mondo, da studioso senza preconcetti che, con rinnovata curiosità, accoglie giustappone sintomi di futuro in un chiaro/scuro di Memoria.

Per molti di noi Susini è stato professore nelle aule universitarie, ed averlo incontrato ha significato scegliere un metodo di lavoro, di lettura della storia che può applicarsi, ad esempio, agli eventi della costa dalmata nel III secolo a.C., come pure alla situazione recente degli stessi luoghi.

Al professore auguriamo dunque di continuare ad interpretare e a codificare, preferibilmente su fogli di piccoli notes con pennarelli rossi e neri, lespressioni di un’intera civiltà, camminando, guardando, “talvolta leggendo”. ci permetta ancora di essere compagni di viaggio e di lettura di un impareggiabile Maestro dello Studio e di un sagace “lettore di strada”.


CULTURE ANTICHE, CULTURE UMANE, MUSEI

 

Consolidata dalla dottrina, inveterata nella prassi organizzativa risulta la connessione tra l’indagine sulle culture antiche - quindi sull’archeologia, anchrurale, anche industriale - ed i musei: ove si raccolgono e si conservano tradizionalmente oggetti e monumenti, questi ultimi purchè tali da non imporruna loro collocazione od un loro ripristino esterno.

Tale, piaccia o meno, è il punto di partenza di ogni serio programma di censimento e di ricerca per quel che concerne le culture antiche, come per quanto attiene alla definizione e al rinnovamento dei musei. Strettamentcoerente a simile premessa è stata l’attività dell’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna nel primo decennio d’attività. Cardine delle iniziative è stata e resta la ricognizione dellconsistenze museali e degli insediamenti storici, finalizzata al raggiungimento di obbiettivi: 1. la ricostruzione delle culture, cioè delle singole facies culturali, quindi dei nuclei storici, in una materia suscettibile di rivelarci i movimenti economici, le invenzioni e gli apporti strumentali, persino le migrazioni popolari, e gli arredamenti: questi ultimi intesi come segnale non equivoco di subalternità socio-culturale (tali le zone di montagna, il Delta all’infuori dei principali bracci spinetici, alcuni cordoni litoranei); 2. la decifrazione critica della storia delle scoperte e delle ricerche, intesa come storia della concettualizzazione dell’antico, compresa altresì come uno degli aspetti - non secondari - della storia dell’amministrazione e della politica, ed infine comstoria di una crescente e sofferta consapevolezza degli aspetti economici strumentali delle società umane (culture materiali, assetti produttivi, strutturartigianali, preindustriali ed industriali). All’illustrazione di tale obbiettivo hanno contribuito incontri e convegni (come il Colloquio internazionale su Bartolomeo Borghesi del 1981), ed al fine più generale del censimento delle culture, ha sensibilmente contribuito il programma di ricerca sull’individuazione dei nuclei culturali omogenei nel patrimonio archeologico emiliano e romagnolo.

Un’altra imponente iniziativa censitaria delle culture antiche è stata viene perseguita tuttora dall’IBC, d’intesa con gli Organi Accademici nazionali ed internazionali (a prosecuzione ed a compimento dell’ormai secolariniziativa assunta in merito dall’Accademia delle Scienze di Berlino), e con la collaborazione operativa del Centro di Ricerche per le Officine Lapidaridell’Università di Bologna: ci si riferisce al censimento epigrafico del patrimonio antico, fondamentalmente quindi del patrimonio epigrafico romano, senza accantonare le non numerose ma coeve iscrizioni in greco dell’area ravennate; e con attento rispetto dei fenomeni (o delle soluzioni) di continuità dall’età preromana, valutabili mediante il suggestivo nucleo delle iscrizioni felsinee, laltre attestazioni dell’epigrafia etrusca, le eclettiche testimonianze della frequentazione dell’emporio spinetico, infine dei complessi celto-etruschi dell’Appennino (come quello di Monte Bibele), e quindi dell’abitudine al graffito che dalle pratiche economiche e dalle culture scrittorie preromane, si diffondper qualche generazione anche nell’età romana.

Il censimento epigrafico consente d’intendere le valenze storiche e lpotenzialità documentali risultanti dall’intreccio tra i fenomeni dell’acculturazione e quelli del popolamento: preminenti al riguardo si rivelano le città antiche, tanto che l’epigrafia risulta soprattutto un fenomeno della cultura urbana, reso manifesto dall’arredo monumentale delle necropoli, integrato nel territorio dai modesti nuclei vicani, pagensi e delle villae, dai militari (che sono tra i più antichi fenomeni della scrittura), e soprattutto dai santuari di campagna - autentico punto demico d’incontro e d’osmosi tra ethne” e culture - situati quasi sempre presso corsi d’acqua, presso sorgenti soprattutto medicamentose, talvolta invece su vette. Il censimento porterà alla pubblicazione di un corpus supplementare; un problema organizzativo particolare è costituito dal recupero e dalla ecdotica del patrimonio ravennate.

Per larghissima parte, l’età antica ha visto sorgere in Emilia e Romagna il grande fenomeno della città: la poleogenesi è stata e viene indagata per quel che concerne la formazione degli agglomerati dalla tarda Età del Bronzo alla prima Età del Ferro, per le culture villanoviane (frutto di numerosi apporti), per gli abitanti di foce dall’età preromana all’età romana (come Rimini, con componenti umbre, picene, sénoni e boiche), per le antiche città etruschcome Felsina e Marzabotto, che gli impianti preurbani dell’Emilia occidentale, per gl’insediamenti emporiali di costa e del Delta, per le strutture diecistiche  celto-etrusche (come il già citato villaggio di Monte Bibele), per le città romane: fora, conciliabula, impianti coloniari, strutture municipali. Un profondo travaglio per il riconoscimento dell’identità dei musei - anzi del museo, comstruttura culturale e prodotto storico - ha caratterizzato la linea operativa dell’IBC in questo decennio, come s’è già implicitamente affermato nellbattute iniziali di questo riferimento. Più genericamente, intendendo il museo come il monumento di riappropriazione della storia individuale e sociale, più specificatamente considerandone le vocazioni di laboratorio e apprezzandonl’inserimento in circuiti esterni o tessuti culturali punteggiati di numerosi episodi e di numerose emergenze, s’è posto mano ad un razionale censimento delle numerosissime istituzioni museali nella regione Emilia-Romagna, istituzioni di vario genere, raccolte e collezioni diverse. Un primo risultato con cospicui dati organizzativi e concernenti la fruizione, è stato reso noto di recente, anche a seguito d’incontri e seminari. La situazione dei musei nella regione presenta aspetti assolutamente peculiari: una precoce iniziativa civica in alcune città, potenti interventi degli apparati di signoria e di corte - conseguenti alla pluralità statuale della regione nell’età moderna - assoluta preponderanza dell’Ente locale (che peraltro, assicura la conservazione di un materiale che, almeno per l’antichità, è prevalentemente di proprietà statale); si registrano inoltre, numerosi musei universitari, per i quali s’auspica chdiventino modello ed embrione di strutture destinate ad organizzare in modo razionale gli archivi della produzione del sapere. Il censimento museale, anchcome prodromo della imminente legislazione regionale apposita, s’è intrecciato con incisive operazioni di razionalizzazione e di riassetto, e con dibattiti sui principi dell’ordinamento museografico (tale ad esempio il colloquio sul museo epigrafico, tenuto a Castrocaro e a Ferrara, nell’autunno 1983).

La rete museale della regione è poi caratterizzata da numerose, serie vivaci iniziative di recupero degl’aspetti delle culture rurali, delle culturpreindustriali ed industriali, più genericamente delle culture del lavoro, o invece, delle culture in qualche misura subalterne: spesso tale complesso d’istituzioni viene rubricato con l’attributo di “etnografico”, un attributo indubbiamente assai tradizionale, decisamente superato nella dottrina, forssostituibile con l’apposizione - di seguito alla parola museo - “delle culturumane”. Profondo risulta l’intreccio di tali strutture con gli ambienti naturali con i bacini delle risorse.

 

“IBC Informazioni”, I, 1985, 1/2, pp. 19-20


 

UOMINI ED ACQUA: CAPIRE LA STORIA

 

La gente si imbuca nel condotto romano, o fa passerella tra i diorami ammonitori di drammatiche subsidenze, o immagina tutta una montagna - con le sue valli ed i suoi bacini - racchiusa in una cornice di dighe e di condutturper dissetare la città del Duemila: che però, avverte l’emblema della mostra in corso presso il Museo Archeologico di Bologna (cui si riferiscono questi scorci vissuti), beve l’acqua che ha già 2000 anni, cioè l’acqua dei romani.

Si esce, sotto il lungo Pavaglione: fuori dalla mostra grandi manifesti avvertono i cittadini, che c’è stata una riforma dei quartieri di Bologna - adesso sono di meno, è accaduto quello che con linguaggio tecnico e politico, si chiama un accorpamento. Prima i quartieri prendevano il nome quasi tutti da uomini illustri del passato, vicino o lontano: Galvani, Malpighi, Costa, MurriSic transit gloria mundi. I nuovi quartieri privilegiano i santi, che sembrano darmaggiore sicurezza, e poi l’acqua. Anzi, le acque: Porto, Navile cioè i manufatti che l’uomo ha creato nel suo paesaggio servendosi dell’acqua, e poi Reno, Savena, cioè i fiumi.

Come i Giacobini e Napoleone: anche allora, i dipartimenti presero quasi tutti il nome dai fiumi; persino un fiumiciattolo come il Crostolo ebbe il suo quarto di secolo di celebrità. Bene, è giusto così: l’acqua è come una matita profonda che disegna il paesaggio perché solca il suolo. Sono d’accordo chl’Istituto Beni Culturali abbia dedicato un grande programma - uno dei maggiori in cantiere - all’acqua ed al territorio: in fin dei conti, la mostra di cui s’è detto, consacrata al nuovo acquedotto del 2000 che prende l’avvio (per ora) dalla stessa riserva donde partì l’acquedotto romano (che nell’occasione è stato riscoperto e studiato), non è che una parte piccola dell’assunto del grande programma. Perché l’acqua - lo s’è detto tante volte: è la prima risorsa dell’uomo - è un elemento essenziale, addirittura francescano, della grammatica del popolamento: gli uomini formano i loro paesi dove c’è da bero dove si passa facilmente un fiume o un rivo, le piante non crescono senza l’acqua, le bestie poi vanno sicure a cercare l’acqua. tanto che gli uomini possono bene inseguirle per arrivare ad una sorgente. Il sapere che discenddall’acqua è anzitutto ricerca sugli assetti dati dagli uomini, in epoche diverse successive, al loro ambiente. Anzitutto le acque sono confine e tramite: accaddelle coste e delle spiagge, accade dei fiumi. Storia e geografia, demografia ed economia sono impenetrabili con una chiave di lettura globale come la ricognizione dei sistemi delle acque.

Gli uomini cercano l’acqua, credono di domarla, troppo spesso non la dominano, ancora una volta francescanamente non le si affratellano: riverose, fiumi malati, terre rimosse, ghiaietti distrutti, terreni insaccati, tutto questo e molto altro ancora costituisce la grande malattia che gli uomini hanno contratto dove le acque sono risultate al loro servizio, senza che loro, gli uomini, si sentissero mai, o quasi mai, al servizio dell’acqua.

Di certo, l’acqua non ha rappresentato solamente il segno profondo del confine di un territorio, ma - incanalata in piccoli solchi - ha determinato i termini (quale parola! quella di antiche divinità pagane!) dei piccoli possessi degli uomini, della loro agricoltura, di quel contadino che ha formato il diritto (privato, pubblico) e gli usi. E tutto questo senza perdere “poesia”: è possibilrecuperare l’attenzione degli scrittori verso l’acqua, in ogni tempo. L’acqua incide inesorabilmente sulla memoria storica: la raccolta dei toponimi volta a volta derivati dalla conoscenza dell’acqua o dal suo impiego (fulloniche, navili, molini ed altre industrie) - una raccolta che è nel programma di cui si diceva ed è in parte stata eseguita - dimostra come il loro numero sia strabocchevole, preponderante rispetto ad altre categorie di nomi di luogo. Con i toponimi vanno considerate altre forme del sapere popolare, che ravvisa nella presenza assidua o perenne dell’acqua una forma affidante di segno del divino. Questa sorta di semantica dell’eterno ricorre nelle tenaci usanze delle campagne e nei proverbi.

Studiare l’acqua, capire la storia anche attraverso la valutaziondell’apporto recato dalle acque al paesaggio, scoprirne impietosamente i guasti, valersi dell’acqua come elemento rispettabile ed utile ad irrinunciabili servizi. E’ il caso degli acquedotti: cento anni fa il Comune di Bologna riattivò il condotto romano per abbeverare la cittadinanza; era già successo più volte, a pezzi e bocconi, dal secolo XIV in poi. Era successo a Bologna - città molto antica, etrusca, poi gallica, poi romana, poi divenuta la matrice del saperuniversitario in Europa - già dal tempo di Augusto: il primo autentico servizio reso alla città. Fu un acquedotto un po’ speciale. Speciale perché a differenza di quasi tutti gli altri dell’antichità non girava su archi imponenti, che decorano il paesaggio, ma bucato nel sottosuolo, dove un’infinità di segni, tracce, numerali e antiche scritture oggi riscoperte ed interpretate consentono di capire i modi del lavoro antico come se disponessimo (ed è così) del taccuino di un capomastro. Ma siccome l’acquedotto da fuori non si vedeva, non è diventato famoso nel mondo (ora lo diventerà, lo è già diventato), e invece lo è sempre stato fra la gente. Perché la gente dall’acquedotto romano, chfunzionasse per intero o a mozziconi, ha sempre bevuto quell’acqua e ad ogni sorso s’è sempre ripetuta che quello era il condotto dei romani, che veniva dal Reno o dal Setta, che era stato fatto da Cesare, da Mario o da Augusto.

L’acqua era fresca, buona e limpida.

 

“IBC Informazioni”,I, 1985,, 3, p.3

 


SCIENZA, MUSEI E SCUOLA

 

Si è tenuto a Barcellona (Spagna), dal 5 al 12 novembre 1985, per iniziativa dell’ICOM-Unesco (The International Council of Museums) e con l’efficacapporto del Servei Pedagògic de Museums di Catalogna, il colloquio internazionale sul tema “Research and the Museum Educator”. Alcuni rapporti generali hanno introdotto i dibattiti, nonché le ricognizioni ed il cosiddetto mercado de ideas”, stimolante luogo d’incontri e di provocazioni. Tra i rapporti si citano: D. Miquel i Serra, su museo e città; F. Schouten, su ricerca pedagogica e apparato museale; U. Ebell, su museo e pubblico; E. Morral i Romeu, sull’incidenza delle realtà museali nei processi educativi, C. Screven, sulle tecniche di comunicazione impiegate negli apparati museali. Larga partdelle comunicazioni concernevano i musei e le gallerie d’arte moderna. Per lpiù antiche età dell’uomo sono state prese in considerazione più di altre lipotesi volte ad esemplificare i grandi processi evolutivi in connessione con la scoperta e l’impiego delle risorse naturali. La partecipazione italiana è stata numericamente effimera: ed è stato notato. Ma è vero invece che gran partdelle proposte discusse costituiscono nei musei italiani altrettante acquisizioni realizzazioni di tempi già maturi. Decodificando i materiali dei rapporti e gli interventi, si possono annotare alcuni tra i principali temi discussi nel colloqio, e cioè:

I. Traguardi raggiunti di recente nell’organizzazione e nella definiziondell’istituzioni museali: a. all’oggetto (o monumento) viene riconosciuto ed assegnato un valore documentale; b. l’interpretazione dell’oggetto ha connessioni e ripercussioni nella valutazione del contesto sociale e nell’ambito territoriale che lo hanno prodotto, come nel contesto e nell’ambito che lo ospitano (aggiungerei: in ogni contesto ed ambito che ne ha accompagnato la vita, la tradizione, la trasmissione); c. l’oggetto (o monumento), quindi il documento va considerato alla pari con altri dati non oggettuali (il che è cosa risaputa quando si tratti di effettuare censimenti e costituire banche-dati);

d.nel valutare oggetto (ed oggetti) si tende a scoprire correlazioni utili per la ricostruzione di forme e strutture sociali, e. la capacità “comunicativa”

dell’oggetto è inestinguibile: sia per lo scienziato sia per l’educatore, tanto chil museo serve tanto al curioso e all’intellettuale quanto agli operatori della scuola e dell’educazione permanente.

II. Altre riflessioni sull’ “oggetto”(o monumento, quindi documento) nei musei:

a. l’oggetto viene studiato sotto il profilo statistico e sotto il profilo tipologico:

b. l’oggetto ha un valore parontologico in quanto fonte perenne di processi comunicativi (nel passato, nel futuro), ma non sempre apprezzabili o prevedibili con metodi scientifici; c. l’educazione riscopre tecniche emozionali proprio nella presentazione dell’oggetto.

III. Considerazioni sulla didattica museale: a. una semplice manipolaziondell’oggetto, o di un suo facsimile (gli scolari che toccano o ricostruiscono l’oggetto) porta più spesso alla banalizzazione del valore appreso; b. d’altro canto, ogni misura di tutela (una vetrina) allontana dall’oggetto, pur producendo una “carica di rispetto”, talvolta proficua e talvolta repressiva discutibile; c. ogni diorama dell’attività empiriche e manuali (e delle tecnologie)

di un certo orizzonte storico è poco utile se non è accompagnato dalla ricognizione critica delle risorse allora esistenti e disponibili; d. un utilapproccio al passato può scaturire (didatticamente) dall’oggi, con una sequenza di organiche regressioni: “dunque, non ho la luce elettrica e devo farmi lume”, “ho sete, l’acqua non la posso prendere dal rubinetto o dalla fontanella; però posso scendere al fiume (dove non so cosa sia acqua sporca)”

ecc.; e. va però sfuggita la tentazione di trasformare l’oggetto (il monumento)

in un punto luminoso su una ribalta (l’effetto “teatro” non paga); f. è difficilsfuggire alla tentazione di ritenere che per i musei d’arte (e soprattutto d’artmoderna e contemporanea) non sussistano proposte e soluzioni chrispondono a tematiche particolari; g. ed io aggiungo un argomento che, a Barcellona è parso davvero difettoso, e poco compreso, quanto meno non capito, come invece lo è stato in molte nostre città: come s’intreccia un museo di questo genere, di diretto e preferenziale approccio ad un passato che è antico (o viceversa) con i musei che impongono rispetto per la storia dellraccolte, che è poi la storia della consapevolezza culturale della memoria storica?

IV. Entro e fuori del museo: a. è accantonata - come utopia - la proposizione di restituire l’oggetto dove era: e che significa “dov’era”? donde è stato recuperato, o dove è vissuto in origine? b. il museo d’oggetti (quindi di documenti) s’intreccia ai mestieri, ai comportamenti, al paesaggio:

l’archeologia rurale e quella industriale rafforzano con ciò la loro educazioneducativa; c. allora, servono itinerari urbani, di paesaggio, di territorio, connessi al museo; d. senza farsi illusioni: non si ricreano però luci, odori ed altri orizzonti sensoriali, con le relative cariche emozionali.

V. Notule di epistemologia didattica: a. occorre una didattica raccordata, anchmetodologicamente, tra amministrazione scolastica e musei: b. bisogna sottolineare nell’esposizione gli aspetti temporali: diverso è il caso di oggetti compatibili con la memoria vivente (due, tre generazioni) e di oggetti affidati a memorie storiche filtrate dalla dottrina; c. è più facile interessare gli scolari agli uomini piuttosto che alle collettività e alle compagini sociali: per questo, il museo civico di Barcellona suggerisce d’avvicinarsi all’epigrafia rintracciando la storia cioè la biografia di un personaggio qualunque piuttosto che le grandi strutture della società romana; d. esiste - lo si sa - un’alfabetizzazione per immagini: deve porre in atto didatticamente e didascalicamente un cammino di decodificazione (su base culturale) delle componenti che hanno portato il creatore dell’oggetto a quell’immagine; occorre quindi percorrere un cammino contrario a quello del creatore (e ciò è valido soprattutto per le analisi iconografiche, assai meglio per quelle strumentali). E ciò significa che quando il lettore scioglie su un’inscrizione romana le sigle B.M. cioè b(ene) m(erenti), sa che l’uomo che le ha dettate piangeva la scomparsa di una persona cara:

almeno così dovrebbe essere, o così si doveva credere. Ho esposto alcune dellnote del mio cahier barcinonense: il lettore giudicherà.

 


MEMORIE. ATTIVITA’ ED ESPERIENZE ARCHEOLOGICHE IN EMILIA-ROMAGNA

 

Archeologia, cosa sei? Discorso sulle antiche cose, o sui fatti di ieri, comparrebbe leggendo Tucidide, oppure di quei fatti del passato studi solo lantiche “cose”, cioè gl’oggetti e i monumenti, o invece - infine - ti occupi della cultura materiale, dei paesaggi e della produzione figurativa sino al momento in cui l’umanesimo, cioè un primo rinascimento dopo il Mille, e poi qualchsecolo più tardi la rivoluzione industriale mutasse davvero gli orizzonti sensoriali e le abitudini sociali della collettività?

Tant’è, in un dossier che attraverso voci diverse dà conto ai lettori del livello raggiunto dalle ricerche in ambiti istituzionalmente votati all’archeologia, la terza tra le ipotesi sopra delineate s’avvicina di più ai contenuti affrontati trattati nei singoli articoli: dal momento che i protagonisti militano a diverso titolo in uffici, o dipartimenti o settori prevalentemente - ma non esclusivamente - finalizzati al recupero e all’interpretazione dei sedimenti culturali dell’antichità.

