COVER_vol4_918.jpg

DIALETTIINTESI

Concorso per la premiazione delle migliori tesi dedicate alla tutela e alla valorizzazione dei dialetti emiliano-romagnoli

 

Vol. 4

 

 

 

Cinzia Lisi

 

 

 

LA VICENDA LETTERARIA DI GIULIANA ROCCHI

 


Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emlia-Romagna
via Galliera, 21 Bologna

 

 

pubblicato nel mese di marzo 2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Copyright

creative commons

88x31


Dialetti· in· tesi

 

Concorso per la premiazione delle migliori tesi volte alla tutela e valorizzazione delle realtà dialettali emiliano-romagnole

 

 

 

 

Nel quadro del programma regionale annuale (2009) di attuazione degli interventi connessi alla L.R. 45 del 7 novembre 1994 Tutela e valorizzazione dei dialetti dell’Emilia-Romagna”, l’Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna (IBACN) ha promosso un bando di concorso finalizzato alla premiazione delle migliori tesi, scritte in lingua italiana, dedicate alla dimensione dialettale emiliano-romagnola e discusse tra il 1994, anno di pubblicazione della legge succitata, e il 2009, anno in cui la Giunta della Regione Emilia-Romagna, con proprio atto rep. 2348 del 28 dicembre 2009, ha approvato il programma sopraindicato.

Le               tesi,               come               previsto               dal               bando,               potevano               approcciare               la               materia

vernacolare secondo molteplici prospettive: letterarie, storiche, storico-letterarie e linguistico-filologiche.

Le domande di partecipazione dovevano pervenire entro il 15 ottobre 2010. L’elevato numero di domande pervenute -in numero complessivo di quattordici- ha confermato l’attenzione profonda e tutt’altro che episodica per un tessuto linguistico che, oggi più che mai, abbisogna di un concorso di forze, provenienti tanto dalle istituzioni quanto dai singoli cittadini e da tutti i gruppi variamente costituiti sul territorio, orientato ad un’azione di tutela e rilancio dei dialetti, che rappresentano un segno imprescindibile della nostra identità.

 

Riportiamo di seguito le tesi presentate:

 

Attraverso la cultura popolare e letteraria del dialetto reggiano: toni, generi, forme” di Maria Teresa Pantani;

Bilinguismo e diglossia a Rimini. Unindagine sul campo” di Fabrizio Colonna;

Bilinguismo e dilalia a Sala Bolognese. Una ricerca sul campo” di Giacomo

Govoni;

“Folklore e dialetto in Olindo Guerrini, Giovanni Pascoli, Tonino Guerra e Libero

Riceputi di Valentina Forlivesi;

I dialetti di Santarcangelo e della vallata della Marecchia a monte di

Santarcangelo” di Rino Molari;

Il dialetto di Fiumalbo (MO): descrizione fonetica di una varietà linguistica di

confine” di Michele Colò;

Il lessico della canapicoltura nel territorio di San Cesario s/P (MO)” di Chiara

Maccaferri;

Italiano e dialetto a contatto: aspetti del mutamento del dialetto a Sassuolo” di

Cristina Fiandri;

“L’esperienza poetica di Gianni Fucci e la tradizione della poesia romagnola di

Gabriele Della Balda;

La poesia di Raffaello Baldini di Ida Zicari;

La variazione sociolinguistica: analisi degli usi linguistici a San Prospero

(Modena)” di Alice Cavallini;

La vicenda letteraria di Giuliana Rocchi” di Cinzia Lisi;

“Le Lettere di Lorenzo Foresti a Francesco Cherubini (1838-1843). Edizione, commento e studio” di Sara Rizzi;

Tecniche e cultura materiale: tradizioni alimentari a Monterenzio” di Annalisa

Marzaduri.

 

I lavori sono stati esaminati e valutati con parere insindacabile ed inappellabile da una commissione appositamente costituita. La commissione giudicatrice ha valutato gli elaborati sulla base dei seguenti criteri:

 

V  rigore scientifico della ricerca e coerenza interna dell’elaborato;

V  tutela e valorizzazione dei dialetti emiliano-romagnoli;

V  attenzione allo stile e padronanza dei contenuti e del vocabolario tecnico.