Come per decodificare gli argomenti del sommario, o per tracciare il palinsesto di un potenziale indice analitico, va subito asserito come frutto di una constatazione poco oppugnabile che la ricerca tende anzitutto correttamente ad individuare, recuperare e classificare tutti gli elementi, i dati - spesso identificabili in beni da documentare, talvolta anche da ripristinare tutelare - dell’antichità; simili operazioni seriali di censimento hanno sofferto però del profondo travaglio che il passaggio all’informatizzazione ha recato anche in questi campi. Dagli schedari alle banche dati, con il permanentsupporto della documentazione fotografica, disegnativa o planimetrica, il frutto di un lavoro intenso ed ormai di molti anni si presenta assai avanzato e tuttora incompleto. Eppure alcune sintesi fortunate - concretate anche in esposizioni temporanee o addirittura in sezioni museali - sono state compiute, spesso anche alcuni restauri e ripristini sono divenuti possibili per la disponibilità di un patrimonio di conoscenze bene ordinato e praticamente completo. Persino alcuni centri storici, infine alcune progettazioni di comparti culturali - di “parchi” storici cioè - si sono giovati di tali censimenti, che hanno costituito l’obbiettivo preliminare non differibile della crescita dell’Istituto regionale per i Beni Culturali. La mente, l’occhio e la mano che hanno guidato anche di recente i programmi per la fruizione d’alcuni scavi archeologici sapevano chl’epidermide della rovina visibile si nutriva di un supporto di conoscenze della cultura materiale ben agibile, ed altrettanto ben fornito di valutazioni critichadeguate.

D’altro canto, le strutture utili alla raccolta degl’oggetti e dei monumenti, intesi come documentazione del sapere, s’identificano tuttora nei musei: a questi, all’aggiornamento del loro ordinamento - si pensi, ad esempio, all’evoluzione dei vetusti “orti lapidari” in sezioni di storia della comunicazionantica, prevalentemente d’interesse pubblico, non ridotta alla sola scrittura ma estesa al più arioso campo della semiotica oggettuale: figurativa e di decoro ambientale - ed infine alla didattica (non esclusivamente, non necessariamentscolare, intesa anzi come consumo dialogato degli apparati museali da parte di lettori diversi, diversissimi tra loro) sono dedicati altri scritti, è consacrato largo impegno delle forze intellettuali dell’archeologia regionale.

I musei si propongono come sedi di classificazioni aggiornate (rinnovabili) della documentazione antica ed anche come luoghi di rappresentanza dell’intensa storia culturale delle nostre città, delle corti, dei dominanti, delle prelature, dei comuni, dei sodalizi. Le collezioni - tali come si sono venute formando in stagioni storiche differenti e successive - aprono il discorso ad un’indagine sui processi di trasmissione e di tradizione dei dati (naturalmente degl’oggetti, dei monumenti, dei paesaggi): in genere, cresce la consapevolezza che la valutazione della portata documentale di un dato non può prescindere - anzi alla fin fine ne consiste - dallo spessore dei processi chhanno accompagnato la sua sopravvivenza (celata o palese), la sua manipolazione, la sua immagine.

Quel che più conta per il cittadino e la società o le collettività in cui il cittadino si riconosce è la comprensione sufficientemente globale del composito orizzonte culturale nel quale si trova ad esistere. Naturalmente le dimensioni di simili orizzonti culturali non si riducono ad un parametro territoriale nemmeno ad un’ellissi cronografica, anzitutto perché gli immaginari dei singoli e rispettivi ricordi culturali dilatano la capacità percettiva del “bene culturale” in molte pressochè innumerevoli direzioni. Però, per fare un esempio, ogni tentativo d’apprezzare il complesso di tali beni in un contesto comparativo regionale non è inutile:soprattutto in una regione - della quale si ricorda in questi anni il bimillenario della sua prima identità amministrativa: l’entità amministrativa è anche un prodotto culturale e produce a sua volta entità culturali - aperta al mare, lambita da un grande fiume che fu asse di penetrazione e di raccolta, separata dalla penisola mediante una catena di monti con passi agibili per la maggior parte dell’anno, in una regione dove lperiferie sono davvero alambicchi curiosi d’esperienze plurime (si pensi al Delta con le propaggini venete, al Montefeltro con gli incunaboli sénoni, ai crinali biversante degl’antichi Umbri di Sarsina, ai montanari ed ai cavatori celtoetruschi dell’Appennino emiliano - se a loro si deve il lunghissimo scavo dell’acquedotto del Setta -, alle grandi etnie liguri dapprima, poi celtoliguri dell’ovest). In simili ed altri contesti occorre individuare quindi degl’orizzonti storici: percorrendoli e studiandoli non si può prescindere dagl’orizzonti attuali dell’esistenza, cioè dalle gravitazioni dell’economie e dei comportamenti umani nonché dalle realtà amministrative che nessun orizzonte culturale recuperato dal passato può scavalcare. Bisogna inoltre persuadersi che gli orizzonti storici non individuano (con buona pace dei sognatori di paesaggi organici ripuliti coerenti in ogni aspetto) dei comparti omogenei come se risultanti da un’immobile sequenza di secoli, come se il tempo e gli uomini (e la natura con gli uomini) fossero cresciuti in linea dritta come le piante d’alto fusto e con lradici scoperte. Delineare un orizzonte culturale, cioè una compagine di beni in qualche modo leggibile con una chiave specifica, significa scoprirne lnumerose intersezioni verticali ed orizzontali, temporali e spaziali con orizzonti diversi. Ma i confini furono (e sono) di viatico come nella storia delle culture umane.

 

“IBC Informazioni, III, 1987, 5/6, Presentazione all’inserto a cura di F. Lenzi M.L. Pagliani. pp. 25-56: 25-26

 


PARADIGMI DEL CENTENARIO

 

Paradigmi del Centenario. Uno scienziato (un appassionato) di beni culturali, un seguace quindi di segni della storia e delle culture nel vissuto contemporaneo, di paradigmi ne ravvisa almeno tre, quando si volge a considerare il complesso delle ricerche e degl’incontri promossi nell’alone dellricorrenze dei nove secoli dell’Alma Mater, dell’Università di Bologna.

Anzitutto, si tratta di una considerazione ben elementare in tema di beni culturali: va preso in esame lo sforzo complesso e globale, quale oggi si compie, di rappresentare nei rispettivi “segni” - documenti, oggetti, strumenti - le successive fasi dell’avanzamento delle scienze e dell’efficacia di maestri discepoli di diverse lingue e patrie nella lunga storia dell’Università di Bologna.

Ciò significa mettere ordine nei numerosi musei universitari, dove sono raccolti gli esemplari ed i modelli nonché gli attrezzi volta a volta utili o determinanti per la ricerca, e negl’archivi, dove si conservano le carte che tuttora attestano la presenza e l’intervento di professori e di scolari da genti vicine e lontane: in ogni caso, si dichiarano nomi famosi, come Dante, Copernico, Malpighi, Aldrovandi, Marsili, Galvani. Vetrine di strumenti e di modelli, armadi di reperti ed insieme finche di carte, sequenze di registri. La considerazione tanto polispecifica quanto globale ed unitaria del bene culturale si celebra proprio nell’impresa di mettere un ordine alle diverse colleganze e di rendere parlanti - eloquenti a tutti, ma con il linguaggio della scienza - i circuiti documentari ed espositivi di Palazzo Poggi, sede napoleonica ed attuale dell’Ateneo.

Un secondo paradigma s’intreccia al primo: quello di restituire attraverso i rispettivi beni culturali l’immagine della formazione e della crescita della cultura occidentale. Ciò non significa voltare le spalle ai focolari della scienza islamica, a quelli della cultura indiana o cinese, oppure alle scuole e allpredicazioni parlate degli orizzonti sudanesi, bantu od amerindi. Ma non c’è approccio ragionata all’esterno se non sussiste ordine in casa propria.

L’Occidente ha prodotto cultura, cioè organizzazione del sapere, a Bologna ed a Salamanca, a Parigi ed a Praga, ad Oxford e ad Uppsala, ad Heidelberg e a Cracovia: scrivendo in alfabeti di tradizione fenicia e d’impianto europeo, su carte e su pietre, classificando i cartulari e raccogliendo i reperti secondo logiche europee, e tutto ciò trasmettendo come impianto del sapere al secondo, al terzo ed al quarto mondo. E magari persino alla Luna: piaccia o non piaccia - sia detto con il distacco ed il travaglio critico che è proprio della cultura occidentale - tutto ciò è inequivocabilmente nella storia. Assieme al senso stesso del rispetto della storia, al bisogno di fedelmente ed onestamentdocumentare la storia, alla necessità di ricercare, raccogliere e classificare ogni segno della storia. Senza fanatismi, quindi senza preclusioni e senza roghi.

Ed infine, il terzo paradigma: sappiamo tutti che non vi fu mai, a Bologna, una “fondazione” dello Studio, che l’Università ebbe a crearsi nove più secoli fa dall’esistenza d’insegnamenti impartiti da maestri per i bisogni del vivere associato e della convivenza dei poteri.

Però ci torna bene il conto della decisione presa dal poeta, da Giosuè Carducci, di fissare un inizio e quindi una ricorrenza: dovette accadere la stessa cosa alle antiche civiltà - oppure a Robinson Crusoe - quando qualcuno conficcò un chiodo sul legno, a significare un inizio nel tempo, un anno od una stagione o un giorno. Cominciava la storia, e come in tutte le addizioni ogni tanto si tirava una riga, per fare le somme. Cioè si faceva il consuntivo - i centenari esistono per questo - e si metteva ordine nella memoria, con tutti gli impulsi ed i bisogni che tale bisogno finisce per produrre.

Ecco perché il IX Centenario è anzitutto un’operazione della ragione, un nodo sul filo della storia, prima di divenire una sollecitazione nostalgica oppuruna rivendicazione di primati.

 

“IBC” Informazioni, IV, 1988, ½, p. 3

 


E NELLA VALLE EMERGERA’ UN MUSEO

 

Cercherò di tratteggiare brevemente quelli che sono gli obbiettivi culturali della proposta di creazione di un museo delle culture umane del Delta del Po, obiettivi che scaturiscono direttamente dai valori creati dalla storia degli uomini vissuti entro questo paesaggio e che dipendono anche, e soprattutto, dalla consapevolezza che di essi s’è raggiunta, con conseguente domanda di recupero, di tutela, d’interpretazione, di ricerca. Domanda a cui si sono ormai allineate da un lato l’opinione pubblica, dall’altro le istituzioni del territorio e, lamministrazioni centrali e periferiche dei beni culturali ed ambientali. Anche sil numero dei valori responsabili della produzione culturale umana tenderebbprobabilmente all’infinito, per brevità di dialogo, ridurrei a 3 i grandi valori suscitati e vissuti dalla storia degli uomini nella cornice di questo paesaggio.

In primo, oggetto di un obbiettivo culturale ed a sua volta produttore di culture umane, è identificabile nel corso del Po; una considerazione, questa, estremamente facile agli occhi di tutti, ma da non dimenticare. Il corso del Po, e con esso l’immenso bacino padano, in cui vengono compresi i lobi romagnolo e veneto, rappresenta già nella preistoria, e ancora di più nella protostoria, una sorta di canale europeo collettore di traffici dai paesi dell’Europa occidentale centrale verso rotta nord-sud o sud-nord del mare Adriatico; un percorso infinitamente più breve e più sicuro del mar Tirreno, e che consente più agevoli contatti sia con gli scali che con gli orizzonti culturali del Mediterraneo Orientale. Ebbene, il Delta, un valore storico che dobbiamo affrontare ed esaminare, è da almeno ventisette o ventotto secoli un territorio complesso di processi d’accumulo, smistamento, scambio e stoccaggio di merci, situazione di natanti, imbarcazioni, tecniche di navigazione e ciurme; una situazione chresta immutata anche quando il traffico da e per l’Adriatico, anziché percorreril corso del Po, si smista, com’è accaduto per molti secoli, verso il litoralveneto, battendo cioè acque basse, bacini endolagunari, sino ai vecchi porti di Altino, ai meno vecchi porti di Venezia, di Aquileia e di Grado. Di queste durotte commerciali la prima che vede il canale europeo nordovest-sudest, nordsud (quindi: paesi alpini-Po-Adriatico di levante) è privilegiata in età preromana, in quel periodo cioè, noto come greco-etrusco-venetico; la seconda è privilegiata, ma non esclusiva, in età romana. E’ per questa ragione che il nucleo centrale del museo viene ubicato qui a Comacchio ed è costituito dai natanti, dai loro corredi, soprattutto dalle imbarcazioni di Valle Ponti.

Il secondo dei 3 valori da considerare per avere presenti i confini culturali del progetto in discussione è costituito dalla singolarità, evolvendosi in modo poliforme, del paesaggio deltizio. Presentando intensi fenomeni di sopravvivenza ecologica, di adattamenti di paleospecie vegetali ed animali, offrendo numerosi esempi di recessi culturali e d’insediamenti relegati, il Delta invoglia alla ricognizione, al recupero ed alla relativa protezione di aree archeostoriche, ciascuna potenzialmente significativa di un aspetto culturaldifferente e solo apparentemente secondaria ai più meritatamente famosi giacimenti delle necropoli di Spina. Questa estrema varietà di reperti induce a progettare ed a proporre uno schema di museo che ha un singolare caratterdi novità, di originalità, e che s’articola anche in entità sparse dalle molteplici funzioni: espositiva, di tutela, di punto di riferimento teoretico. Per lo più ubicati nei celebri casoni da pesca e tra loro complementari, le singole parti sono collocate tramite itinerarial nucleo capitale, collocati nell’ex ospedale di San Camillo e negli edifici circostanti.

Qui le più aggiornate tecnologie espositive e d’automazione devono dare conto dei dati codificati da realtà storiche, e naturali, complesse e polimorfe, comquelle del Delta.

Sono dati che riguardano il recupero del paesaggio, oggetti da conservare, da tutelare e da interpretare, oggetti della produzione culturale, della storia del lavoro, documenti sulla circolazione monetale, analisi dei relitti toponomastici, ecc. un lavoro preparatorio immenso che ha però già fatto moltissima strada.

Naturalmente, insistendo su questo secondo valore, che è intrinseco alla peculiarità del paesaggio e che impone una complementarietà tra differenti entità museali raccordate ad un nucleo capitale, non bisogna dimenticare chquesta stessa complementarietà travalica e tracima al di là di confini dellculture umane del Delta e va a raccordarsi a realtà museali ben note come il Museo archeologico nazionale di Ferrara od i musei di Ravenna e di Adria. Io vorrei a questo punto sottolineare, nel presente progetto, il valore chiaramentparadigmatico di questo tipo di museo composto d’elementi raccordati ad un nucleo centrale, “museo esteso”, insomma, interdisciplinare.

Le formazioni deltizie, nel pianeta, sono numerosissime, qualcuna fra queste, è stata oggetto di ricerche e d’impianti museali. Non mi riferisco all’esperienze, interessanti pur se modeste, dalle foci del Mekong, o dal Niger, o dell’Orinoco, non mi riferisco neppure ai piccoli antiquari della Camargue che pure, comDelta del Rodano, ha un’importanza eccezionale dal punto di vista della paleoflora, della paleofauna e delle funzioni che ha esercitato nel Mediterraneo antico, talvolta in diretta antitesi con il Delta padano; non mi riferisco ai musei di Alessandria e de Il Cairo per il Delta del Nilo, perché hanno tutt’altra impostazione. Mi riferisco, invece, ai due soli musei che, attenendomi alla mia ricerca, hanno inteso affrontare le culture umane di un Delta, e cioè il museo di Tulcia nel Delta del Danubio e il Museo di New Orleans per il Delta del Mississippi. Questi musei sono nati per rispondere ad obiettivi e ad esigenzculturali molto simili a quelle che caratterizzano e fondano il nostro progetto, ma sono stati realizzati attraverso uno stabilimento topograficamente unitario.

Non sono stati, cioè, presi in considerazione, forse non si è ritenuto utile farlo, quel principio di complementarità topografica e di raccordo topografico ed interdisciplinare che verrebbe ad avere il museo delle culture umane di Comacchio. Il museo che, discendendo direttamente dalla necessità di metterin luce i nessi fisici, funzionali, produttivi, culturali tra le diverse entità, li esamina, come dice la relazione base nel progetto, e/o in dimensione tematica:

acque, litorale, eco-sistemi, habitat, risorse, processi d’accomulazione, ecc.;

e/o in dimensione storico-diacronica: la formazione di Comacchio, gli insediamenti medioevali, il modo in cui il Delta fu lambito dall’archeologia industriale e quei fenomeni di regressione, relegazione o rigetto culturale chhanno contrassegnato la storia sociale recente. E’ in questi ultimi punti chs’introduce il terzo dei valori storici che mi sembra possano emergere comlinee-guida nella proposta per il museo di Comacchio. Questo terzo ed ultimo valore illustra il rapporto poliversi e complesso tra gli uomini e le risorse. I temi di ricerca saranno la pesca, certamente, ma perché non anche le fornaci, elemento fondamentale dell’insediamento fondiario nell’età romana, l’intervento delle comunità monastiche, i condotti balneari, le bonifichmeccaniche: è da ricordare a questo proposito l’importante progetto di destinazione dell’ex idrovora di Marozzo al centro di documentazione della bonifica meccanica.

Vorrei fare un’ultima considerazione. Abbiamo già sottolineato come questo sistema complesso d’entità raccordate ad un nucleo capitale presupponga un apparato di documentazione e d’informazione efficiente, ovviamente collegato ad una immensa banca dati a sua volta aperta ad altre banche e allo scambio d’informazioni con altre istituzioni, disponibile ad un pubblico eterogeneo e corredato di archivi e sale didattiche. Ma tutto ciò potrebbe essere pascolo ed obiettivo di qualche museo. La nostra proposta contempla qualcosa di più e di diverso. Il paesaggio del Delta impone, nella storia delle sue culture umane, che i suoi prodotti, gli oggetti, gli stessi micro-paesaggi ricevano pratichspecifiche di recupero, di conservazione e di restauro: basti pensare al contenuto composito del barcone di Valle Ponti.

Va benissimo la realizzazione di un laboratorio per il restauro del legno sommerso, ma è altrettanto doveroso ed auspicabile potenziare lprofessionalità per il restauro d’altri oggetti o d’altri manufatti, che il sottosuolo del Delta potrà restituire. Io credo che la possibilità d’istituire un laboratorio a molte sezioni, di alta sofisticazione e specializzazione sia una voce “a crescere”

nel bilancio dell’economia stessa del Delta. Una voce redditizia perché il suo risultato torna ad aumentare il pregio del patrimonio locale, e poi perchè è suscettibile d’insegnamenti, ed ha la capacità d’attivare realmente dellprofessionalità artigianali, caratterizzate da una specializzazione tale da renderle veramente preziose; e questo non mi sembra l’ultimo dei risultati.

Una economicità che torna a vantaggio della cultura e che razionalizza specifica la professionalità degl’operatori non è il punto meno significativo di una proposta progettuale che porteremo avanti se, come spero, saremo aiutati.

 

Il testo raccoglie l’intervento tenuto dal professor Susini a Comacchio, il 21

novembre 1988, nel corso della presentazione, al ministro pei beni culurali Gullotti, del progetto “Il museo delle culture umane del Delta del Po

 

“IBC Informazioni” IV,1988, 6, pp.14-16

 


GRAMMATICA DI ANTICHE IMPRONTE

 

Percezione ed interpretazione del mondo antico - o dell’evo antico -comportano una considerazione dell’“antico” come oggetto della conoscenza del sapere: in realtà i modi ed i metodi di tale conoscenza (didattica inclusa) presuppongono già una definizione dell’antico, pur nelle sue molteplici variabili, ovvero servono a definirlo. Non è una tematica del tutto nuova: qui brevemente la si riepiloga prima di passare ad enunciare proposte di classificazioni per la ricerca, la scoperta, il recupero, la lettura e la restituziondi segni (o d’impronte, o di orme, o di vestigia, o di traccie, o di messaggi: termini di significato non proprio simile ma che talvolta si scambiano tra loro).

Allo stato attuale della cultura esistono più orizzonti del sapere, più aloni della conoscenza (persino più stati d’animo) che si caratterizzano con il termindi “antico”. Anzitutto va rammentato che antico, nell’immaginario collettivo, è tutto quanto risulta separato e staccato dal vivente, sia perché spiritualmentdiverso (il pagano, per esempio) sia perché nutrito di una vita materiale ed esplicitato in orizzonti sensoriali del tutto lontani dalle nostre abitudini: a titolo d’esempio, il mondo degli oggetti, dei gesti e dei colori (si pensi agli abiti della gente) antecedente ai tessuti grigi ed ai rumori di macchine portati dalla rivoluzione industriale tra il XVIII ed il XIX secolo risulta irrimediabilmentconnotato come antico.

Naturalmente si registrano atteggiamenti differenti rispetto all’antico, variabili secondo le impostazioni dottrinali, secondo le atmosfere culturali persino secondo gli individui. Talvolta l’antico è inequivocabilmente considerato come vecchio, come un passato dismesso ed inoperante, come inutile superato, tale da non suggerire reviviscenze neppure ai gusti e alle mode: più che di antico in quei casi si parla d’antiquato, pressochè in antitesi al proclamato bisogno di cambiare (uno slogan ripetibile e ripetuto in moltcircostanze). La mutevolissima fenomenologia dello spirito umano s’incarica poi puntualmente di ribadire volta per volta la sentenza dell’antico come “vecchio”

riproponendolo come un “diverso” invece appetibile.

Infatti l’antico, se appunto riconoscibile come tale, comporta il pregio della sopravvivenza: ecco quindi, per dirla in breve, l’atteggiamento di chi apprezza la durevolezza dell’antico come criterio di genuinità (il valore del tempo antico buono). Con questa chiave la gente chiede all’antico molte prestazioni, persino di fantastica acrobazia: si strizza un nome di luogo sino a piegarlo a tutti i significati gloriosi (un Carnaio o un Sanguineto grondano pile di salmstraziate, da Annibale alla guerra greco-gota), s’assicura l’esistenza di tesori aurei (corone, corazze) al posto di cunicoli che traforano montagne sottopassano fiumi, si rigirano le monete trovate nei campi come un concentrato sublime di valore storico (il metallo, l’immagine e la scrittura la magia del potere, il carisma dell’imperatore). S’introduce a questo punto l’assimilazione (confusa, ma significativa) dall’antico al “classico”, un antico modellizzante, un modello da seguire (o da combattere, ma pur sempre un modello): ne deriva la convinzione d’alcuni primati, quello del liceo classico, delle lingue classiche, del pensiero classico. Subito sopraggiunge il ribaltamento di simile primato del “classico”, ritenuto responsabile di una cultura socialmente elitaria, ravvisato come causa utopica della negazione di ogni rinnovamento, difficilmente conciliabile con le filosofie dell’azion(l’esaltazione romanistica, dai giacobini ai fascisti, presenta in merito un’interessante successione di paradigmi storici), colpevole (o almeno con concorso di colpa) infine dell’esaltazione eurocentrica (o al più mediterraneocentrica, ma pur sempre greco-romana) della storia, non ultimo avvallo alle grandi stagioni di un colonialismo ecumenico.

D’altro canto, risulta difficile - o addirittura improponibile, persino dannoso - abbandonare quelle partizioni del grande racconto della storia che relegano l’evo antico prima del medioevo (sopportando un’inevitabile quanto inutildiatriba sulla data del diaframma) e considerano il mondo antico come alondelle conoscenze di quell’evo, quali ci sono trasmesse dai segni di quell’evo:

letteratura anzitutto, produzione figurativa, cultura materiale, paesaggi.

Diventano così basilari per ogni ricerca i processi ermeneutici di datazione dei segni, risulta così indispensabile la conoscenza (la lettura) semiologica dei testi, dei monumenti, dei contesti “archeologici”, degli oggetti-strumento, dei paesaggi. Non è lieve infine lo sforzo di serbare in memoria i paradigmi interpretativi impiegati per evo e mondo antico (per l’antichità, insomma), cioè per la descrizione dei vestigi di un immenso naufragio, al fine di sperimentarncautamente l’utilità nell’approccio ad altri evi e ad altri mondi: che è quanto s’è fatto con successo nella cosiddetta archeologia industriale e persino nella disamina recente del Settecento e dell’Illuminismo, ch’è quel che si tenta con le protostorie di culture eurasiatiche ed africane non a caso definit“periferiche”; dalle necropoli polacche di Biskupin alle migrazioni sudanesi, sino agli studi di etnologia dei popoli negri, magari mediati dalla documentaziondall’esperienze bahiensi, sino infine alla civiltà precolombiana, per toccarsequenze storiche che parzialmente o radicalmente si distaccano dallperiodizzazioni tradizionali dell’antichità, ancora una volta intesa - ma con l’accortezza e la consapevolezza critica dei limiti temporali ed areali - come evo e mondo conosciuti o rapportati ad un’esperienza eurocentrica o mediterraneocentrica.

Il trattamento dell’antico si configura quindi, sotto questo profilo, comcritica di segni o messaggi “creduti”, ritenuti cioè pertinenti all’antico dalla cultura - sia che sì espliciti come dottrina o nell’immaginario collettivo -, come svelamento di messaggi o segni “celati”.

Con il proposito di delineare qualche tratto di una grammatica dei segni o impronte dell’antico, si pongono alcuni postulati ermeneutici alla loro comprensione: a. ogni segno si carica degli apporti che gli derivano dai processi di trasmissione; a questo riguardo ogni atto della ricerca contrassegnato dall’imminente distinzione tra le fonti “viventi” (riconosciutcioè come pertinenti all’antico in virtù di certezze dottrinali, o di procedimenti di recupero: tali una pagina di Tacito, un toponimo di esegesi sicura - Agosta =

fossa Augusta -, una lucerna nella vetrina d’un museo, un arco onorario romano alla porta d’una nostra città, come l’Arco di Rimini) e fonti “spente”:

un’imprecazione emersa dall’inconscio religioso e nutrita d’esperienzdivaricanti cresciute nell’incunabolo pagano (il toscano-etrusco dio cane, l’emiliano dio boia con l’accattivante mimesi del “dio bono”, bonus Deus), un laterizio romano celato in una muratura medievale, un contesto funerario - i potenziali significati cronologici, rituali e religiosi, e per la conoscenza della cultura materiale - sepolto sotterra, un toponimo non più in uso, ma recuperabile da una registrazione notarile in una carta dei secoli passati, ecc.

Con l’avvertenza che dal momento della scoperta e della sua acquisiziondottrinale alla conoscenza dell’antico la fonte spenta (un segno selato chdiventa creduto) rivive: oggi, non solo nelle discussioni tra gli specialisti bensì anche nell’acculturazione vivace e permanente provocata dalla nuova civiltà delle immagini con l’imprescindibile complicità dei massmedia. Sul piano politico, la fonte celata e così svelata va subito ad aggiungersi agli oggetti da tutelare, anzi da restituire al suo contesto di bene culturale, infine non si sottrae ad essere frugata nella sua storia di bene celato: forse che gli oggetti di quel contesto archeologico non hanno subito i processi chimici e fisici propri della terra che li racchiudeva, forse che quel toponimo approdato ad una carta d’archivio non ha vissuto patemi morfologici sui quali viene ad indagare lo storico linguista?

Storia dei processi di trasmissione (o di tradizione) è quindi anche storia di degradi, di trasformazioni, di manipolazioni, di reimpieghi: ma s’aggiunge una prospettiva in più. Creduto o meno, un segno dell’antico, se però visibile (non nascosto sotto terra, quindi) ha comunque prodotto efficaci riscontri in chi lo ha visto e subito: le iscrizioni romane dei loggiati del Palazzo montefeltresco d’Urbino, anche se non fossero state capite e considerate tali (e può essere chqualcuno tra il Sei ed il Settecento le apprezzasse tout-court come prodotti dell’antico, e nulla più), colà esposte e non lontano dalla Biblioteca ducalrappresentarono modelli di scrittura, utili agli scribi ed ai tipografi. E si potrebbe continuare: la storia del senso dell’antico si compone anche di questi virgulti, di simili risorgive, d’intrecci inopinabili.

Un altro postulato utile o necessario ad una grammatica delle impronte: b. di ogni segno (in questo caso, gli specialisti impiegano più frequentemente la parola “dato”), quindi di ogni dato bisogna scoprire la relatività nel quadro sempre complesso della documentazione, ossia la portata significante, la sua “caratura”. Un’informazione è tanto più credibile, quindi un dato è tanto più valutabile nella sua portata quando si sia fatto il punto sui fattori fisiologici o patologici che ne accompagnano il recupero: la casualità o meno dell’acquisizione del dato, ovvero la tendenziosità o l’intenzionalità del programma di recupero (quindi la cultura del riferimento del segno), la verificabilità del dato, la contestuale ricognizione degl’ambienti e dei contesti o dei corredi che accompagnano il dato. Ma non solo la cultura del riferimento occorre indagare per carare un dato, bensì anche la cultura della sua produzione: bisogna cioè porsi la domanda dell’intenzione che ha accompagnato la formazione di un dato, cioè la volontà storica (o storiografica, se si vuole) dell’uomo o della compagine sociale antica che ha generato il dato stesso. Non c’è dubbio che una pagina di Tacito fu scritta per essere letta in una dimensione spaziale e temporale assai estesa, forse intenzionalmenteterna e sconfinata, ma la ricevuta di un pagamento oggi leggibile su un papiro del Fayum era destinata al consumo di pochi interlocutori del tempo della sua produzione; un nome di luogo come Figline nacque senza troppe intenzioni programmatiche come punto di riferimento degli uomini che si servivano di una fornace o che ne conoscevano l’esistenza (figlinae), forse un toponimo fondiario come Aquiliano risponde a qualcosa di più di una semplicregistrazione catastale e cela magari l’orgoglio del dominus del fondo e della sua famiglia, ma il nome d’una città come Valentia, o Pollentia, con l’intrinseco valore auspicale, corrisponde ad un manifesto ideologico, quindi politico.

Le scienze statistiche e quelle demografiche intervengono in modo determinante nell’apprezzamento dei dati: il recupero di una necropoli servalla conoscenza della consistenza di una collettività antica, nella misura in cui si riesce a valutare il grado di rimaneggiamento storico del terreno in un ambito sufficientemente ampio: in ogni caso la conoscenza dei corredi e la loro datazione restituiscono uno spicchio di dati certamente utili alla storia sociale.

Se però la valutazione è limitata ai segnacoli in superficie, cioè alle sepolturmonumentali, ne risulta solo la rappresentazione di una parte elitaria del contesto sociale, cioè della parte che conta per abbienza o per desiderio d’affermazione “storiografica”, o per entrambi i fattori.

Ragionando in comune su a e su b (ed è chiaro che numerosi altri esponenti si potrebbero aggiungere tra i postulati di una grammatica dell’antico, o di una grammatica storica in genere), impiegando cioè i metodi statistici nella valutazione dei processi di trasmissione, va ricordato che la sullodata pagina di Tacito ha certamente subito ben scarse manipolazioni - per quanto laboriosa possa essere la collocazione dei codici e l’individuazione degli scriptoria e degli amanuensi - rispetto alle trasformazioni, per esempio, di un paesaggio agrario.

Così la sopravvivenza di molti toponimi antichi in un territorio può sì significarun popolamento antico più intenso che altrove, può anche significare un particolare attaccamento, soprattutto in fase di enfasi ideologica, ai segni dell’antico, ma soprattutto farà sospettare di una scarsa trasformazione del paesaggio e di un limitato ricambio delle popolazioni e delle culture nei tempi successivi all’antico.

Giungiamo così ad elencare alcune proposte d’aggruppamenti di segni, o dati o impronte, rispondenti ad alcuni (solamente alcuni, s’intende) tra i valori di fondo del mondo e dell’evo antico:proponiamo cioè alcune chiavi per la lettura dell’antico.

1. Caratteristica dell’antico, di molte tra le culture antiche, è l’impiego del numero come elemento culturale omogeneizzante: quello che accadde per certi aspetti con la rivoluzione francese si verificò più volte nei processi di riforma dei sistemi metrologici e ponderali-monetari delle civiltà antiche. E’ necessario quindi allo studioso appropriarsi dell’uso del numero nelle singole culture e nei singoli periodi: ne deriva il recupero di una mole immensa di dati e di segni, dall’assetto dato agli spazi (le opere di catastazione, di parcellazione)sino ai più particolari aspetti degl’insediamenti fondiari e produttivi (nel mondo punico, nel greco, in quello romano), ai trapianti di popolazioni, alle bonifiche ed al rinnovamento delle fitoculture, alla conduzione dei campi (actus = un tiro di buoi in aratura); dalla costruzione dei manufatti (laterizi, tegole, lingotti strumenti della siderurgia di base) alla squadratura delle pietre: il patrimonio dei beni culturali ne risulta dilatato. L’uomo antico misurò la terra, giunse alla misurazione del cielo, sull’una e sull’altro pervenne a tracciare confini -

geometrici o astrali -, rinunciò a tracciarli sui mari, dove i tempi si misuravano con le giornate di navigazione. Misurò quindi il tempo, scandendo il calendario con le ricorrenze delle fiere mercantili e delle feste religiose e politiche: lcircostanze perché gli uomini si trovassero assieme.

2.Le civiltà antiche ebbero un’autentica cultura del corpo umano:

celebravano gli atleti e misuravano a dita, cubiti, piedi e passi. Gli strumenti creati nella preistoria e più tardi - anche entro strutture di produzioncomplesse ed avanzate - si configurano come prolungamento dell’efficacia degl’arti e delle mani: dai rasoi aglioggetti utili alla percussione, sino ai passaggi pedonali tra un marciapiede (una crepidine) e l’altro, con blocchi collocati sul piancito stradale a misura di gamba. Davanti ad uno strumento o ad un manufatto antico bisogna porsi seriamente la domanda del suo rapporto con la mobilità degl’arti, con la prensilità della mano, con la capacità della vista e dell’udito: il linguaggio dei fari ed i segnali militari comportano, perché

vengano correttamente capiti, una conoscenza rigorosa delle capacità sensoriali dei protagonisti.

3. La religiosità antica copre e coinvolge tutto quanto non è decrittabiled ordinabile dall’intelletto e dalle capacità degli uomini: il religioso affiora perciò costantemente, nella misura in cui spesso la persona avverte, prevede o conosce i propri limiti; alla stessa maniera le divine potestà s’incontrano ovunque. Perciò tracciare un solco o scavare un pozzo per terra comporta l’intervento e la conseguente esorcizzazione delle divinità di sottoterra; poiché

l’uomo non può fermare le sorgenti o i venti o i fulmini (tutt’alpiù potrà derivare le sorgenti per farne conservare d’acqua per gli acquedotti, e studiari venti per intraprendere un viaggio per mare al tempo giusto), in tali e altrforze della natura riconosce prerogative di perennità, sintomo certo della presenza del divino. Dal momento che la religiosità si esplicita - si devesplicitare - là dove l’intelletto non governa, tutto quanto non è controllabilcon sicurezza dall’uomo (una tempesta per mare, una malattia, l’esito di una guerra, un sogno d’amore) è fuori dall’ordine: il ripristino dell’ordine (il salvataggio, la guarigione, il buon giorno - itus et reditus -, il compimento del sogno d’amore) è nel potere della divinità, cui ci si rivolge con la preghiera, con la euché o con il votum, pagando un prezzo, che è il prezzo del ripristino dell’ordine. Magia e sortilegio rientrano in quest’orizzonte della religiosità antica: con essa occorre fare i conti in ogni processo interpretativo, valutando con attenzione tutti gli esiti superstiti nei comportamenti di ieri e d’oggi, descritti dall’antropologia o da altre scienze, mentre la storia delle mentalità ci aiuta a capirne le trasformazioni dall’antico in poi.

4. La sedentarietà, il possesso della terra e delle risorse attivano nell’uomo antico il senso del proprio, collegato al bisogno o al desiderio del risparmio: gran parte del diritto comune (nelle civiltà orientali, anzitutto)

deriva da pratiche di parsimonia, di difesa del proprio, di rivalità.

5. L’accumulo, ai fini dello scambio e della formazione della ricchezza, s’intreccia all’evoluzione del baratto verso sistemi ponderali-monetari e verso l’affermazione di valori nominali: i bisogni tracimano verso ambizioni suntuarie.

Il rapporto tra il regime di proprietà del suolo e delle risorse e la distribuziondella ricchezza, anche con fini di seriazione sociale, è una delle questioni permanenti nelle culture antiche.

6. Il problema dell’energia si confonde con quello della forza-lavoro, in difetto di grandi bisogni industriali (non dimenticando però l’impiego dell’acqua e del vento come forze motrici): viene risolto con l’addestramento professionale di manovalanze proletarie ma preferibilmente con mano d’opera servile. La documentazione quantitativa dell’entità di tali impieghi è molto difficile: è meglio conosciuta la professionalizzazione qualitativa (schiavi, artisti, scienziati), è più noto il processo d’emancipazione che porta i liberti al governo del terziario nelle città e nelle strutture politiche antiche, quindi ad una specifica documentazione monumentale.

7. Il passaggio da comunicazioni figurate a scritture alfabetiche, avvenuto in più fasi ed in diversi momenti dell’evo antico nelle sue civiltà, comporta processi d’astrazione e d’abitudine ad un linguaggio convenzionalche esigono un considerevole grado d’intellettualità, apprezzato sovente comcapacità magica. Lo studio dei processi d’alfabetizzazione deve fare i conti con mentalità ormai lontane dal nostro immaginario (ma qualcosa di simile si vivoggi con la cultura televisiva e con l’informatica, quando si pensi alle diffidenzed ai “distinguo” che l’una e l’altra provocano in larghi strati sociali), devportare l’attenzione sui valori propedeutici, nelle culture antiche - ma soprattutto in quella egizia, nella greca ed in maniera eccezionale nella cultura romana -, delle scritture pubbliche e perennemente esposte (le epigrafi) nonché sulla portata dei messaggi mobili ripetuti (le monete, gli oggetti bollati) ai fini dell’acculturazione e del consenso politico e commerciale. Un lettordella comunicazione nelle culture antiche deve porsi il problema del rapporto che volta per volta s’instaura, nel medesimo contesto oggettuale o monumentale, tra la scrittura e l’immagine:un discorso per gran parte ancora da scoprire; così deve affinare l’indagine sul raccordo che esiste tra scrittura linguaggio gestuale, tra scrittura ed oratoria: un’analisi approfonditi degli scritti retorici, delle orazioni e dei sermoni torna più utile di quanto comunements’immagini.

8. Storie (di uomini, di famiglie, di genti, di città, di società, di repubbliche e d’imperi) sono raccontate nel mondo antico in modi diversi: caso per caso, tempo per tempo, vale la pena d’indovinare il pubblico che ascolta che legge. Esiste un consumo della parola e della scrittura, di cui bisogna cercare di capire le modalità. Un pannello figurato, una scrittura epigrafica vengono fatti con attenzione diversa secondo l’atteggiamento del lettore, chpuò fermarsi a considerare, può guardare con intenzione nel passarvi davanti, può tirare via e gettarvi un’occhiata distratta: anche in quest’ultimo caso, qualcosa colpirà il lettore, secondo l’angolo visuale, l’illuminazione, la composizione e l’impaginazione del messaggio, figurato o iscritto che sia. A governare il diverso consumo del monumento è il suo ideatore, intendendo con questo termine una compagine che va dal committente (persona o ufficio chsia) all’artista o allo scriba. Una storia in gran parte da scrivere, suscettibile di mutare nel fondo l’apprezzamento di molti tra i beni monumentali chconosciamo e tuteliamo.

9. Di ogni manufatto, fine a se stesso (uno strumento, per esempio) o di supporto (un monumento, in molti casi), va ricercato il processo tecnico di produzione, come sommario delle culture degli operatori: con la stessa pazienza - e con la stessa finalità - con la quale se ne indagano le fasi e lcondizioni della trasmissione sino a noi. Per così dire, e per usare termini ormai entrati nell’uso, la genesi si configura come un Vorleben essenziale alla sua comprensione come il suo Nachleben: richiamo l’attenzione sul valore etico di questo procedimento della ricerca, che rivendica nei segni della storia il lascito di ciascuno dei protagonisti che hanno concorso a formarli.

10. Il mondo antico conosce la creazione della città; in alcune tra lculture più “classiche” dell’evo antico, la città si configura come il capoluogo di un territorio di dimensioni tali da consentire (e provocare) la conoscenza reciproca, a diversi livelli, degli abitanti (polis, civitas): quindi, una città a misura d’uomo, che consente di misurare in una giornata di tempo utile per arrivare al mercato, all’agorà o nel foro, ai santuari, e tornarsene a casa; una città con i suoi servizi (gli acquedotti, per esempio), e con strade le cui stazioni di tappa, quelle più vicine, almeno presso i romani si denominano con il numero delle miglia che le separa dal centro: Quarto, Sesto, un riferimento anche psicologico. Ritorna il ruolo del numero - non a caso in questa pur parziale esemplificazione di chiavi l’intendimento delle antiche impronte il numero, come fomite potente d’acculturazione nelle civiltà antiche, è stato il primo ad essere invocato - che si manifesta anche nell’impianto urbano, quando razionale (nelle città orientali, nelle apoikìe greche, nelle fondazioni romane), dove gl’atteggiamenti e le abitudini sono rapportati alla misura degl’isolati, delle vie e delle piazze, dove l’occhio sa di non avere altra prospettiva sino a quando il piede potrà svoltare, magari ad angolo retto, in un’altra strada.

Diverso, ecumenico - anche quando prevale la convinzione esatta della coesistenza di più imperi nel pianeta - è il centro dell’impero, la capitale (o lcapitali): ad essa servono le grandi strade, i grandi porti, l’esercito, la piramiddei ceti dirigenti (dalle città, dalle provincie, dalle diocesi).

11. In ogni momento - ma questo è un appello che, come altri qui disseminati, può valere per qualunque storia - occorre chiedersi, al fine di capire i contorni dell’impronta, quale era il “diverso” nel momento della sua produzione e nella spola della sua trasmissione: Atlantide, popoli dell’estremo Nord, afri dell’hic sunt leones, persino arabi ed etiopi, ed indiani ed altri compongono l’alterità storico-geografica di un mondo costretto dalla sua documentazione a configurarsi come eurocentrico e mediterraneocentrico. Il diavolo è nero dal momento in cui i neri escono dalla familiarità ecumenica di questo mondo. Ci sono alterità morali e sociali, inoltre: gli empii, gli schiavi, per esempio, ed in certe svolte dell’evo antico, gli ebrei, i cristiani, i barbari (molti tra i popoli dell’Oriente, ma per greci e romani s’intende, per esempio i persiani, i parti, i goti ed i marcomanni: le cui culture e civiltà però noi studiamo per i loro segni). Individuare volta a volta le alterità di una cultura, è impresa difficile ma utile.

Una grammatica di questo genere - per concludere - ha senso se inducad una valutazione globale - nella misura più ampia possibile: i computer aiutano anche a questo - delle impronte o segni che siano. Se ne otterrà di diminuire l’ignoranza storica, che va combattuta come viene combattuta l’ignoranza ecologica, con la quale persino talvolta coincide, perché è una forma di cecità.

 

“L’Ippogrifo. Politica ed economia dei beni culturali”, I, 1988, 1, pp.47-55


LE PIETRE DI DON CAMILLO

 

Ovvero i lapidari dei Ducati cispadani: poiché di Modena e del suo prestigioso Lapidario Estense - del quale s’avvia il riordino - scrive in queste pagine Elena Corradini, poiché di Piacenza e della relativa tradizione epigrafica tratta Maria Luigia Pagliani e poiché infine di Ferrara e quindi anche del (tutto nuovo)

Lapidario civico a Santa Libera - aperto il 2 Ottobre 1983 nell’occasione del II Colloquio “Borghesi”, appunto dedicato al tema scientifico ed organizzativo del Museo Epigrafico - riferisce Anna Maria Visser, torna il conto di soffermarsi su quel punto del corso mediano del Po, a Brescello (a Brixillum o Brixellum, città chiamata con il nome di Concordia da una colonizzazione dell’età triunvirale)

dove secondo Sidonio Apollinare (Epist., 1,5) Succedenti Aemiliano nautae  decedit Venetus remex.

Oltre che per i personaggi e le vicende guareschiane Brescello merita di essere ricordata per la sua storia e per il recupero di una cospicua necropoli monumentale romana, soprattutto dall’agro della vicina Boretto, e per una produzione epigrafica copiosa: che però solo in parte è conservata e raccolta nel locale Antiquarium comunale, laddove qualche documento di singolarinteresse confluì in epoca ducale al modenese Lapidario Estense, ed altri monumenti furono portati dopo la scoperta, tre generazioni addietro, nel capoluogo provinciale di Reggio Emilia, dove alcune iscrizioni vennero collocatnel Museo Civico (in una sala, mentre il patrimonio epigrafico reggiano, dall’antico forum cioè dal Regium Lepidi e dal territorio si distribuisce tra l’interno dello stesso museo ed il cortile), ed altro materiale e più propriamentla monumentale stele dei Concordi fu eretta non lontano dallo stesso museo, a decoro di una pubblica piazza. Situazione emblematica quindi di raccoltepigrafiche formatesi - anche sullo stimolo di una fertile tradizione umanistica di cui sono documento i codici famosi conservati nelle biblioteche - attorno allcorti ducali di Parma e di Modena, poi presso le sedi dei Dipartimenti napoleonici e di seguito presso i capoluoghi provinciali dopo l’Unità, a cura delle rispettive amministrazioni comunali.

Simile situazione è complicata dal fatto che alcune tra le città antiche del territorio tra il Nure ed il Secchia sono sopravvissute solo come centri minori - tali la già citata Brixillum, cui vanno aggiunte Florentiola (Fiorenzuola) ed anche Fidentia (Fidenza già Borgo San Donnino), e Fornovo (la cui identificazione con il capoluogo dei Foronovani, noti da fonti antiche, è stata di recente messa in discussione) - oppure sono del tutto scomparse e sono statrecuperate dall’archeologia, come Tanetum, e come Valeia, dove le scritturantiche si distribuiscono sui monumenti riportati alla luce, o si raccolgono nel recente Antiquarium che affianca gli scavi, o sono invece conservate in misura cospicua nel Museo Nazionale dell’antica capitale, a Parma (ivi anche lmeravigliose tavole bronzee della lex Rubria e del catasto veleiate), ovvero - se provengono dal territorio o da villaggi e paesi sul Trebbia - hanno trovato ricetto nel lapidario piacentino. Per non dire di iscrizioni sparse per reimpiego in città intensamente fabbricate nelle età successive, come Parma, Fidenza Reggio, o in edifici plebani ed abbaziali, per non dire di complessi monumentali con una fervida attività di produzione lapidaria a partire dall’evo antico sino ad oggi, come Bobbio, nella raccolta presso la Basilica di San Colombano. Va da sé che la consistenza delle raccolte “d’epoca” (quindi almeno sino al primo assetto successivo all’Unità: sulla collocazione delle scoperte successive si devdiscutere, in vista della connotazione organica di musei chiamati a documentare e ad interpretare una consistente storia locale, come è il caso di Brescello, di Fidenza, ed altro) va rispettata, soprattutto in considerazione della conoscenza del ruolo d’acculturazione e d’alfabetizzazione - curiale, plebea, tipografica - che queste raccolte esercitarono nei secoli più recenti. Come in ogni caso consimile, calchi e riproduzioni didascaliche possono o debbono evocare la documentazione antica nella sua sede originaria (comesemplarmente avviene tra il Museo Nazionale nella Pilotta parmense l’Antiquarium veleiate).

Procedendo peraltro ad un nuovo ordinamento dei materiali epigrafici nei lapidari - quindi dopo il rispetto delle raccolte tradizionali -, ove non sia possibile (come quasi mai si verifica) un ripristino museale delle situazioni topografiche antiche (cioè: una necropoli ricomposta con i suoi monumenti in uno degli spazi del museo), converrà raggruppare le pietre secondo monumenti e problemi storici del loro tempo. Nella realtà epocale del territorio cui qui ci si riferisce, si propongono i seguenti raggruppamenti: 1. I momenti delle colonizzazioni e delle municipalizzazioni, tra il II secolo a.C. e la prima metà del primo secolo d.C., che segna d’affiorare di un’intensa acculturazionlaica di cui l’epigrafia è protagonista principale, segna altresì l’evoluzione da monumenti di grande mole a stele figurate (spesso in corrispondenza al mutamento dei ceti curiali ed allo sviluppo del terziario), consente già l’individuazione di officine legate soprattutto alle fabbriche dei grandi centri civici ed alle necropoli del suburbio (nonché a qualche pago o santuario della pianura e della collina), esplica infine un ruolo (da approfondire) nella diffusione di modelli grafici testuali e monumentali nelle provincie europee, chfurono spesso - l’Iberia, le Gallie, la Rezia, le Germanie, il Norico, l’Illirico - coinvolte nelle colonizzazioni e negli impianti urbani da ceti intraprendenti di provenienza cisalpina ed anche cispadana; 2. Il ruolo della rete viaria (quindi dei militari), delle necropoli di villaggio, dei mercati foranei e dei santuari di campagna nell’alfabetizzazione del territorio; 3. La akmé culturalmente evoluta delle scritture e dei testi, quale si registra nei tempi maturi dell’Impero, tra la seconda metà del primo secolo e il III secolo avanzato; 4. Le scritture di transizione alla cultura della tarda antichità. Al dibattito di tali problemi, per la realizzazione di complessi museali criticamente corretti e davvero perspicui a letture poliverse, sono necessariamente chiamati gli studiosi e gli operatori dei beni culturali (dalle strutture statali a quelle regionali e locali); le università (attuali e future), il mondo della scuola e della pubblica opinione.

I volumi XI, 1 (1883) e XI, 2,2 (1926) del Corpus Inscriptionum Latinarum

raccolgono le iscrizioni di quest’area. In particolare poi si vedano: G. Susini, Lcollezioni epigrafiche parmensi, in Parma. Museo Nazionale di Antichità, Parma, 1965 e M.G.Arrigoni Bertini, Parmenses. Gli abitanti di Parma romana, Parma, 1986; per Brescello, G. Susini, Nuovi contributi all’epigrafia brescellana, Brescello, 1964; per Reggio Emilia, O. Siliprandi, Scavi archeologici avvenuti in Provincia di Reggio Emilia nell’ultimo cinquantennio (1886-1935), Reggio Emilia, 1936. Notizie di rinvenimenti d’iscrizioni appaiono di frequente in “Notizie degli Scavi di Antichità”, e negli “Atti e Memorie delle Deputazioni”.

 

“IBC Informazioni”, V, 1989, 6, inserto “Segni dalle pietre. Scritture e lapidari in Emilia-Romagna” a cura d V. Cicala, pp.36-64: 60-61

 


IL “BENE CULTURALE”: NUOVA VOCAZIONE INTERDISCIPLINARE DELL’UNIVERSITA’

 

“Bene culturale”-ovvero, al plurale, “beni culturali”- costituisce un’espressionche traduce un concetto indubbiamente complesso: personalmente, sono tentato di credere che le difficoltà che s’incontrano nel descrivere, cioè nel definire la cornice di tale concetto riflettono anche il carattere interdisciplinarche il suo studio comporta.

Tale carattere interdisciplinare si è indubbiamente assai allargato ed arricchito negli ultimi decenni, proprio quando l’espressione “bene culturale” è venuta maturando, sino a soppiantare - sia negl’atti istituzionali, sia nel linguaggio comune - antiche espressioni, come “cose d’interesse artistico o storico” ovvero “aventi carattere di rarità e di pregio” o (per quanto concernl’ambiente fisico) “bellezze naturali”. Vale la pena d’individuare la data di formazione dell’espressione “bene culturale” (nelle diverse lingue):
comunemente viene indicata la Convenzione siglata all’Aja nel Maggio del 1954

per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, e la medesima espressione diviene d’uso in Italia negli atti della Commissione Franceschini qualche anno più tardi. Ritengo, peraltro, che la prima menzione dei beni culturali si trovi negli atti della commissione istituita dal Governo interalleato di Berlino, nell’agosto del 1945, proprio per la tutela monumentale, e che sia poco dopo ripetuta in atti analoghi riguardanti la città di Vienna. Rappresenta un fatto pressocchè simbolico, se le mie ricerche sono esatte, che l’espression“beni culturali” si formi in una città come Berlino ridotta ad un’epidermidarcheologica, sei anni dopo che nell’agosto del 1939 il VI Congresso internazionale d’archeologia aveva dovuto chiudere in fretta in suoi battenti per consentire agli studiosi stranieri il sollecito ritorno in patria nell’imminenza dell’apertura dell’ostilità.

Quindi, concetto ed espressione del bene culturale nascono al tempo d’una svolta importante, verso la metà di questo secolo, nella storia europea mondiale. Di questa svolta sarà opportuno richiamare alcuni aspetti salienti, la cui efficacia ci è stato dato di misurare nei tempi successivi, e cioè:

-a seguito e successivamente al conflitto mondiale 1939-45 sono venuti meno oppure si sono trasformati alcuni valori intrinseci a primati politici culturali eurocentrici; non si può dimenticare che l’Europa ed i paesi del Mediterraneo sono considerati il focolare delle culture classiche e di quella cristiana;

-si è dilatata la conoscenza- e l’apprezzamento - delle culture del cosiddetto terzo mondo, anche in direzione comparativistica, secondo metodi etnologici ed antropologici;

-il concetto stesso di cultura s’è vistosamente evoluto, ed ha assunto dimensioni sociologicamente assai ampie; si sono rafforzate nuove conoscenznazionali, si sono formate e delineate nuove memorie nazionali in popoli di ogni parte del globo, soprattutto attraverso i processi di decolonizzazione; i mass-media hanno agevolato ogni tipo di conoscenza culturale;

-è maturata la consapevolezza delle correlazioni e delle interazioni esistenti tra fenomeni umani e fenomeni naturali, e ciò a livello planetario; s’è prodotto l’accumulamento dell’intera umanità - dopo Hiroshima, dopo che sono divenuti noti i progetti di genocidio o di trasformazione genetica, dopo la minaccia di disastrosi inquinamenti - di fronte a valori universali che sono comunque da difendere, e di fronte a rischi universali che sono da scongiurare.

Simile crisi- tra le più profonde vissute dalla storia umana - si è accompagnata quindi ad un rinnovamento di alcuni valori culturali, che ha coinvolto l’apprezzamento degl’oggetti, dei monumenti, dei paesaggi, degli ambienti, dei giacimenti e dei depositi “culturali”. La conoscenza ha registrato il moltiplicarsi di molte “alterità” rispetto alle culture tradizionali, sono stati individuati molti “diversi” rispetto alle culture storiche del passato che avevano nutrito la cosiddetta educazione classica. Infine, molti “diversi” divennero famigliari e più noti perché vennero interpretati come stigma e radice di culture di nazioni così recuperate alla conoscenza. Ci si avvezzò in ogni paradigma culturale, anche di casa propria, ad individuare le periferie, quei diversi sono tali perché geograficamente o socialmente marginali, nonché le subalternità marginali. Per fare un esempio, proprio la scienza dell’antichità ha provveduto ad individuare, negli ultimi decenni, linguaggi provinciali rispetto alla koiné del potere centrale (di Roma, per esempio): si ricordi l’opera di Ranuccio Bianchi Bandinelli, e poiché parliamo da Bologna quella di Guido Achille Mansuelli e di Giuseppe Ignazio Luzzato; in maniera analoga procedette per il medioevo l’età moderna l’individuazione delle culture contadine (va citata, tra le altre, la scuola bolognese di Vito Fumagalli). Il concetto di bene culturale ha acquistato in latitudine di significati, identificandosi sempre di più con il segno della storia degli uomini e con il segno del rapporto dell’uomo con la natura: anzi, s’è provocato addirittura il superamento del livello di conoscenze rappresentato dalla presenza storica dell’uomo nella natura, tanto che il bene culturale si è inserito nelle tematiche ambientali, recita un ruolo nel disegno degli ecosistemi, induce a ragionare in termini di equilibri e di squilibri (si veda una mia antica proposta, di coniare accanto al termine “biotopo” il terminarcheotopo”), giunge ad inserirsi persino o a colludere (come una questionmorale) con i programmi dei movimenti “verdi”. In quest’atmosfera respirano alcuni tra i pareri recenti degli studiosi, ne cito solamente due, quello di Giorgio Gullini - che ha dato vita nell’università di Torino ad un’entità dipartimentalche dall’archeologia s’estende alle scienze del territorio - secondo il qual“l’ambiente è il complesso delle risorse che alimentano la coscienza storica dell’umanità”, e quello di Tommaso Alibrandi (nel convegno udinese del 1985:

ad Udine vive una struttura universitaria specifica per i beni culturali) secondo il quale il bene ambientale è ormai attratto inequivocabilmente nel concetto di bene culturale.

Oggi, la ricerca avanzata sui beni culturali si attesta su due versanti, e cioè il recupero e la valutazione del segno dell’uomo, meglio del suo segno storico, la progettazione intellettuale (quella che Andrea Emiliani in un libro divenuto famoso definisce come il futuro del passato), cioè la progettazione dell’impiego delle risorse ai fini di una migliore qualità della vita, una qualità che è dettata anche dalla conoscenza critica e dal rispetto educativo dei beni culturali: i quali - sottolineo ancora - non si arrestano al conosciuto ed al fruito, ma si estendono concettualmente, proprio mediante l’intreccio con l’apprezzamento dell’ambiente, al conoscibile ed al fruibile. Proprio l’esperienza planetaria di questi ultimi decenni ha indotto a valutazioni globali dei segni ma anche dei “non segni” dell’uomo, ben più e diversamente da quanto potesse registrarsi cinque secoli fa con la scoperta dell’America o negli ultimi due secoli risalendo i principali fiumi africani: chi potrebbe sostenere che un minerale del suolo lunare, o un asteroide, o un incontaminato paesaggio di Marte, quindi un “non segno” dell’uomo (o ancora tale) sfugga a procedimenti analoghi a quelli chaccompagnano l’approccio epistemologico ai beni culturali?

Affrontiamo ora alcuni aspetti del recupero e della valutazione del segno storico: cioè la percezione del passato (o dell’ “antico”, si può discutere) comdimensione esistenziale, con la premessa che il passato è attuale proprio nella sua percezione. Del passato, o dell’antico, si possono decodificare alcuni valori, che dipendono da interpretazioni culturali, da impostazioni dottrinali, da climi storici, da stati d’animo, e cioè: -l’antico (il passato) è rovina, è spoglia (lo si dice anche del cadavere, lo si dice infine del bottino preso al nemico), è orma, o impronta, è vestigio, infine è reliquia: ma un frammento è ritenuto capace di testimoniare il tutto;

-il passato (l’antico) si concreta in un immaginario individuale, o collettivo, e può essere quindi considerato come un segno creduto;

-naturalmente, l’antico (o il passato) può essere considerato anche comun segno celato: capita ogni giorno d’individuare un segno storico (magari un soggetto sepolto), che bisogna recuperare e comprendere per farlo vivere; il passato, l’antico possono venire intesi come quanto è dismesso, inoperante, ripudiabile, una sorta di “diverso” cattivo ed inerte, un incentivo a cambiare, a voltare pagina;

- altrettanto l’antico (e il passato) può essere interpretato e seguito commodello, come garanzia di continuità (in quanto è sopravvissuto oppure è stato scoperto e recuperato), come un diverso buono ed operoso, come un marchio di qualità (vetustas come auctoritas, o come praetium), capace persino d’indurre la memoria storica ad operare chirurgicamente sull’immaginario:

tant’è vero - se vogliamo qualche esempio - che la lettura (pur semiologica) di un autore antico, magari di un oratore antico, o l’esame di un riquadro scolpito in un arco onorario o in una collana coclide aiutano l’immaginario sino a portarlo all’enfasi di certi racconti filmistici: tant’è vero che qualsiasi paradigma politico o sociale (la seriazione per ceti di una società storica) diviene un viatico inevitabile ma pericoloso alla lettura di un paesaggio storico (la famosa ricostruzione della città antica di Fustel de Coulanges, pur imperniata sullstrutture socio-istituzionali è stata per lungo tempo una ricercata chiave di lettura per l’interpretazione dei centri storici).

Questa disamina del bene culturale, quale s’è venuta qui tracciando per sommi capi, porta al bisogno di una definizione più approfondita. Penso per esempio che dovremmo pronunciarci sul seguente quesito (esplicativo):
appartiene alla scienza dei beni culturali - e qui da un’interdisciplinarità davvero enfatizzata - tutto il complesso delle riflessioni e delle deduzioni sul diritto, sulla storia, sull’economia, sulla mentalità che scaturiscono dalla lettura di un rogito notarile dei tempi andati (è solo un esempio, ripeto) affidandosi alla sterminata parcellizzazione del sapere, o invece - così credo - la scienza dei beni culturali si fonda - e soprattutto trova i suoi contorni, i suoi limiti - sull’indagine di tutto quanto è capace di rendere riconoscibile il bene cultural(sia esso la carta di un rogito, il paesaggio con tracce d’agronomia antica, la fotografia di un gruppo familiare, una fiaba, una melodia), di quanto serve al suo affioramento, di quel che investe le sue caratteristiche materiali, dei processi che lo hanno formato, delle avventure che ne hanno accompagnato la trasmissione fino a noi?

Se vale quest’ultima proposizione - tanto importante per individuare lpotenziali interdisciplinarità - il bene culturale possiede i requisiti dell’oggettualità (il monumento, quindi, o l’oggetto vero e proprio, la carta, ecc.) e se si vuole della sensorialità (il paesaggio, il mestiere, l’atteggiamento, il comportamento, il fonema o il grafema suscettibili di valutazioni storiche, il rito, persino l’immaginario che si concreta nel proporsi di fronte al divino, al potere, alla morte, e tutte le manifestazioni percettibili della mentalità), tantoché si deve dire che la scienza del bene culturale comincia e finisce con la sua decrittazione come tale, con la chirurgia fisica e concettuale che ce lo rivela: il suo studio necessita così degli apporti di tecniche, discipline e scienzdiverse. Per esempio, il passo di uno scrittore antico non costituisce benculturale in quanto fonte storica, ma come oggetto o supporto del processo comunicativo che ha assicurato la produzione e poi la trasmissione.

In fin dei conti, l’evoluzione semantica del termine “archeologia” lungo venticinque secoli, si spiega anche con la formazione del concetto complesso di bene culturale: se “archaiologhìa” era la scienza o conoscenza tutta del passato, se tra Sette ed Ottocento l’archeologia divenne la scienza dei monumenti e degl’oggetti di un evo (l’evo antico), oggi l’archeologia è semprdi più e tout-court la scienza della documentazione oggettuale, del contorno sensibile, dell’epidermide colta (magari rimossa e frugata), tanto che si parla correntemente di archeologia contadina, o di archeologia industriale, o di archeologia del terziario. Ed ecco perché - per fare ancora un esempio - proprio per la rilevanza che assumono nello studio dei beni culturali i supporti oggettuali o sensibili (non dimentichiamo: lo scienziato dei beni culturali sa dove porre il capo, ma anche dove mettere le mani, i piedi, le orecchie, gli occhi), la storia della scrittura non si confonde o non riassume l’epigrafia o la papirologia o la codicologia (o almeno non assorbe totalmente nessuna di tali scienze, neppure di tali discipline). Ed ecco infine perchè la semiotica, cioè la scienza dei segni e dei significati, accompagna sovente il nostro lavoro. Per continuare, ancora esemplificando: ecco perché chi scatta una foto, lo può farper passione, per souvenir, per affetto, ma produce nel contempo - lo sappia o lo voglia, o no - un bene culturale, cioè un rettangolo impressionato destinato a documentare uno spicchio sociale, un arredo, un abito, un atteggiamento, un paesaggio. Ecco infine perché Arnaldo Momigliano ripeteva che l’antiquario (lo studioso od il raccoglitore delle antichità) non è o non era necessariamente uno storico ma sicuramente contribuisce o contribuiva a formare l’etica dello storico.

La ricerca interdisciplinare sui beni culturali si è arricchita in questi ultimi decenni d’altre scoperte e riflessioni: si è meglio capito come il bene culturalrisulta tale (e cioè segno storico) in quanto carico di tutti gli effetti dei processi di trasmissione e di tradizione che lo hanno modificato sino all’assetto attuale, che è sempre e comunque un palinsesto, ch’è oggetto di mutamenti, di manipolazioni e di degradi (anche quando un laterizio antico è celato nel suolo subisce comunque gli effetti della salinità del terreno e di ogni altro elemento corrosivo). Vanno quindi studiati alcuni aspetti specifici dei processi di trasmissione e di tradizione, quale il riuso e il reimpiego; va presa in considerazione inoltre la sequenza dei messaggi reali e potenziali che un benesposto ha prodotto (per esempio, la valutazione di un’iscrizione antica in lettere capitali non può prescindere - anzi se ne arricchisce - dagli effetti chquelle lettere, se esposte, hanno provocato nel tempo, influendo sulla cultura del calligrafo o del tipografo, ed ispirando con la loro quadratura un singolarsenso d’ordine: si vedano al riguardo alcune pagine del Greenhalgh, 1984).

Vanno poi esaminate le manipolazioni subite dal bene culturale, che si tratti di manipolazioni erudite, e d’uso corrente o subliminali: è evidente che la pagina di un testo da codice o un oggetto antico hanno subito manipolazioni meno vistose di quelle che hanno afflitto un paesaggio (nella naturale evoluziondegli elementi che lo compongono), di un fenomeno dell’oralità, della poesia di paese (a partire dai carmi epigrafici dell’antichità), del toponimo, chcomprensibilmente sopporta vistose modificazioni morfologiche e semiologiche.

Non possono venire sottaciute le iconoclastie contro segni “impertinenti”, dal momento che il risveglio religioso le provoca, anche se sottolinea un maggiorattaccamento alle documentazioni del sacro. Andrà proseguito il recupero dei “confini perduti” (per ripetere il titolo di una mostra assai fortunata, allestita qualche anno fa dall’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna): si tratta di confrontare cabrei, catasti, carte amministrative, foto aeree. E si approfondirà la storia delle raccolte e dei musei, nonché delle biblioteche, non dimenticando che l’impiego crescente della videostampante trasformerà questultime in musei - irrinunciabili - dell’archeologia del sapere.

Si dovrà ancora curare il recupero dei beni culturali del sapere pratico, dell’artigianato vivente: dal cantiere, dagli spazi artigianali (per usarun’espressione coniata da Franco Farinelli), persino dal bricolage. Infine, sarà necessario valutare gli effetti modellizzanti (ed elitari) degli ideali “classici”, cioè del classico intenso come paradigma dell’antico, e viceversa: ciò che ha potentemente influito nelle trafile della trasmissione e della tradizione dei beni culturali.

Per di più, si comprende - ora, finalmente - che non si può apprezzare capire fino in fondo un bene culturale se non se ne scopre la sua formaziond’origine, intesa come concorso di più culture “operaie”: voglio riferirmi alla conoscenza specifica dei materiali di cui il bene è eventualmente composto, nonché alle tecnologie e agli apporti culturali recati alla sua fabbrica dai singoli operatori.

Negli ultimi decenni, anche nell’ambito dei beni culturali, si è registrato l’intervento potente di alcune discipline storiche della progettazionintellettuale: tali l’architettura, l’urbanistica, la sociolinguistica, l’antropologia culturale, la geografia nella sua accezione più avanzata. Gli apporti di tali discipline hanno contribuito alla faticosa individuazione di centri storici, di parchi culturali, di comparti culturali: intesi come il prodotto dell’intersezione di orizzonti conoscitivi (epistemologici, epocali) che non si riducono mai a territori storici semplificati. E utile rievocare al riguardo la primogenitura intellettualdelle “Annales”.

Altre discipline hanno recato di recente luce ed ossigeno anche alla scienza dei beni culturali: la demografia, la statistica, che ricercano valutazioni comparative e globali (in verità, fu antesignana l’archeologia già dalla findell’Ottocento, quando prese a descrivere ed a valutare contesti e corredi): la “caratura” di un bene culturale discende da molti dati, quali le informazioni sul recupero (casuale, programmatico), gli indici di frequenza e di distribuzione dei fenomeni (una tomba non significa necessariamente una necropoli, una necropoli non denuncia obbligatoriamente una città), l’intenzione del “produttore” del bene culturale; una pittura storica è cosa diversa dal conto della lavandaia, sebbene entrambe i beni siano utili e preziosi. Alla evocaziondi tante discipline in operante intreccio tra loro fanno naturalmente riscontro nelle università numerosi profili didattici - attuati, possibili o sognati - in corrispondenza a molteplici esiti professionali che si articolano anche a medio termine (scuole intermedie per diplomi). Volgendosi più nettamente al futuro, risulta necessario distinguere le procedure del recupero e della documentazione dei beni culturali da quelle della tutela (o conservazione), quindi al ripristino e della fruizione: tutto questo l’università non lo può ignorare, proprio perché si fa carico di preparare intellettualmente gli operatori di oggi e di domani. Il primo compito è quello d’insegnare a documentartutto: a questo riguardo l’informatica è essenziale, ogni tipo di schedatura e di censimento va spietatamente perseguito e completato. Occorre ripeterinformatizzando l’esperienza di un patriota appassionato dei tempi dell’unità nazionale, il celebre Cavalcaselle, che a dorso di mulo si fece allora tutti i contadi del paese per annotare e schedare tutto: dal momento che ogni lobo del nostro vivere produce i suoi beni culturali, persino un ufficio da mezzmaniche dietro uno sportello grigio archivia i suoi moduli e riscopre in fondo ai cassetti i suoi pennini. Ma proprio perché ogni settore produce (ed ha semprprodotto) beni culturali, proprio perché talvolta è necessario svuotare i cassetti, bisogna evitare che quella gestione della collettività - che noi auspichiamo sempre più consapevolmente condotta secondo schemi d’elevata cultura - si trasformi in un rispetto ibernante, olistico, dei beni culturali: dal momento che, anche antropologicamente parlando, tutto, proprio tutto può essere apprezzato come bene culturale, occorre schivare la tentazionprogrammatica od anche solamente orientativa di conservare tutto. Facciamo un esempio: non c’è civiltà che non abbia lasciato o non lasci la sua orma nel sistema numerico che impiega nella società:ciò si riscontra ovunque, dal foglio protocollo alle carreggiate stradali, dai blocchi di pietre in cava ai mattoni, dal ritmare del tempo e quindi del calendario (con feste e riti) alla misura ed al novero dei campi arati, tanto che ovunque nell’oggettività casuale è possibilrinvenire il segno di una, di più culture numeriche, quindi di impronte valutabili come beni culturali. Conserviamo tutto?

Se conserviamo tutto, se nutrissimo per qualche tempo questa intenzione, introdurremmo un simbolo nel sistema. Si può utilmente proporrquesto sillogismo - termine che mantengo per trasparenza, sebbene Umberto Eco m’avverta che non di sillogismo si tratta bensì di metafora, come talrubricata in Aristotele - e cioè: l’indiscriminata padronanza delle risorsplanetarie - che sono sterminate - da parte dell’uomo può sortire ad esiti mostruosi e fati, così l’ebbrezza del bene culturale, il cui patrimonio è immenso, può portare ad un conato d’arresto della storia, ad un ictus nella crescita del sistema civile, e per contrario al rigetto dei segni della storia.

Si tratta di un grande problema morale, oserei dire di un interrogativo religioso. Ma è un problema del mondo e degli uomini che sono chiamati ad operarvi: anche e proprio per questo l’università deve farsene carico nella preparazione - questa volta davvero “politica”, e di riflesso anche giuridica -

dei responsabili. La civiltà sopravvive se si misura, in questo campo, con la sfida della scelta, volta per volta, tra conservazione e rinnovamento, fatta salva - in assoluto - l’esigenza di un’integrale documentazione: è la sfida di un sapere capace di servire gli uomini e non già d’asservirli. Occorre che la vocazione universitaria verso i beni culturali porti a creare quei valori che sono utili per operare le scelte necessarie (è lecito manomettere un campo intriso dei segni della centuriazione romana per farvi scorrere un canale o un’autostrada?), giunga a preparare quegli scienziati che sappiano valutarintelligentemente le possibilità e i bisogni della fruizione dei beni culturali, della loro utilitas per la didattica, per l’economia, per l’educazione permanente, per la loro insostituibile rilevanza come segno storico. O meno.

 

Questo testo fu presentato già al convegno “Universitas e Universitates” tenuto a Bologna nel novembre del 1987, in dell’anno centenatio dell’Alma Mater Studiorum: esso torna attuale sia nel recupero della memorias dei cinauant’anni trascori dal secondo conflitto mondiale – al termine del quale si concretò l’espressiome 2beni culturali”- sia perchè i problemi proposti con crescente drammaticità agli uomini e alle istituzioni comportano oggi decisioni politiche comunque imprescindibili dal rispetto e dal recupero delle memorie.

In un cosmo grmito di gente, non c’è atto che non coinvolga la conservaziono la manipolazione o la cancellazione dei segni del passato: in maniera disperatamente consapevole. Che è quanto mi è acccaduto di scrivere da poco per l’opera in onore di Karl-Dietrich Erdmann – presentata come talall’Incontro internazionale di Kiel il 3 maggio 1990 – con il titolo Spurenforsc hung und Aufbewahrung der Geschichte: Ausgabe der Politik


“L’ippogrifo. Politica ed economia dei beni culturali”, III, 1990, 2, pp. 167-174

MUSEI ED ALTRO: CUMULI O RENDICONTI DELLA MEMORIA?

 

Mi prendo un libro tutto da leggere e me ne sto in casa. Lo si pensa pressappoco con lo stesso umore con il quale si decide di andare al museo - ma in un grande Museo, dove c’è di tutto - per goderci un’intera giornata: tra vetrine, biblioteca, documentari, ristoro. Sentimenti simili sono una declinazione del domestico nel collettivo, e si appianano al gusto orgoglioso di ammirare le radici di paese, o gli attrezzi di mestiere, quando invece si tratta di musei “piccoli”: sono gli spicchi visibili di un interesse per i musei che colma di pagine di periodici, induce a legiferare, alimenta una consapevolezza del “bene culturale” che tocca recupero e tutela (e interpretazione) dei paesaggi, dei tessuti démici, coinvolge i problemi dell’educazione, eccetera. Lo sappiamo tutti, come comprendiamo la fatica del politico quando deve arrestare - e gli tocca di farlo - i processi di recupero, tutela e ripristino per lasciare posto a ciò ch’è nuovo e necessario.

Qui s’impone però un problema altrettanto perentorio: grandi musei - per così dire, centrali - o musei “della città”, o “del territorio” (ma quale scelta fartra i tanti territori storici o antropici o di paesaggio possibili?), o addirittura, ove possibile, un museo “patrio”, di casa o casale o borgata, o di laboratorio, di bottega, di stalla? Certo, si dice oggi, i musei, più o meno grandi che siano, si collegano tra di loro in sistemi itinerari, unitamente ai tessuti urbani o di villaggio, agli spaccati naturali, alle cosiddette emergenze monumentali, comsi trattasse di un solo grande museo; un museo del territorio, o degli usi o stili di vita, ma si ripropone la domanda: cos’è il territorio? e si comincia da capo.

Ne risulta che il grande museo resta una tentazione insopprimibile: perché solitamente il grande museo si compone e si mescola d’episodi importanti rispettabili delle passioni del passato. Con le “raccolte” e le “collezioni” s’è fatta la storia della cultura del passato, dei diversi momenti d’acculturazione: certamente, è vero che una collezione di ritagli di fronti d’urnette da colombario, murata sulla parete d’un grande palazzo divenuto poi museo (come quello Urbinate dei Montefeltro) rappresenta un cumulo di “beni” chnon si riesce a decrittare nel suo criterio compositivo senza una o più specifiche chiavi di lettura - senza cioè che il cumulo, come un ripostiglio, diventi un archivio classificato in modo comprensibile -, ma è altrettanto sicuramente vero che quelle scritte (quelle, comunque raccolte, e non altro) insegnarono per secoli la scrittura capitale a visitatori di palazzo (spesso quindi non gente qualsiasi), a maestri e a tipografi. Allora va subito preposto che la raccolta o la collezione si deve rispettare come tale. E cioè come? Lasciando lcose come stanno, rispettando un presunto immaginario del passato - che è storia anch’esso - o rimovendo e ricollocando in maniera più spaziosa (coms’è fatto ad Urbino) per una migliore filologia del pezzo, oppure sbaraccando riordinando tutto, magari rispedendo alle rispettive “patrie” i monumenti chne provennero, e documentando invece, anche con sistemi di visualizzazioninformatica, la circostanza della collezione?

Ecco, la documentazione: spietata, onnivora, molecolare e cosmica assieme.Se vogliamo razionalizzare i musei, nell’accezione davvero grandiosa di “paniere” dei beni culturali, dobbiamo ricorrere alla documentazione ed allvisualizzazioni: da conservare e trattare a loro volta come un bene culturale, perché i metodi seguiti ed i limiti inevitabili d’ogni documentazione vanno sottoposti a critica corrente, di pari passo alla definizione di ciò che s’apprezza come bene culturale o no. Anche questo impegno, purchè sia chiaro, è compito del politico della cultura.

Quindi, scopi e profili chiari, nel definire l’assetto museale della società (non importa se composto di memorie del territorio, della memoria creativa di un artista, di ragguagli su assetti tecnologici e scoperte della scienza): ma è possibile, meglio è utile, limitare i grandi musei solamente a cumuli di memoridivisi per collezioni? Non è il caso di trovare legittima la voglia di chi cerca un suo appagamento nell’apprezzamento d’una civiltà tutta intera, o di un modo d’essere generalizzato, cioè entro un grande e tradizionale museo, a tempo libero?

Vale la pena di riflettere ad una esperienza culturale che è divenuta frequente negli ultimi decenni, cioè alle mostre. Il bisogno di fare il punto su una cultura (oppure lo stimolo a considerare cultura e civiltà ciò che magari fu solo una filigrana eclettica) ci ha donato ammirevoli mostre sugl’Etruschi, sui Traci, sui Celti, sui Fenici, eccetera: se poi si riesce a far intendere che una cultura fu protagonista di quel che definiamo Europa, tanto meglio. E se più culture di là dall’oceano tornano in memoria da quando iniziò il rapporto con gli europei, cioè dal tempo di Colombo, ancora meglio. Ecco, il vertice della soddisfazione si tocca quando una mostra santifica una cadenza centenaria, millenaria: come per Milano capitale, o per il bimellenario augusteo, su cui torneremo. Naturalmente ci sono mostre che s’agganciano a episodi della scoperta e del restauro, per divenire poi parte o patrimonio di musei (i bronzi di Riace, la toletta al Marcaurelio, la Fortuna maris comacchiese, terminlogoro ma di sicura appropriazione da parte della gente). Poi ci sono mostrche vogliono fare il punto sulle conoscenze di una cultura in un territorio anchampio (e che servono magari per chiarire le idee ai museografi, ai loro progetti): a Bologna, tra Archiginnasio e vetusti locali dell’Ospedale della Morte, si sono gustati i romani nella Cisalpina, gli etruschi ibidem, e poi ancora la civiltà urbana, cioè la formazione della città, tanto che sembrava ad un momento che da Bologna fosse passato Plinio il Vecchio a ripeterci che Felsinea era princeps Etruriae. Anche queste mostre, che rappresentano comunque un bisogno culturale non effimero, si presentano per un aspetto come i grandi musei, cioè assemblano opere di provenienza lontana e diversa, avulsa - nella mostra, fortunatamente in modo temporaneo - dal suo contesto ambientale, strumentale e persino epocale. Con spese e rischi considerevoli, comsappiamo.

Però delle mostre non sapremmo, oggi, fare a meno: c’è da dire anzi chin qualche caso sono davvero insostituibili, per esempio quando pongono in vetrina un artista e le sue opere, dove la “mano” non può essere sostituita da una copia, pur perfetta. Quel filamento di tinta su un affresco non è la stessa cosa di un blocco lapideo romano con iscrizione (dove lo scalpello si rivela a luci infrarosse, può essere documentato da un video: a palpare di mano o di labbra gli antichi caratteri sono solamente personaggi compassionevoli), cioè non può farsi considerare che ad occhio nudo, ammirato, scaltro imbambolato. Poi, ci sono le ricorrenze, centenarie o millenarie, di nascita, produzione e morte, accompagnate da convegni, premi, commemorazioni.

Forse il sociale ha bisogno di rendiconti facili, sulle dita cioè di dieci in dieci, pressappoco come in ogni tempo s’è cercata o indovinata l’arché, o la ktísis di un’epoca, di una cultura, l’inizio di un movimento, di una storia; e se n’è cercato l’ecista, il fondatore: come Romolo, o Colombo.

Il secolo XX (prima si contano pressoché solamente le esposizioni “universali”) ha conosciuto, attraverso le mostre (ed i convegni, le feste, persino i musei) due versanti delle commemorazioni bimillenarie di certi personaggi: per esempio, Virgilio, Orazio ed Augusto erano nati nel tempo di una repubblica discussa, e sono stati evocati nel bimillenario della nascita, in tempi di monocrazia; morirono poi quando il mondo era già un impero romano e vengono così commemorati, oggi, in discussa repubblica. Non so se questliturgie siano davvero inevitabili, ma oggi sono una sindrome molto diffusa.

Prendiamo un caso complesso, istruttivo, quello del rendiconto (o mostra, o museo, con tanto di bimillenario) della Civiltà Romana, che è stato bene messo a punto da una raccolta di scritti, Roma capitale. Dalla mostra al museo, Marsilio, 1983.

Tutto comincia con il rendiconto dei primi cinquant’anni di unità nazionale: nel 1911, si fece un’apprezzabile mostra di archeologia romana alle Terme di Diocleziano. Ma nel 1927 e poi due anni più tardi, la mostra si scompose, si ricompose e si allargò per divenire il Museo dell’Impero Romano, in due sedi successive: quando si poteva, le cerimonie si tenevano per il Natale di Roma. Dalla mostra al museo, si misero da parte tanti calchi o gessi che erano stati raccolti o compiuti per fornire, nell’esposizione, una visione globale: siamo già nel cuore del problema. Qualche anno più tardi, nel 1938, al 23 di Settembrcadeva il bimillenario del primo vagito di Augusto: ai suoi tempi - ma ce nsiamo accorti di recente - quella data si conosceva bene e si riveriva, tanto chnel campo Marzio era stato montato un obelisco a far da gnomone di una meridiana che sulla piazza buttava l’ombra esatta al punto giusto quando ricorreva la nascita e persino quando ricorreva il concepimento. Allora, nel 1938, nel palazzo delle Esposizioni il fondatore dell’Impero di allora inaugurava la Mostra Augustea della Romanità, cui peraltro si era provveduto con tanti calchi e riproduzioni da ogni parte. Sappiamo poi che, ancora dilatata nella documentazione, si progettò dapprima un’Esposizione per il Ventennio, quindi l’incompiuta EUR, poi davvero all’EUR si creò il Museo della Civiltà Romana, aperto nel 1952.

Questa vicenda merita d’essere considerata perché dai suoi scopi e dalle suinevitabili contraddizioni si ricavi qualche proposta in più per quell’aspetto del nostro vivere che siamo avvezzi a sintetizzare con il termine “museo”. Il Museo EUR, composto di calchi e immagini, riesce a restituirci una certa idea, criticabile ma documentata, del tratto di storia che va sotto il nome di civiltà dei romani: in questo modo i monumenti veri restano a casa loro, a fare la storia autentica dei territori. Però, proprio perché di esemplari fittizi, la raccolta risponde ad un cliché intenzionalmente sintetico, cioè ad un pregiudizio. Ad Atene, invece delle riproduzioni ci sono tanti monumenti entro il Museo Nazionale, e la presentazione del “tratto greco” della storia umana è forse più vivace, ma i territori davvero autonomi, anche nelle culture, delle singolpoleis risultano defraudati di elementi vistosi della loro anamnesi. Al Louvre si ricava un’immagine del mondo come lo hanno visto e goduto i francesi (studiosi, raccoglitori, generali) ma nella vicina St. Germain-en-Laye il Musée  des Antiqués Nationales riproduce le perplessità ateniesi. Al Metropolitan c’è una finestra sul mondo. Forse tempi nuovi per i musei (forse anche per lmostre) s’aprono quando si progettano stabilimenti e circuiti fedeli all“patrie”, pur con specifici aspetti (cultura rurale, terziario), quando si rispettano - ed è ovvio, speriamo - le sequenze delle collezioni e degli assetti “storici” nei grandi musei, e quando grandi musei saranno concepiti per osservare e rivoltare culture ritenute epocali o grandi tratti di civiltà, ma con un ricorso spietato alla documentazione onesta, cioè totale, parossistica, ipercritica: di modo che chi vi passa una bella giornata, sappia di disporre di visualizzazioni serie, di banche-dati appaganti (e poi qualche originale lo sfiderà a riconoscersi come tale).

Poiché non c’è angolo del mondo che non serbi sorprese eccellenti al raccoglitore di documenti dovrebbe accadere che di grandi musei ne esistano diversi, non necessariamente di storia della cultura romana, o iberica, o sumera o maya, ma di rendiconto tematico: tecnologie, letture del mondo come le fanno i fisici, i biologi. Purchè i cumuli siano ordinati come archivi seri e comprensibili, e che siano sempre disponibili, da monitor o meno, i rendiconti.

 

“IBC” I, 1993, 2/3, pp. 26-28

 


QUANDO UN MUSEO E’ ARCHEOLOGICO

 

Se “archeologico” pertiene all’archeologia, e se questa è - alla guisa degli storiografi greci - null’altro che “archeologia”, cioè disposizione ragionata dellcose del passato, definire un museo come museo archeologico è un controsenso: dal momento che ogni oggetto che vi si conservi, più o meno antico, fatto proprio dalla mano degli uomini oppure selezionato o raccolto dal terreno (anche un fossile, s’intende) viene ordinato ed esposto come elemento descrittivo di un orizzonte passato, o talvolta ancora presente ma - proprio perché rappresentato da oggetti che ne sono stati estrapolati - comunque è sempre passato. Basterebbe quindi dire semplicemente: questo è un museo, poi definirlo secondo i contenuti, per esempio “dell’età villanoviana”, oppur“paleontologico delle grotte tal dei tali”, o anche “dell’habitat di quel territorio così e così”, ovvero “delle macchine tessili” o infine “degli ex voto del santuario tale”, eccetera.

Invece, l’abitudine ha le sue leggi, anzi la sua cultura, tanto che la gente - almeno da noi, perché altrove (Africa australe, America latina, Asia orientale) diversa è la scansione deglievi - considera archeologico il museo che raccoglile testimonianze dell’evo antico, cioè dalla preistoria al dissolversi della romanità politica, o se intende comprendere altri evi o aspetti aggiunge all’“archeologico” una specificazione, come “dell’alto medioevo” o “dell’archeologia industriale”, eccetera.

Quindi, cerchiamo di capire cosa è o può essere, nel quotidiano, un museo archeologico, inteso come contenitore dell’antico, ed intendendo l’antico non tanto nella semiologia allargata di ciò che è, anche se di ieri o di ieri l’altro, risulta passato, ma nell’accezione più scolastica di quanto documenta e riflettquel che sui libri di storia o di storia dell’arte si definisce come evo antico.

Anzitutto, bisogna mettersi in testa che un museo, conserva quel che c’è e non quel che non c’è o non si è trovato: quindi sbagliamo quando, nel visitare un museo, riteniamo di farci un’idea globale e sufficientemente corretta della storia antica di un territorio, delle culture e dei gusti - artistici, economici, religiosi - della gente che popolò quel territorio. Se si vuole capire la “rivalità” di una documentazione museale, cioè se si vuole imparare qualcosa sul serio, bisogna valutare - e sapere esporre con chiarezza nell’apparato didattico - quanto si è alterato il paesaggio antico, e quale interesse o accortezza ebbero gli uomini per comprendere, recuperare e conservare i brandelli dell’antico: perché diverso è il caso di una moneta trafugata ad una lucernetta da una tomba terragna (e poi rivenduta chissà come), dall’ammirazione per una scultura romana da esporre, con qualche ritocco, nei paramenti di una cattedrale, dal consapevole riconoscimento di un viottolo nel reticolo di un agro centuriato (peraltro documentabile nel museo solo attraverso l’apparato didattico), dall’arnese di bottega che perpetua dopo molti secoli un uso strumentale.

Quindi, siamo le vittime di un polimorfo processo di selezione (con diversi gradi di casualità) del prodotto antico, sulla via di divenire un “segno” dell’antico. C’è di più: dell’antico si conserva ciò che per sua fisiologia era ed è conservabile (semprecché recuperato, non distrutto, non manipolato, non buttato), cioè il fittile per esempio, magari la pietra, con qualche sofferenza metalli ed ossa, ed ogni altra cosa (stoffe, carte). Poi, c’è un qualcosa da tenere sempre a mente - anche se pare di una ovvietà quasi dogmatica -, cioè che quando si tratti di prodotti non meramente strumentali (un mattone, una fibbia) ma destinati ad effigiare una società nel suo contemporaneo e commemoria ai cosiddetti posteri, bisogna valutare sia la possibilità economica sia l’intenzionalità (politica, sentimentale, storiografica) dei produttori: per esempio, le dediche votive (o gli ex voto) ed i sacelli o “delubri” che si recuperano non traducono tutta la religiosità di un orizzonte storico, ma quanto di quella religiosità aveva il modo e la preoccupazione d’esprimersi in maniera “archeologica”, cioè tale da persistere in un oggetto o in un monumento.

Altrettanto, si sa, vale per la conoscenza degli uomini, dei loro nomi, dei loro status sociali: sappiamo qualcosa di chi aveva i soldi e la voglia di registrarsi non già e non solo su un’anagrafe cartacea ma su pietra o bronzo.

Il museo, cioè il museo archeologico, è il museo di un territorio? Appassionati, eruditi, patrizi e canonici hanno raccolto “antichità” da ogni dove: il loro collezionismo ha prodotto musei di straordinario interesse per conoscerla storia culturale del tempo della raccolta (uno dei momenti del senso dell’antico), oppure per la rilevanza dei monumenti che vi sono conservati (un esempio, il Maffeiano veronese di Scipione Maffei). Vi sono poi grandi musei “dominali” formati dalle premure di signorie (i Montefeltro, nel Ducale di Urbino, ad esempio), o di grandi curie (i Musei Vaticani), oppure dalla passiondi scienziati per la raccolta di documenti di un’epoca (i musei “longobardi” di Cividale e di Spoleto, i musei “preistorici ed etnografici”), di una categoria d’oggetti (i monetieri, i medaglieri). In molti casi questi musei centrali”selezionano oggetti da amplissimi territori politici e culturali (les Antiquités Nationales di Saint-Germain-en-Laye), cui aggiungono collezioni del tutto aliene, pur preziosissime (la collezione Palagi nel grande Archeologico bolognese, nato attorno alle culture etrusche e preetrusche). In qualche caso famoso (gli Uffizi, il Louvre, il British, il Metropolitan), la documentazione è davvero cosmica, frutto d’acquisti o selezioni mirate, di spedizioni archeologiche nei paesi classici ed orientali, di donazioni.

Più propriamente, di un territorio può definirsi quel museo “dominale” di signorie non molto estese (le collezioni Estensi a Modena), dove si raccolgono monumenti ed oggetti da marche, da ducati e granducati, da contee, ovvero presso comunità ecclesiali (l’antico Classense a San Vitale di Ravenna); spesso questi musei raccolgono e mescolano contesti provenienti da più territori antichi, ma contigui: per esempio, proprio l’Estense di Modena raduna oggetti da Mutina, ma anche da Regium Lepidi e da Brixillum, poiché tale era l’estensione del Ducato; ma accadrà poi che Reggio Emilia, dapprima dipartimento poi prefettura, avrà il suo museo, ed in questo modo si dovrà cercare quanto dell’antico reggiano si trova a Modena. Il caso più emblematico è quello di Brescello, che dopo Modena ducale vide le sue memorie trasportatnel capoluogo provinciale reggiano, ma quelle di più recente acquisizione, si tengono nel Museo comunale di Brescello:la crescita di una consapevolezza “patria” per il bene culturale, porta a simile geografia dei musei e quindi percorre il cammino inverso rispetto alle ambizioni ed alle promozioni signorili ed erudite degli Umanesimi e dei Lumi.

Qualche volta, il museo prende le mosse (o si rinvigorisce) per scopertcomplesse, organiche e persino clamorose. Tre esempi: il Museo di Sarsina fu creato come istituzione comunale nel 1890, e già raccoglieva raccoltepiscopali: fu la prestigiosa scoperta, dal 1928, della necropoli monumentale di Pian di Bezzo a farne un gran museo, a gestione nazionale (quel che non accade a Ferrara, dopo la scoperta di Spina, quando il nuovo Nazionale si affiancò a Schifanoia: ma questa è storia della politica). A Bologna, l’Archeologico (anzi, allora il Civico nude dictum) subì un mostruoso allargamento con l’imponente documentazione romana della necropoli occidentale, quando venne in luce, un secolo fa, la diga antica del Reno. A Verrucchio infine (e gli esempi potrebbero continuare) le recenti scoperte dellculture protovillanoviane e villanoviane hanno prodotto l’Antiquarium locale.

Per finire: ci sono musei collegati o addirittura inseriti in parchi archeologici (Marzabotto, ad esempio, e la sua città etrusca; Velleia, città romana, dove il Museo presenta utilmente alcuni calci di quanto si conserva, dal tempo dei Farnese, nel Nazionale di Parma). Eppoi, quando si va in un museo archeologico (e non), quando si legge o si ascolta (o si cerca sul monitor) la spiegazione di tutto, bisogna insegnare che quel museo si visita assieme ad una certa rete di emergenze dell’antico: un impianto urbano, un lacerto centuriale, un rudere, una stele reimpiegata in canonica, una bottega di antico mestiere, una cava con i segni dei suoi scalpellini. E quando si fa un museo - in questa geografia intricatissima di episodi museografici prodotti da una cultura tanto fervida quanto palatina e municipale - occorre abbandonare in calchi, in riproduzioni, in visualizzazioni. E in banche dati. O almeno questo è quanto gli storici dell’evo antico chiedono ad un museo archeologico: forse quello che tutti chiedono ad un museo.

 

“IBC”, I, 1993, 4, pp. 54-55

 


CAMPI QUADRATI, CITTA’ QUADRATE E CURVE

 

E’ notizia d’oggi, è l’intenzione di sempre: si propone un Museo della “centuriazione” romana, designando una maglia (cioè un elemento della scacchiera centuriale), con relativa fattoria da trasformazione in edificio museale, in un territorio dove l’impronta romana sopravvive in misura eccezionale sino al paesaggio d’oggi. Si parla di Cesena, e del suo agro centuriato a settentrione della via Emilia (ma per qualche tratto anche a mezzogiorno di quest’arteria pedemontana) in un ambito che sembra limitato verso nord-est dalla strada tra Pisignano e Villalta, ma che di fatto tracima con lacerti anche di diverso orientamento sia verso la riviera sia a levante del Rubicone ed a ponente del Savio.

Va subito premesso che parlando di “impronta” romana s’intende una profonda trasformazione dell’ambiente, avvenuta tra il III ed il I secolo a.C. nel segno di una produttività agricola nazionale ed intensa, ma si parla anchdell’irreparabile perdita di connotati naturali ed antropici, cioè d’ecosistemi, cancellati dall’immigrazione di coloni, mercanti, soldati, di comportamenti, bestiame, culture.

Va anche detto che larghissima parte di quanto è dato di osservare sull’agro centuriato di Cesena può tornare utile all’analisi di molti altri territori bonificati ed appoderati sotto l’impronta romana: in tutta l’ecumene antica, ed esemplarmente nella regione cispadana, dal Conca al Trebbia. Qualchpreambolo è utile a comprendere la genesi di simile impianto. Anzitutto va ricordato la viabilità esistente al momento dell’approccio romano, cioè lcarrettiere ed i sentieri battuti già nella protostoria: la cosiddetta pista di piedimonte, ad esempio, antesignano della via Emilia tracciata come strada consolare nel centottantasette a.C., che ancora rivela l’andamento originario nei tratti dal Marecchia a Diegaro e poi nell’attraversamento di alcuni centri urbani dove si subordina al decumano massimo (ad esempio, a Bologna); per la viabilità vanno ricordati ancora i cammini su dossi e cordoni verso il litorale, che già in tempo antichissimo distinguono nel passaggio naturale le terre sode, irte di cespugli e boscaglia ed utili al pascolo, dalle terre umide, cosparse di stagni e paludi: di questi elementi naturali si serviranno le arterie dei tempi storici, la Popillia e le Romee (a parere di alcuni studiosi, proprio la citata via tra Villalta e Pisignano fu progettata dai Romani come continuazione della via Flaminia, l’arteria che da Roma menava all’Adriatico a Rimini e alla Padania).

Ancora vanno ricordate le piste di fondovalle, dai valichi appenninici verso lfoci e gli approdi adriatici (Rimini, Ravenna), lungo le quali sorsero alcuni capoluoghi di principi pastori, come Verrucchio in Val Marecchia e soprattutto come Sarsina, capitale dei Sapinates, in Val di Savio, ovvero centri di traffico ben organizzati come Marzabotto in Val di Reno. Gli esempi si potrebbero moltiplicare nelle vallate occidentali della Cispadana, in area ligure celtoligure. Si aggiungono al catalogo dei cammini antichi le vie di cresta, tra vallata e vallata ed i tratturi tra monte e piano: un esempio d’altissimo interesse al riguardo è l’area del Bevano.

La geografia storica dell’età preromana prende altresì in considerazione lrisorse, consistenti in tanti pascoli (con l’ingente produzione casearia, di pelli, lane e carni), qualche coltura e l’estrazione di minerali, ad esempio lo zolfo dell’entroterra riminese. Vanno infine considerati gli agglomerati: collocati allo sbocco della vallate in pianura, quindi all’incrocio con la pista di piedimonte (lfuture città romane), le già ricordate foci di fiume, e quei paesi in cui si è detto, su guadi intermedi nelle vallate appenniniche, spesso capoluoghi di specifiche entità tribali.

L’appropriazione romana del territorio trasformò la Cispadana, almeno dallpiù basse pendici collinari sino al limite delle terre sode, in una serie di reticolati, di scacchiere cioè destinate ad ospitare nelle singole maglie alcunentità poderali, e talvolta in sequenza geometrica perfetta l’una rispetto all’altra, altre volte con orientamenti diversi. I ceti dirigenti romani avevano, già dall’approccio al territorio cispadano, una certa conoscenza dell’ambiente: ne erano ragguagliati dai peripli greci, sicuro fondamento delle trattazioni geografiche più correnti, poi da spedizioni militari di avanguardia e di ricognizione e d’ambascerie nel paese gallico, e soprattutto dalla cultura dellcapitali etrusche ed umbre che per lungo tempo (ed ancora nell’età romana) controllavano l’economia e guidavano i movimenti dei popoli anche sul versante cispadano. Non a caso, nel primo ordinamento regionale italiano - reso pubblico proprio 2000 anni fa, ma di questo bimillenario nessuno s’è ricordato - il governo augusteo assegnò alla regione “umbra” larga parte dellvalli appenniniche tra il Marecchia ed il Marzeno.

Il primo episodio dell’insediamento stabile romano fu, com’è noto, la fondazione della colonia di diritto latino di Rimini, nel 268 a.C., su un precedente agglomerato indigeno; quest’avvenimento non può esserdisgiunto dall’operazioni per il controllo dei valichi appenninici alle testate del Marecchia e del Savio (passi di Viamaggio, Montecoronaro e dei Mandrioli) dalle conseguenti operazioni militari che portarono nel 266 a.C., quindi appena due anni dopo la fondazione di Rimini, all’assoggettamento romano di Sarsina.

Nel quadro della tracimazione politica romana tra la cosiddetta “prima Italia”, sul versante tirrenico e nel bacino tiberino cioè, e la “seconda Italia”, sull’Adriatico e verso la foce padana, il triennio tra il 268 ed il 266 a. C. significò il controllo di più assi veicolari: certamente la via, che poi si chiamerà Flaminia, dalla sella di Gradara alla foce del Marecchia, nonché la via chdall’alta Val Tiberina discende lungo il medesimo Marecchia, infine la via lungo la valle del Savio. Seguendo questa via, da mezzogiorno verso nord - allora, nei primissimi tempi dell’appropriazione romana - si svoltava allo sbocco in pianura verso sud-est, in direzione di Rimini: la via del Savio e poi quella tra Cesena e Rimini rappresentavano un limes del più antico territorio romano nella Cispadana. La svolta era contrassegnata nel paesaggio dal colle Garampo e dall’agglomerato preromano di Cesena. Forse a questo brusco voltare degli uomini e dei carri all’altezza di Cesena in direzione di Rimini, si deve la prima glossa della toponomastica antica di Cesena che, nella cartografia superstite, reca l’appellativo di “curva”: alla spiegazione tradizionale di questo nome, secondo la quale la via Emilia, proprio nel serpeggiare del suo primo tratto, avrebbe in qualche modo contornato il Garampo, si può quindi aggiungere il germe semiologico più antico dell’emozione che soldati e mercanti provavano, quando scendendo dal Savio nel cuore della giornata si trovavano ad avere non più il sole alle spalle ma sulla destra. Di fatto il cammino lungo il Savio, continuato poi dalla via del Dismano verso Classe e Ravenna, traccia l’orientamento astronomico dell’impronta romana, cioè della centuriazioncesenate e riminese: poiché sui campi, nel seminare o nel mietere, il colono seguiva i solchi tracciati da sud a nord ovvero da est ad ovest, tanto da tenernel primo caso la vista del tutto libera dal riflesso solare, mentre nel secondo caso accompagnava astronomicamente il cammino del sole.

Per completare la storia dell’appropriazione romana del territorio cispadano, va detto che l’agro riminese, quindi dal Conca al Rubicone, fu certamentappoderato prima del 236 a. C., cioè prima della più recente invasione gallica, e più facilmente tra il 245 ed il 236 a. C., esaurite le operazioni della prima guerra punica che indubbiamente assorbivano la maggior parte delle risorsdel governo romano; la centuriazione cesenate può datarsi dopo questa fasentro il 218 a. C., quando ebbe inizio la seconda guerra punica; in particolarnel 232 a. C. il territorio piceno, popolato dai Senoni a mezzogiorno del territorio riminese lungo l’Adriatico, fu assegnato con legge apposita a coloni romani. La centuriazione riminese e cesenate costituisce l’esempio più antico nel territorio cispadano; in particolare, la centuriazione riminese è riconoscibilsoprattutto attraverso gli assi cardinali, assai meno per quanto concerne i decumani (un esempio analogo è ricercato nella centuriazione di Cosa, colonia sul Tirreno di poco anteriore a Rimini), laddove la centuriazione cesenate è di tutta evidenza nella completezza della sua scacchiera. C’è da supporre che il territorio riminese, cioè sino alla destra del Rubicone, fosse stato appoderato secondo i parametri della redditività economica correlata ai diversi ceti dei coloni, laddove il territorio cesenate risulta il prodotto di una politica agronomica di forte connotazione egalitaria. Forse per quest’aspetto, tra il Rubicone ed il Savio s’impiantò nell’età antica una civiltà tanto operosa, dovogni maglia della centuriazione restituisce ancora oggi una sindrome di dati particolarmente evidenti: quasi un paradigma per il recupero dei tratti fisici degl’interventi coloniari (strade, fossi, sentieri, fattorie), per la valutazione del ribaltamento ecologico che l’impronta romana ha provocato (con il conseguente trapianto di colture e di bestiame: dove l’importanza del recupero di residui osteologici, di pollini e di fossili), per la conoscenza degli strumenti, dei ritmi, dei linguaggi, quindi del calendario del lavoro antico.

Se la centuriazione cesenate e riminese fu la prima, in ordine di tempo, tra le centuriazioni cispadane, fu però l’ultima (o tra le ultime) in Italia a subirl’orientamento rigorosamente astronomico da sud a nord: emerge in talassetto la sopravvivenza di un’intensa ritualità, con specifici richiami all’aruspicina etrusca, e di una buona conoscenza della letteratura urbanistica, ecistica e gromatica in lingua greca, allora già nota negli ambienti culturali romani. All’infuori di lacerti isolati, le centuriazioni successive nella Cispadana, già dalla destra del Ronco e sino al Po nonché a nord-est dell’asse Villalta-Pisignano, furono tracciate secondo le necessità che il pragmatismo romano ravvisava caso per caso: quindi soprattutto, ad esempio, secondo gli assi fluviali in pianura e mediante l’innesto normale sulla via Emilia.

Tali furono le centuriazioni che si susseguirono, segnatamente dopo la guerra annibalica e nella prima metà del II secolo a.C., con successivi ampliamenti, ritocchi, abbandoni e ripopolamenti in momenti diversi, come al tempo delle guerre civili mariane quando gli abitati sprovvisti d’assetto coloniario ricevettero l’autonomia municipale, ed al tempo delle colonizzazioni triumvirali ed augustee.

In questo paesaggio romano della Cispadana gli impianti urbani conobbero già dalla fondazione o per successivi adattamenti lo schema del reticolato per insulae; tuttavia in alcuni centri questo profilo rigorosamente geometrico dell’impianto urbano - destinato a tanta fortuna nell’età delle colonizzazioni dell’urbanizzazioni di ieri e di oggi, nonché alla disperazione degli ingegneri del traffico per le svolte agli incroci - fu raggiunto malamente e con larghapprossimazioni: soprattutto nei fora (quindi a Forum Popili-Forlimpopoli, a Forum Livi-Forlì, a Forum Corneli-Imola, a Forum Lepidi, o Rhegium Lepidi- Reggio nell’ Emilia), e naturalmente in città come Ravenna, tra stagni e paludi con qualche canale, come Cesena, un conciliabulum tra monte e piano, comFidenza, un paese divenuto città in tempi avanzati, come a Sarsina, a Mevaniola, a Velleia, governate dalla morfologia della media collina. Anche a Bologna, cioè Bononia, presentava verso mezzogiorno, in direzione delle primpendici collinari, un profilo non rettilineo del suo perimetro, tanto che la figura della città antica può più propriamente paragonarsi ad un trapezio o meglio ad un pentagono.

La viabilità antica non era - lo si è detto - sempre e rigorosamente rettilinea come la sognano i mitografi della romanità, ma proprio perché era virtù romana l’adattarsi alle condizioni del terreno e alle necessità dellcomunicazioni, le strade presentavano flessioni: indubbiamente il caso del Garampo è del tutto singolare, sia perché Cesena è la sola città davvero sorta abbarbicata alla prima pendice appenninica, e poi perché la curva Caesena può essere spiegata, come s’è detto, con l’identificazione di un antichissimo percorso controllato dai Romani lungo il Savio e poi in direzione di Rimini.

Ma l’impianto stesso delle città romane obbligava la via Emilia, ed altrstrade confluenti, a subire orientamenti diversi: si fa qui il caso di Bologna, dove la via consolare entra in città, nel decumano massimo, compiendo una lieve curva nel punto in cui affluivano anche altre vie (ad esempio quella proveniente da Ravenna, la San Vitale) e altrettale flessione presenta all’uscita dall’impianto urbano in direzione di Mutina-Modena.

Documentare la centuriazione antica - più propriamente, per usare il termine romano, i processi della limitatio - comporta il censimento nelle fonti storiche (cartografie, catasti) di tutti gli elementi utili, quali ad esempio i microtoponimi, d’origine gromatica o fondiaria.
Occorre poi scrivere la storia della crescente consapevolezza, nella cultura nell’opinione, del ruolo svolto dagli assetti centuriali sia nell’evo antico successivamente nella storia dei territori: occorre insomma a fare la storia del “saputo” coloniario e “gromatico” dall’antichità ad oggi.

 

Un’esperienza interessante rappresenta la ricognizione nella stampa quotidiana e periodica (ed oggi nei mass-media) delle notizie e dellconsiderazioni sull’assetto centuriale romano quando esso veniva, o vientuttora, manomesso ed alterato, pur per motivi di pubblico interesse (ferrovie, strade, autostrade, aereoporti, canali, impianti fognari). Un Museo della Centuriazione potrà inoltre sconfinare dall’analisi specifica del territorio considerato, per recuperare documenti e materiali concernenti il fenomeno della limitatio nell’evo anrico in un orizzonte ecumenico. Mi chiedo: sono rivisitabili i materiali di importanti Mostre sul “misurare la terra”, o gli imponenti apparati del Museo della Civiltà Romana, oggi in Piazza Agnelli all’EUR, ma allestiti da Plinio Fraccaro e dai suoi collaboratori già quando quel Museo fu la Mostra Augustea della Romanità sul finire del Ventennio?

Una sede “museale” (cioè esegetica e documentaria) di tal generrappresenta un servizio alla crescita culturale, agli interessi della didattica, allcuriosità di chi viene da lontano, agli studiosi: almeno loro dovrebbero saperche non si smette mai d’imparare.

 

“IBC”, I, 1993, 6, pp. 52-54

 


UNA GRAMMATICA PER LA DIDATTICA DEI BENI CULTURALI

 

Sul finire degli anni Trenta un industriale famoso propose di fornire le grandi strade nazionali, dai valichi di frontiera in giù, di un rivestimento antipolveradatto ad accogliere linee continue - in colori diversi - che conducessero i “turisti” verso mete aggreganti: così, il giallo (colore delle antiche pietre) per Aquileia, Roma e Pompei; il blu celeste per Padova, poi Loreto ed Assisi; il verde di primavera a Firenze, San Giminiano, Pisa, Siena, Pienza; il rosa verso Venezia e sino a Verona, dove la linea si confondeva nella treccia di Giulietta giù dal balcone.

A ben pensarci, la proposta segnalava il bisogno di classificare e aggregarin modo utile le grandi curiosità, aiutando a muoversi - come guidati da una cartellonistica selettiva - tra luoghi e monumenti elencati nei Bedaecker: si ponevano così i primi problemi di conoscenza e di guida ai beni culturali. Eppoi, cosa poteva accadere quando una linea-guida si sovrapponesse o s’intersecasse ad un’altra? Si trattava di escogitare degli accorgimenti pratici, o d’adattasi a ripensare agli obiettivi, in modo che la letteratura di questi risultasse da una grammatica chiara, s’identificasse alla fin fine con una speciale didattica.

E’ un tema complesso: tanto più oggi (e certamente siamo d’accordo nell’auspicare che simili interessi semmai s’accrescano, non calino di tensionnel futuro), quando la domanda di conoscenza del bene culturale vienformulata con consapevolezza diffusa, con interesse globale, dalla gente, dagli studiosi, e dagli scolari (che sono poi degli studiosi). Anche se i comportamenti correnti sembrano talvolta (o troppo spesso) suggerire ignoranza, persino apostasia verso il patrimonio culturale, tutti quanti, più o meno esplicitamente, siamo ormai persuasi che ogni cosa che ci capaciti di riscontrare (un oggetto, un monumento, un paesaggio) ed ogni accadimento (un gesto, un fonema) si collegano tra loro a rete, tanto che i singoli fenomeni ed i loro aggruppamenti sono inesorabilmente una traccia (un sedimento, un segno, una memoria: s’impiegano tante parole) del passato: che quindi non si può fare a meno di vederla e di spiegarla, sempre che non si tenessero gli occhi chiusi o si riuscisse a smettere di pensare. Che poi queste traccie aiutino gli uomini a vivere meglio è cosa tutta da dimostrare, ma poiché esistono vanno comprese spiegate.

Siamo quindi tutti d’accordo che bisogna muoversi per raggiungere, anchsu questa frontiera della vita civile, un buon livello d’attenzione d’organizzazione culturale: anzi, con un briciolo di buona educazione, possiamo ritenere che si tratta di uno dei modi migliori per tenere desto lo spirito. Coml’industriale delle strisce colorate, dobbiamo però tentare dei sistemi, sperimentare degli ideogrammi o delle cornici, collaudare delle chiavi di lettura che ci facciano strada tra i singoli panieri del nostro patrimonio culturale, persuasi che i singoli sistemi reciprocamente ci aiutano per capire di più. Comuna grande sfida, per gli uomini d’oggi, pur recitata con parole semplici, quali banali: la didattica per i beni culturali. Per vincere la sfida, ad occuparsendevono essere tutti, persone e soprattutto istituzioni, scuole cioè, sedi per il confronto culturale (che oggi è domanda comune, in ogni canto del Paese), servizi d’educazione permanente. Al medesimo sine i musei, i complessi di beni cioè, devono svolgere una funzione ordinatoria, laddove gli enti del territorio (l’IBC) svolgono opera promozionale.

Così, per mutare la grammatica in didattica, i luoghi d’accumulo delle memoriin particolare i musei - devono spiegare, con ogni approccio chiaro ed aggiornato il significato di quanto è cumulato in quel complesso o museo, in rapporto ai temi - pochi o molti - cui quel cumulo può riferirsi: il dipinto all’artdi un pittore nonché alla mano ed al sentimento pittorico di un’epoca, il manufatto o lo strumento alla funzione esplicata in una o più culture, un fossilal contorno di un ambiente. Per continuare a fare grammatica, cioè didattica, bisogna spiegare perché quelle “cose” sono state accumulate in quel museo: è un versante della storia degli interessi culturali, dalle Wunderkammer agli orgogli dei collezionisti sino ai bisogni di capire le stagioni (storiche) di un territorio, o la crescita di un modo d’essere (agricoltore, tipografo, lapicida, quant’altro). Inoltre, la didattica deve suggerire (anzi “guidare”, persino con cartelli ed opuscoli ed audio-cassette) da un museo ad uno scavo, ad una bottega interessante, ad un paesaggio, ad un altro museo, ad un viottolo.

Anche giornali e tv sono tramiti attivi.

Si è detto della scuola e dell’educazione permanente, e del servizio che i musei possono esplicare per la didattica. Però esiste anche una didattica d’altra sede, o di diversa organicità, volta a preparare gli operatori dei beni culturali.

Nel 1972, chi scrive queste righe diede l’avvio all’esperienza universitaria dei Corsi di laurea in Storia: si pensò molto allora ai beni culturali, perché ltecniche dello storico (archeologo, archivista, ecc.) in parte s’identificavano con i bisogni dei servizi culturali; poi la laurea in Beni Culturali privilegiò gli apprendimenti specifici, e poi sorsero o si rafforzarono i bisogni del collegamento con le scienze dell’ambiente, con la naturalistica, e infine con l’apprendimento del diritto e della cultura amministrativa. Di fatto, anche la didattica per gli operatori dei beni culturali cresce e s’adegua: per esempio, come educare alla sopravvivenza attiva dei singoli beni (alla loro documentazione “perfetta”) in un mondo che cambia di continuo? L’operatordei beni culturali ed il politico (l’amministratore) devono capirsi, operarassieme: è il loro compito.

Ecco, farsi capire: con linguaggi, comportamenti, notizie che spieghino, chlascino spazio - o addirittura le sappiano sbirciare - alle curiosità degli interlocutori. Le curiosità sono i boccaporti tra quel che crediamo di conoscere quel che altri sanno o altri domandano. Da simili curiosità germinano persino le immagini di nuovi musei, di diversi contesti culturali. Perché vivere tra i beni culturali, e conversare con loro, non è un impiccio, è un piacere, persino utile, mi sembra.

 

“IBC”, II,1994, ½, pp. 3-4

 


CAMMINARE, GUARDARE (E LEGGERE, TALVOLTA)

 

A piedi, tra le case di città, oppure in campagna: a passo d’uomo, tuttalpiù a zampa di cavallo, in sella o sul calesse. Così, a quel passo, scopri paesaggi trapunti di segni: porvi qualche attenzione, significa anche decrittare volta per volta dei beni culturali, spesso intuendone il sistema, o la sindrome, appunto il paesaggio. In questo esercizio si dispiegano molti tra i modi di leggerindividuati, ad esempio, da R. G. Crowder (Psicologia della lettura, il Mulino, 1986). Poiché si tratta di quanto si legge (e si scorge) per strada si dovrà subito osservare che tanto più difficile è ricostruire il paesaggio “epigrafico” di un viandante nell’antichità quanto più frequente è oggi il caso del passante chs’imbatte su scritture monumentali dell’Umanesimo, del Rinascimento, dell’Età moderna. In ogni caso, valutate le altezze dei muri e la consistenza dei giardini o dei boschi il camminatore ha dovuto fare i conti, con la luce disponibile, con il giorno e con la notte, con le faci ed i lampioni.

Capita spesso di scorgere qualcuno per strada che porta l’occhio da ciò chtiene in mano - una carta per cercare un indirizzo, una pianta turistica - ad un numero civico, un campanello (la scrittura più minuta che si collochi all’esterno delle case), oppure la fronte di un edificio monumentale. Ci si trova d’un tratto nella condizione di cogliere con lo sguardo molti e diversi messaggi: come a Bologna, nel cosiddetto Mercato di Mezzo, dove il reticolo di strade, vicoli ed anditi ripropone le dimensioni interne (cardini, decumani, ambitus), della città romana. Esercitando l’occhio ed il passo a dimensioni storiche diverse si colgono anche i paesaggi dei suburbi, delle periferie, dei villaggi di fondovalle di guado, oppure di vetta e di crinale, dei borghi in gravitazione attorno allcittà. Poi succede come a Rimini, lungo via 4 Novembre, quando trovi sulla sinistra la fronte albertiana del Tempio Malatestiano, che ingloba lo schema tettonico disegnato dal non lontano Arco d’Augusto, e se svolti lungo il fianco destro puoi leggere le più antiche iscrizioni greche del nostro Umanesimo; fai quattro passi avanti verso piazza e sulla destra ti incuriosisce un andito, con l’abiside resecata di una vetusta chiesa, San Michelino in Foro: sui mattoni bruniti è esposta una lapide romana, trovata in reimpiego poco lontana, dovsi elogia Caino Mario, il console romano della tarda Repubblica, per le cui sorti i riminesi avevano parteggiato. Infine, sbuchi in Piazza Tre Martiri e scorgi un podio, il suggesto dal quale avrebbe parlato Giulio Cesare: un lapicida del Cinque o Seicento vi immaginò la didascalia. Tutt’attorno, le insegne dei negozi, dei ritrovi, le targhe di fermata degli autobus. In un paesaggio circoscritto, quasi in un museo poliverso, si raccolgono molti avvisi della storia: l’antico, il suo recupero per reimpiego o per erudizione, il suo rinascimento, in un contesto vivace.

La scrittura pubblica è destinata a farsi leggere, s’impone, cioè: il suo alfabeto s’amalgama agli schemi dell’architetture, delle partizioni campestri, come uno stereotipo geometrico.

Per via, e volgendo l’occhio su altre vie, su piazzole e cortili, s’intravvedono strutture architettoniche, fronteggianti o di sfondo, persino talvolta i campanili, con le guglie e le croci, le freccie ed i monogrammi, le banderuole che segnano il vento. Qualche volta sgusciano dall’orizzonte delle città le vette monumentali delle colline circostanti, come San Luca a Bologna, Montemaggio sopra Bertinoro, o l’Abbazzia del Monte a Cesena; infine, svettano di colpo ed imponenti le torri civiche e gentilizie, i campanili delle cattedrali, dalle DuTorri alla Ghirlandina. Ma la strada, la “main street” o “rumarchande”soprattutto, è affiancata da insegna di mestieri e di esercizi pubblici: muta il modo di accorgersene e di riconoscerle se le insegne sono a parete o a sporto. Qualche volta sopravvive l’uso di simboli per i mestieri, certamente il serpente arrotolato di Esculapio per le farmacie, tanto rarament(ma sì, nell’Appennino forlivese, nel Reggiano, nel Parmense) le grandi chiavi per il fabbro ferraio; non si trova più il catino come insegna del barbiere, memoria dei tempi del flebotopo. Seguendo i passi di un lettore affrettato, linsegne spesso sono verticali; di notte una cartellonistica illuminata disegna nuovi paesaggi, immagina architetture insolite. Un aspetto tutto proprio assume la lettura del barcaiolo che per canale (a Comacchio, per esempio) o altrove o per fiume si trovi ad attraversare l’abitato, con le rive e gli attracchi.

Per strada infine si è guidati qualche volta da scritture sul suolo (frecce, di solito; proprio sporadici sono i vezzi d’impronte hollywoodiane), per esempio dalle striscie pedonali: il segno a terra di un assetto ordinato del vivere civile.

Come accadde per Vittorio De Sica (Il boom) quando i medici acchiapparono un poveraccio (Alberto Sordi) per convincerlo a vendere gli occhi, poi cercarono lstrisce per attraversare la strada secondo regola: l’ambulatorio era dall’altra parte.

A regolare il traffico sono anche le luci dei semafori, accanto agli “avanti”

s’illumina il simbolo del pedone: nell’immaginario imposto, l’omino chcammina (o corre) è segnale della via di fuga. S’affianca a tanti altri segnali simboli, entrati anche araldicamente nell’orizzonte visivo di chi cammina per via; la croce non compare solamente sulle chiese o come arredo sacro, si scopre ancora sulle più antiche buche postali, a livello di mano, quelle con lo stemma sabaudo, oppure sulle farmacie o sull’ambulanze; il fascio è irremovibile da chiusini e tombini che a terra sigillano opere idrauliche del ventennio, talvolta giunge a rappresentarsi nei volumi degli edifici di regime.

Spesso i simboli si confondono con le insegne: come capita ancora in qualchpaese, dove le targhe con il leone o con il cavallino o altro designano alberghi omonimi. Infine i simboli si raggrumano negli stemmi, e viceversa: sui portali o sulla fronte dei palazzi (Schifanoia a Ferrara, i Capitani a Vergato), sigillano la presenza storica di corti e di corporazioni.

Fuori città, a piedi o sui carri s’incontravano i milliari, di forma cilindrica o troncoconica: se si andava nel verso della loro scrittura, era facile carpire a colpo d’occhio i dati essenziali, come il notabile o il Cesare cui si attribuiva il merito del tracciato o il ripristino, magari la città più vicina, eppoi il numero delle miglia. Se ci si muoveva nel senso opposto forse si coglieva solo il numerale: quel che più contava, tanto che spesso si registrava il luogo (con lsue osterie e le sue stalle) come Quarto o Sesto od Ottavo, sì che la toponimia d’oggi ripete la lettura silenziosa del pellegrino o del carrettiere di un tempo. Già in antico qualche pietra milliare aveva forma piatta, con la scrittura su due versi: ciò che divenne comune nell’età moderna. Nei pressi della città, lungo le grandi vie del suburbio, in antico si allineavano le necropoli monumentali: con iscrizioni a caratteri grandi e piccini. Il passante aveva modo di conoscere a colpo d’occhio le famiglie “bene” della città vicina (se rallentava, si fermava e si accostava poteva gustare, persino in poesia, anche il racconto o il resoconto della vita di qualche personaggio), e di venire informato sullrisorse e sui servizi che la città poteva offrirgli: come a leggere una guida o un annuario. Infatti, accanto ai nomi delle persone o comunque nello stesso momento scorgeva scene di mestiere, attribuiti e insegne di mansioni o d’uffici, mentre da tutto l’apparato decorativo indovinava il “medium” culturale di quella collettività: che credeva alle gòrgoni, si adornava di fiori e di corone, riproduceva gli oggetti della tenerezza quotidiana. Se si riflette che le case dei romani erano raccolte solo sull’atrio o tuttalpiù su un orto interno, e le finestrerano piccoli pertugi, si possono considerare le necropoli come autentici osservatori del quotidiano. A meno che la gente non passasse la giornata per strada, all’aperto: in quel caso però, non aveva sepolcri in periferia. Lnecropoli si allineavano lungo tutte le vie pricipali d’accesso, ma una tra questvie era la più importante (è un elemento interessante della cultura dell’antico):

così a Bologna da occidente lungo la via Emilia, mentre a Modena e a Reggio da levante, a Rimini da mezzogiorno (la via Flaminia) e così a Sarsina (il Pian di Bezzo, in direzione di Cesena). S’imparava di passaggio, leggendo lscritture a livello d’occhio: un modo pagano che lentamente muterà con i cristiani, i quali leggono le scritture dei morti a capo chino, sia nei camposanti sia sui pianciti delle cattedrali.

Ancora fuori città, si trovano - già in antico - servizi per il pubblico: come i bagni di Leggiano Vero a ponente di Bologna, come gli iumentarii di Sarsina;

qualche bottega dell’Appennino conserva ancora il bene culturale dell’officina di un maniscalco, mentre da tempo le stazioni di servizio interessano chi viaggia su motore. In campagna infine, tabernacoli con immagini e scritture segnano incroci, come antichi còmpiti.

L’iscrizione, si sa, ha lessici limitati e linguaggi compendiari, perché devimpaginarsi. Se coglie l’attenzione del lettore ne abitua la mentall’integrazione: con ciò suscita compiacimento, rappresenta un riferimento nel paesaggio. Anche quando si decifra l’insegna verticale del caffé, collocata in senso opposto e quindi retroversa, si prova soddisfazione, anche se in questo caso il linguaggio è semplice, non solenne o “arcaico”. Se si cerca su una scritta la patina (effimera) dell’antico, si riscontrano i caratteri goticizzanti, oppure la “e” inesorabilmente trascritta come le épsilon dell’alfabeto greco arcaico: si tratta di un aspetto umile del cosiddetto linguaggio “lapidario”.

Si cammina di buon passo, ma anche si rallenta o ci s’arresta; in antico capitava quando un’iscrizione invitava l’hospes od il viator: siste et lege. La visibilità ed il corpo dei caratteri istruiscono una gerarchia nell’attenzione del lettore. Dall’antico ad oggi i manifesti di spettacoli, gli appelli politici, i richiami pubblicitari (oggi su carta o su video, in antico verniciati) inducono di primo acchito a porvi attenzione. Oggi s’affiancano al volantino da mano a mano.

Talvolta le lapidi incuriosiscono, quando raccontano o commemorano personod avvenimenti; ma a colpo d’occhio vengono scartate quando il loro testo è risaputo, come il Bollettino di Armando Diaz, come un tempo le cosiddettSanzioni. Su grandi architetture visibili da lontano (a Roma, nelle colonie) si leggevano (e si leggono tuttora) scritte littorie, in italiano ed in latino; Andrea Emiliani cita invece il caso di una strada di campagna dove si leggeva, a vernice, “noi tireremo dritto”, ma proprio là la strada voltava e dietro alla parete si trovava un piccolo cimitero.

Si rallenta quando si vogliono individuare stemmi e scritture su spazi ristretti: un caso tra tanti, il portale ispano-moresco, di origine valenciana, della Galleria Parmeggiani a Reggio Emilia. Accade ancora d’indugiare - ma invece spesso si tira via, perché sono cose già viste oppure impegnerebbero troppo l’attenzione - quando ci si trova (per esempio all’imbocco di una piazza)

a poter contemplare e compitare un fregio scultoreo, oppure, tutta intera, la lunga iscrizione sull’epistilio di un palazzo, di un teatro, di una basilica: nomi di santi, di notabili, munifici. Pressappoco la stessa cosa accade con le grandi iscrizioni plateali: su un foro romano, come a Velleia, o su pavimenti musivi paleocristiani di Ravenna e di Faenza, nomi di magistrati, di fedeli donatori.

In un contesto complesso le targhe di strada rappresentano un benculturale: spesso il messaggio politico o patriottico si assesta nell’odonimìa rimuovendo le indicazioni del senso comune, cioè i nomi di mestieri, di un treffpunkt, di personaggi curiosi. Talvolta il nome di un personaggio storico viene trascinato verso esiti impensati: a Castenaso la via P.C.S. Nasica vuolricordare un Publio Cornelio Scipione presumibilmente coinvolto con l’origindel luogo, ma la gente legge via Nasica, che consòna con Castenaso.

L’ erudizione, oppure la consapevolezza storica porta ad apporre spesso una sottotarga, con il nome di prima, talvolta un “già”. Quattro passi per Bologna: da Piazza Malpighi (già Seliciata di San Francesco, la chiesa che domina a dupassi) s’entra per via Porta Nova (era “nova” poco dopo il Mille); vi si leggsubito del sacrificio di un patriota, nel 1944, l’avv. Giorgio Maccaferri; poi a destra una via intitolata ad un’altra vittima di Auschwitz, Mario Finzi: prima di richiamare Tintinaga, forse un soprannome, pensa l’impareggiabile studioso dello stradario bolognese, Mario Fanti. A sinistra, via Testoni (lapide sulla casa ove morì nel 1931, posta 10 anni dopo, XIX E.F.), più avanti la lapide per Guglielmo Pizzirani, un pittore di ieri. Sbucando in via IV Novembre (già via delle Asse) si incrocia via Battisti, che verso sud prendeva il nome dall’oratorio di San Barbaziano e verso nord era ( dice la targa, ma la storia sarebbe più complessa) la via Imperiale di San Prospero. Di fronte al quadrivio la casa natale, con lapide, di Marconi, ma gli è intestata una grande strada a 300 metri, che già aveva meritato il nome di Roma. Le risacche della storia politica contano qualcosa. Via Battisti porta a via Ugo Bassi (non distante era la statua del monaco), che verso piazza si chiamava “dei vetturini” e ad occidente era già la strada San Felice. Di fronte Nazario Sauro ha cancellato il Poggiale, uno spalto presso le antiche mura; subito a destra il Montegrappa ha coperto il Battisasso.

A scavalcare le strade spesso sono striscioni: si leggono come l’iscrizionsull’Arco riminese d’Augusto, passandovi sotto. Gli striscioni sono spesso mobili, portati da cortei, ritmati con slogan: il pubblico li legge e li ascolta dai bordi della via. Sono messaggi “casual”, come le magliette oppure i teloni dei camion: meglio documentarsene, il bene culturale consiste nel loro mutevolbacino di lettura, al più si potranno conservare come i manifesti. Non sono stemmi, lapidi e neppure arazzi. Altrettanto può accadere degli spray o dei graffiti, battiti epigrafici di sentimenti urlanti, talvolta programmati, come liscrizioni verniciate su mascherina. Le targhe d’auto, vecchia maniera, aiutavano la geografia. Le tenaci scritte dei rifugi e dei soccorsi per incursioni aeree sono l’ultimo messaggio visibile di una strage: fotografarle.

 

“IBC”, III, 1995, 2, pp.52-54

 


SCRITTURE ALL’APERTO.
CONSIDERAZIONI A PROPOSITO DEL LAPIDARIO ESTENSE

 

Quasi sempre - ogni volta che ci si propone d’ordinare o riordinare un museo di storia, diciamo pure un museo archeologico - viene da chiedersi come il lapidario di quel museo, cioè il settore nel quale vengono raccolte ed espostpietre con scritture (e spesso con raffigurazioni), riesca a restituirun’immagine della società che ha prodotto quelle scritture e del tempo nel quale simili pietre erano parte dell’orizzonte quotidiano: come cioè un lapidario”si debba considerare un paniere di traccie o segni della storia di un luogo o di un’epoca, e come lo si possa ordinare in maniera che la sua semiologia restituisca un’immagine accettabile di quella storia.

Proprio con riferimento al titolo di quest’intervento, occorre dedicarqualche attenzione alle scritture “all’aperto”: sono tali perché esposte alla pubblica lettura, perché il lettore non è necessariamente tenuto a cercarlcome in un archivio, tuttalpiù gli occorre entrare in una basilica, o in una porticus, oppure mescolarsi tra i fedeli di un santuario (dove può scorgere ared arule e dediche votive). Ecco che una definizione tanto semplice dellscritture all’aperto si complica però quando si voglia appunto valutare - anchai fini di elaborare criteri per l’ordinamento - il rapporto intercorso tra il lettore la scrittura: è vero che spesso l’epigrafe riflette e restituisce - secondo specifici programmi di selezione e di formulazione - la storia di un momento, o di una generazione oppure di tre generazioni (quante sono generalmentcompatibili nell’elencazione dei nuclei familiari, quando un figlio dedica il sepolcro al padre del quale a sua volta s’annota il patronimico), ma il lettore di tempi successivi che frequenti la medesima necropoli o il medesimo fòro è condotto ad interessarsi di quella scrittura in modo diverso, addirittura noncurante, oppure ad evocare memorie ormai solamente tradite. Quando poi si rifletta alle corti ed agli atri di cenobi o di palazzi dove le scritture “pagane” s’affollano come clienti venuti da lontano, cui è appena concesso il privilegio di servire alla cultura dei monaci o alla intelligente vanità dei notabili, viensubito da chiedersi se anche tale momento dell’esposizione delle scritture non sia da rispettare, da conservare anzi proprio nel decoro delle sedi del medioevo, della rinascenza, dell’evo moderno: s’affaccia subito il quesito sul come e sul quanto tenere conto degli ordinamenti in musei e collezioni di ieri (e d’oggi), dove quelle scritture hanno composto messaggi leggibili diversi.

Mi è accaduto talvolta di riflettere all’impressione (più o meno approfondita) che il Lapidario Estense (è un esempio tra i tanti) desta non già negli studiosi di storia della città o della scrittura antica, che si soffermano ragionevolmentsu questo o quel monumento, ma sul pubblico che vi transita per accedere ad altre sedi, che può incuriosirsi sì di questa o quella scrittura (o scultura), può riconoscere abitudinariamente i suoi passi da questa o quella epigrafe (cioè da una parola o da una sillaba a carattere cubitali, per esempio) ma che dedica al lapidario tanta attenzione esplicita quanto un cittadino ateniese poteva rivolgere alla stele in scrittura minuta che affollavano la sua agorà o lscalinate dei suoi templi: con il vantaggio, per quest’ultimo pur che sapessleggere, di potere capire quelle scritture, spesso a lui contemporanee.

A ripensare a questa o a quella condizione di lettura, i significati plurimi mutevoli delle scritture, e a qualcos’altro, viene fatto di compitare una sorta di sillabario-questionario per chi voglia, o debba, raccogliere con una razionalità coerente, quindi ordinare ed esporre all’attenzione del pubblico dei musei proprio le antiche scritture all’aperto, cioè esposte e pubbliche: con l’avvertenza non trascurabile che spesso s’imporrebbe di coordinare le epigrafi agli altri monumenti (architettonici, figurati), e che troppo spesso si è costretti a disgiungere il monumento iscritto dal corredo tombale o dal contesto culturale che l’archeologia gli recupera. Nessuna soluzione stabile quindi per l’assetto dei lapidari, ma un invito a tenere conto di alcuni presupposti, come i seguenti: 1. La provenienza del monumento iscritto; questa si specifica solitamente in sei eventualità, e cioè: a, da contesti urbani (foro, templi urbani), dove si tratta perlopiù di iscrizioni monumentali, prodotte da officine di buon livello; b, dalle necropoli del suburbio (alcune recuperabili come veri propri assetti monumentali, o con sufficiente organicità: ad esempio la necropoli mutinense da via Emilia Levante); c, dal territorio gravitante in antico sul centro urbano (amministrativamente, culturalmente, economicamente ad esso collegato), dove si recuperano scritture di santuari e di piccole necropoli da vici o pagi (i casi mutinensi di Baggiovara, di Ganaceto, ecc.); d, da altri territori storicamente pertinenti al centro urbano, cioè da circoscrizioni amministrative di tempi successivi e moderni (a Modena, il territorio ducale, quindi con nuclei di scritture da altri centri antichi: è il caso di Brescello, le cui iscrizioni finirono in parte al Lapidario Estense - come l’eccezionale documento dei lanatores carminatores -, in parte nel capoluogo di provincia a Reggio Emilia, dopo l’Unità, come la celebre stele dei Concordi, in parte infinnell’Antiquarium comunale, finalmente in patria, a Brescello); e, da reimpiego in edifici o murature di tempi successivi all’antico, quando cioè la lettura di una scrittura antica, o l’ammirazione di un’immagine (si pensi alle stele romane nel Duomo di Modena) era praticata da un pubblico diverso e mutevole, quando la stessa scrittura era collocata in un orizzonte visivo diverso dalla sua collezionoriginaria, quando recitava di conseguenza messaggi nuovi e differenti; f. da collezioni “aliene”, come si definiscono comunemente quelle raccolte da eruditi o da patrizi, provenienti dai luoghi o dai mercati più lontani e diversi; ma proprio la formazione di queste raccolte ed il ruolo che quelle scritturesercitarono sul pubblico dei visitatori di palazzo costituiscono elementi da non ignorare.

Altro presupposto cui l’ordinatore di lapidari non può non riferirsi (il numero due di questo sillabario) è rappresentato dalle collocazioni in atto, quindi ereditate: talvolta se ne intende il criterio, o addirittura lo si ricava esplicitamente da uno o più cataloghi (è il caso del Lapidario Estense), spesso si ignorano le manipolazioni e le modifiche intervenute dopo il primo assetto, specialmente in seguito ad aggiunte provocate da nuove scoperte. E’ un’impresa difficile conoscere una collocazione “datata”, quindi rintracciare la filigrana di un momento (uno tra i molti) della storia della cultura, quando come è accaduto al Lapidario Estense soprattutto negli anni Trenta e poi negli anni Sessanta le nuove acquisizioni trasformarono spesso i corridoi, i portici ed i vani attigui in magazzini. Infine il terzo presupposto, del quale il progettista o l’ordinatore di un lapidario può (deve) tenere conto: il contesto monumental(o ambientale) dove il lapidario è collocato, che spesso gli è divenuto complementare nell’immaginario storico; un esempio, i grandi sarcofagi negl’occhi di portico del Lapidario Estense (rimuovere, o invece integrare?).

Indubbiamente, quando s’avessero le mani libere, si disponesse di spazi “illibati” e non circoscritti, si potrebbero mettere in atto ricomposizioni ed ordinamenti rispondenti almeno ad uno dei seguenti criteri: I. ricostruziondell’orizzonte epigrafico di un luogo, per esempio la Graberstrasse di una necropoli (come emblematicamente s’è praticato a Sarsina) o un complesso (un recinto) monumentale (i Trebii di Aquileia, un esempio tra i tanti); II. raccolta delle scritture per nuclei fotografici: le necropoli, il contesto urbano, un santuario, un abitato rurale, i milliari; III. raggruppamento delle iscrizioni secondo soggetti tematici o istituzionali o secondo gruppi gentilizii, comaccade cioè negli ordinamenti tradizionali delle collezioni e soprattutto dei musei pubblici tra Otto e Novecento; IV. seriazione per epoche e per contesti officinali e di tipologia monumentale; come altrettanti capitoli della storia del lavoro (cultura, tecnologia) e della storia sociale, utili a sottolineare i fenomeni dell’acculturazione (anche politica), della propagazione e dell’evoluzione dei linguaggi e dei formulari (con l’opportuna considerazione sull’efficacia dei tramiti per la lettura silenziosa). In ogni caso bisogna prestare attenzione al rapporto possibile (e supposto) tra la scrittura ed il lettore: ciò vale per la collocazione specifica (contesto, illuminazione, apparato didattico) di ogni scrittura, quando si pensa che il lettore antico (romano) solitamente transitava davanti alle scritture cogliendone i messaggi principali a colpo d’occhio: un magistero politico che affida alla scrittura con diversi corpi (e talvolta con differenti caratteri) ed impaginazioni un ruolo notevole per la formaziondell’opinione pubblica. Nella grammatica della comunicazione di massa, l’allinearsi delle scritture in un fòro (con diverse prospettive: sulla platea, su frontoni, su basi onorarie) o nell’itinerario di una necropoli compone la sequenza d’altrettanti spot televisivi: ma non è l’immagine che passa davanti al lettore seduto, è il lettore medesimo che transita lungo un percorso. Poi, il lettore antico talvolta s’arresta, s’avvicina, legge parti della scrittura in caratteri minuti (una disposizione testamentaria, un carme, persino un cursus o un elogio), gira attorno al monumento, scorge il Gregori o grégori sul sarcofago mutinense di P. Vettius Sabinus: si comporta come il lettore di un libro, sosta nella lettura, volta pagina, torna indietro sul testo, alza il capo riflette, noi aggiungeremmo che inforca o si toglie gli occhiali, anzi li forbisce. A bene riflettere, e con poco di fantasia - quella fantasia che subito si rivela veritiera -, il lettore antico (ed il visitatore di un lapidario, oggi, più o meno studioso che sia) ripete le due vocazioni, meglio i due modi di leggerdell’uomo antico (quando non tenesse tra le mani una tavoletta o un ostrakon), in una lettura non episodica ma corrente: leggere di seguito, svolgendo un rotolo, cioè un volumen, che si riavvolge ad ogni grappolo di righe, come una bobina (il fax ripristina oggi quest’uso), oppure transitando a passo normale davanti alle scritture all’aperto; ovvero leggere un codex, pagina per pagina, sostando quando necessita, proprio come davanti ad un monumento. Infine, tre raccomandazioni: creare apparati didattici evoluti ed aggiornabili, monitor o cassette o didascalie o quel che si voglia purchè consenta di recuperare per ogni monumento quei presupposti critici, quei riferimenti contestuali cui non si può subordinare l’ordinamento proprio perché i criteri praticabili sono tanti, e non sono pasticciabili fra loro; inoltre, predisporre magazzini agibili, ordinati con criteri razionali, accompagnati da schedari e banche dati; per concludere, se si collocano (o ricollocano) superfici iscritte a parete, avrà cura di farne un rilievo completo (pietra, traccie del lavoro antico, identificazione del contesto monumentale, traccie del reimpiego, trattamento e condizioni delle superfici) prima di nascondere il retro: anzi, “staccare” opportunamente la lastra iscritta dalla parete cui è applicata.

 

“IBC”, III, 1995, 6, pp. 15-16

 


LA SCIENZA STORICA DELLA PREISTORIA

 

A simile tema, viene subito da ripetere una considerazione di molti (studiosi della preistoria, filosofi della storia): cioè che non ha senso parlare d’eventi, fenomeni, sulla terra, tra gli uomini, fuori dal tempo, più precisamente fuori dal tempo passato, quello computato dagli uomini. Poiché la storia s’occupa proprio d’eventi, di fenomeni e di situazioni nel tempo passato - poiché quindi la storia è regolata dal tempo - non sembra possibile che si possa annoverarun tempo fuori dalla storia: la preistoria potrebbe essere la storia più antica della storia antica.

Con approcci diversi sono applicabili quindi alla preistoria nozioni comuni al linguaggio degli storici, come area, territorio, orizzonte, contrada, intesi ciascuno come grembiale di fenomeni; oppure come cultura, facies, ed infincome civiltà, intesa come grammatica ricavabile dai fenomeni; o infine comsuccessione, processo (causae efficientes, causae finales), durata, ritmi ciclici, cronologia (assoluta, relativa, comparata), continuità e novità: queste ultiminterpretabili anche come un disegno, o una sequenza naturale, o persino una provvidenza, come il kairòs che volta a volta si compie poiché i tempi sono maturi.

Nel battuto della cultura corrente, la storia si distingue dalla preistoria, cioè dalla parte più antica della storia antica, perché i suoi protagonisti sanno narrare il tempo loro ed il tempo passato, individuando il prima ed il poi, lcause e gli effetti, le sincronie e le diacronie. Il mito compare come la prima interpretazione “storica” della preistoria, specie se si collega a dinamichricorrenti (le stagioni, il cielo diurno, fertilità e fecondità, il miracolo della vita), o se scopre svolte decisive: Prometeo ruba il fuoco a Zeus, Eracle libera Prometeo dalle catene del Caucaso. Il mito giunge a delineare i paradigmi ricorrenti della storia: il principio, la fine, l’ascesa, il declino, la riscossa, il riscatto. Con questo linguaggio apodittico il mito attraversa la preistoria e la storia; i racconti degli Dei e le vicende degl’eroi diventano letteratura poetica (epos, dramma), approdano all’iconografia: le raffigurazioni vascolari, le fronti scolpite dei sarcofagi, i mosaici basilicali (tanto che persino le storie biblichvivono come messaggio visivo sino a noi).

Si constata quindi la convinzione matura e diffusa che la storia è “piena” quando è vissuta da protagonisti che danno consapevole importanza al tempo che sanno narrare, che producono quindi storiografia. A quel punto il lettore (o l’ascoltatore) è un prigioniero privilegiato di ciò che legge o ascolta, perché la storiografia - intesa come approccio alla storia - comporta il giudizio sulla storia: è opera del vincitore, di chi detiene il primato di gestirla (la storiografia), di chi distribuisce le virtù ed i vizi. Accade poi che il racconto provenga sì da uno scrittore di allora - del tempo narrato, cioè - ma riguardi altri (vicini o lontani, comunque “diversi”): conveniamo che per quegli altri, o diversi, sia il tempo della “protostoria”.

Chi stila queste riflessioni non è un professore di preistoria, è un seguacdella parte meno antica della storia antica, s’occupa perlopiù di scritturpubbliche, di scritture sulla pietra. Gli capita quindi di studiare le posizioni degli avambracci e dei gomiti, puntati al suolo o alla parete o ad aria libera, nonché il pugno chiuso a serrare uno strumento (da punta, da picchio, da taglio) utila trasferire sulla pietra un messaggio, secondo un gesto che discende dalla preistoria: il modello processuale è analogo, o identico, perché nella preistoria si parte da un progetto culturale e si perviene ad un effetto, per esempio ad un glifo rupestre, oppure da un progetto strumentale e si giunge a soddisfare uno o più fruitori, ad esempio quando una pietra viene trasformata in un raschiatoio. Storia più antica (o preistoria) e storia meno antica: chissà chnon capiti, un giorno, che la storia finisce e riprende la preistoria?

Quindi, la preistoria è intesa come un tratto (o infiniti diversi tratti) del tempo: ha le sue scienze e la sua scienza. C’è una realtà epistemologica dellscienze della preistoria, che consideriamo nelle loro osmosi (paleontologia, paleoecologia, paleoetnologia, eccetera), e nelle loro simbiosi: l’antropologia, l’etnologia, eccetera.

Con il tramite delle scienze della preistoria, il “racconto” della percezione del tempo (il mito, la storiografia) è vittoriosamente sostituito o superato, o talvolta preceduto, dalle scienze fisiche o esatte: ne risultano insostituibili, considerazioni biologiche e climatiche, recupero di microambienti, apprezzamenti sull’evoluzione di orizzonti culturali, in maniera da comprenderche proprio quelle scienze sono il maieuta ed il demiurgo della storia più antica dell’umanità. Con un’avvertenza basilare ed ineliminabile: nelle ricerche sulla preistoria - proprio come in qualsiasi ricerca storica - la “scoperta” avvienall’aperto (anche se poi, può essere ripetuta in laboratorio), cioè in ambientvivo, possiede quindi una sua identità; se la scoperta si ponesse fuori dal tempo, perderemmo il requisito della sua singolarità, cioè della sua storicità.

Non si disbriga quindi la vicenda dell’uomo da quella dell’ambiente, in cangiante reciprocità: tanti paesaggi si sono succeduti o modificati nella storia.

Le scienze fisiche o esatte servono la storia,si creda o meno che le grandi eruzioni del vulcano di Thera, verso la metà del II millennio, abbiano influito sulla carestia delle 7 vacche magre, in Egitto, al tempo di Giuseppe figlio di Giacobbe.

Si è detto come le scienze fisiche o esatte servano alla verifica tra il tempo raccontato dal mito e dalla storiografia (antica e moderna) ed il tempo oggi ricostruibile nei suoi eventi e nuovamente riconoscibile. Si propone quindi una riflessione analoga a quella che definisce l’archeologia come una scienza provvidenziale per la storia, non perché la surroga ma perchè aiuta a verificarla, e non solo perché si occupa di oggetti materiali e di datazioni desunte dalle stratigrafie. Quando si parla dell’origine organica della scienza della preistoria proprio in Emilia ed in Romagna - nelle città - foyers da Parma a Reggio, da Bologna a Imola ed a Forlì - a partire dalla metà del XIX secolo, torna utile rammentare la novità (allora) della carta archeologica: sia perché vi si registravano traccie, orme, segni e reliquie collocati ed inquadrati in contesti, paesaggi ed ambienti, sia perché la carta archeologica costringe a valutare i risultati dei processi di trasmissione e di tradizione dei dati superstiti e recuperabili (come orma, segno, ecc.).

La carta archeologica risulta una Wunderkammer obbligata, una frontiera visibile della dottrina. Scienze della preistoria ed archeologia consentono quindi d’individuare sia i grandi processi del rapporto tra uomo ed ambiente, sia l“contrade della memoria”, quelle che mi sentirei di definire (con un terminproposto altra volta nel passato) gli “archeotopi”, intesi come orizzonti sul terreno distinguibili per segni, monumenti, tradizioni, persino per comportamenti e continuità, comunque per atti di recupero e per processi culturali. In questo senso, le scienze (o la scienza) della preistoria dell’archeologia preparano - proprio dalla terra di Flavio Biondo e di Giovanbattista Morgagni - già dal cuore del secolo scorso quella grandformulazione della cultura storica poi codificata anche dalla scuola dell“Annales” e recepita da tutta la dottrina europea: cioè, che la microstoria (la storia per “archeòtopi”) è il viatico della storia universale. Ci s’accosta alla preistoria anche da altri osservatori tradizionali: lo storico di un tempo, comlo studioso di oggi, non piò non venire affascinato dai racconti e dai riverberi che nei rispettivi mondi (“classici”, per l’antichità, “europei”, per l’evo moderno) proiettano le culture dei “diversi”, dei “lontani”, delle “periferie”. Al di là del limes quindi, o dal deserto. o dall’oceano, o anche nell’Occidentmediterraneo, come accade ai Greci ed ai Fenici. Allora la letteratura torna a narrarci di tribù e di popoli migranti, ci insegna persino delle gerarchiterritoriali e culturali: così i peripli e i logoi definiscono i lineamenti della conoscenza elencando rive, foci di fiumi, alture, oasi; così i mitografi s’appaiono ai viaggiatori, sia che raccontino degli Arimaspi, al di là del PontEusino, sia che scoprano l’isola di Pasqua. E le scienze della preistoria l’archeologia tornano a decodificare la letteratura storiografica, scoprendone lripetizioni contraffatte, gli stilemi fabulosi ed i vizi del racconto.

In quest’orizzonte della ricerca vanno valutati anche i “recuperi storici” dei paesi del terzo mondo, dove etnologia e preistoria individuano le memori“nazionali”, spesso mettendo a profitto le grammatiche educativdell’umanesimo. Tutto aiuta ad intendere la complessità della preistoria e ad allontanare le tentazioni di una concezione semplificata e totalizzante del passato dell’uomo. L’attenzione al “diverso” s’aggancia infine ai più recenti interessi sociologici e antropologici: per le culture rurali e contadine o suburbane, per esempio, e per la circostanza dei mutamenti e dei processi di acculturazione. Tutto ci aiuta infine ad intendere anche l’immaginario corrente, la pluralità dei significati della preistoria: spesso considerata come condiziondei poveri, dei vetusti e degl’emarginati.

Ma la gente - udita tanta cultura, con tante cautele e molti approfondimenti - si chiede istantaneamente: ma, nel tempo, quando (come, dove) finisce la preistoria e comincia la storia? Ce lo chiediamo anche scolasticamente, per bisogno d’istruzione: dov’è che finisce la parte più antica della storia antica? Si può - nel tempo, cioè nella parabola del tempo umano - indicare un tornantdove - in epoche volta a volta diverse, in territori diversi, in periferiimmediate o remote, sull’uscio di casa o in un arcipelago lontano - gli uomini rivelano una grammatica più complessa, tale da consentire d’intenderli comentrati nella storia?

Da seguace della storia meno antica, da cultore delle memorie espost(iscrizioni, rilievi narrativi) mi viene anzitutto da pensare ai segnacoli chgeometrizzano il culto degl’antenati, visualizzando la gravitazione di un clan sul territorio; oppure a quei glifi che nelle loro successioni a parete superano l’atto votivo o rituale e diventano narrazione; od anche a quei volti ripetuti, cioè a quei “doppi” che segnano lo strumento della memoria in un rito che è già dramma; od a quei picchi volti al cielo che geometrizzano un territorio; od infine, a rapporti evoluti con l’ambiente, con le risorse, con le tecniche di recupero e di manipolazione, che impongono ruoli, gerarchie e ceti, chinducono a programmi di sopravvivenza e d’appropriazione (officine accanto a fienili ed a stalle)…

Soprattutto mi sembra, c’è da riflettere a quegl’impianti sul terreno tanto cadenzati e davvero geometrici che si conoscono e si descrivono mediante il numero (perché il numero è davvero un mezzo di comunicazione evoluta), che prepara così la registrazione, l’accumulo, l’archivio (è noto: le sette vacche grasse preludono alle sette vacche magre): quegl’impianti che - come in ogni orizzonte, quando diventa geometrico - presuppongono un “centro” del territorio (che con il tempo definiremo città), nonché un trattamento stabile del territorio medesimo e la conoscenza della complementarietà delle sue parcelle.

Quindi c’è piena storia quando questa dispone di una radice rintracciata razionalmente nel territorio, di un sintomo chiaro di stanzialità. Se la tenda del re dei Goti accompagnava le migrazioni di quel popolo tra preistoria protostoria, indubbiamente il mausoleo di Teodorico - soprattutto se davvero si ravvisa nella sua struttura anche la memoria della tenda - chiuddefinitivamente il rivolo o la risacca della preistoria e della protostoria di quel popolo, e gli apre la storia, tradizionalmente concepita.

I metodi delle scienze della preistoria hanno molto da insegnare agli storici, e l’approccio della preistoria è attivabile ovunque, nel nostro ambientumano, nel nostro paesaggio culturale, oggi e poi. Tanto che viene da rifletterche la scienza della preistoria - specifica del tempo umano, del tempo passato - potrà forse riuscire a trattare il tempo anche in una dimensione diversa, cioè il futuro dell’uomo. Con Hiroshima, si dice, l’evo moderno è concluso, da mezzo secolo la vicenda uomo-ambiente si svolge sotto il segno di una sopravvivenza globale concordata, in alternativa alla catastrofe universale e alla frammentazione irreversibile dell’ecosistema. Come la scienza della preistoria ha battuto felicemente la via di ricostruzioni virtuali del passato, così la sua dottrina può aiutarci alla conoscenza virtuale e provvidenziale del futuro, quanto meno a risolvere le grandi minacciose contraddizioni del tempo a venire.

 

Questo testo ripete, con qualche ritocco, la conferenza di apertura del ciclo “oltre la pietra” (Folrì, 29 marzo 1996) in preparazione del XIII congresso internazionale delle Scienze preistoriche e protostoriche.

 

“IBC”, IV, 1996, 2/3, pp. 16-18