 

Le tesi presentate hanno mostrato la copertura di ampie zone del territorio regionale: in particolare, si sono concentrate sulle province di Modena, Bologna, Forlì-Cesena e Rimini. Inoltre, le differenti angolature da cui gli autori hanno interrogato la realtà linguistica locale ci mostrano una ricchezza e un’originalità nei percorsi che gettano una luce vivida sulla complessità e sulle innumerevoli sfaccettature in cui si articola questa realtà.

 

I  tre  lavori  più  meritevoli  sono  stati  premiati secondo  la  seguente graduatoria:

 

V  posto: Euro 1.000,00;

V  posto: Euro 500,00;

V  posto: Euro 250,00.

 

La commissione ha esaminato i lavori e alla fine ha deciso per le seguenti premiazioni:

 

·              posto: tesi Italiano e dialetto a contatto: aspetti del mutamento del dialetto a Sassuolo” di Cristina Fiandri: l’autrice ha compiuto una ricerca approfondita               e  pressoché  esaustiva,  coniugando  l’acribia  e  il  rigore scientifico dello studioso nell'individuazione e nell'esame dei materiali con la qualità della forma linguistica e stilistica;

 

·              posto: tesi “Bilinguismo e dilalia a Sala Bolognese. Una ricerca sul campo” di Giacomo Govoni: l'autore ha dimostrato di saper utilizzare le più aggiornate metodologie offerte dalla sociolinguistica per tracciare un profilo preciso della situazione linguistica attuale nel territorio di Sala Bolognese, offrendo al tempo stesso un esempio di ricerca che può essere esteso ad altri territori;

 

·              posto: tesi “La poesia di Raffaello Baldini” di Ida Zicari: l'autrice ha illustrato dettagliatamente l'opera di uno dei più importanti poeti italiani del secondo Novecento, evidenziando il rapporto tra il dialetto e lo stile orale che caratterizzano l'opera di Baldini e le tematiche da lui trattate.

Inoltre, come recita il verbale della commissione “Due delle tesi succitate - quella di Cinzia Lisi e quella di Rino Molari- sono state escluse dal concorso rispettivamente per l’arrivo in IBACN oltre la scadenza indicata dal bando, e per la discussione all’università al di fuori dell’arco temporale menzionato nel bando. Tuttavia meritano di essere segnalate, la prima (quella di Cinzia Lisi) per aver affrontato lo studio di un'autrice dialettale di estrazione popolare di singolare originalità, la seconda (quella di Rino Molari) in quanto si tratta di una tesi di interesse "storico", che illustra la situazione dialettale nell'area santarcangiolese negli anni Trenta del Novecento.”

 

Con la speranza che l’attenzione verso l’universo dialettale della nostra regione possa continuamente rigenerarsi secondo nuove forme stimoli ed indirizzi, vi invitiamo alla lettura delle tesi vincitrici.

 

 

 

Alessandro Zucchini

Direttore dell’IBACN



UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI URBINO “CARLO BO”

 

 

FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

 

 

Corso di laurea specialistica in Tradizione e Interpretazione dei Testi

 

 

LA VICENDA LETTERARIA DI

GIULIANA ROCCHI

 

 

 

Relatore: Chiar.ma Prof.ssa                            Tesi di laurea di:

Tiziana Mattioli                                                                      Cinzia Lisi

 

 

 

Anno Accademico 2007 – 2008

INDICE

PRESENTAZIONE              9

SIGLATURA              11

INTRODUZIONE              12

Santarcangelo e la poesia dialettale nel secondo dopoguerra              12

1. L’esordio di Tonino Guerra e E’ circal de giudéizi              12

2. Il dibattito su Tuttosantarcangelo e l’esperienza della scuola media serale negli anni ’72-’73              21

CAPITOLO I              34

Modelli e mentori:              34

gli esordi di Giuliana Rocchi              34

I.1 Il rapporto con la tradizione popolare              35

I.2 L’incontro con Rina Macrelli              47

I.3 L’esperienza in prosa              59

CAPITOLO II              71

La prima raccolta              71

II.1 La preparazione dei materiali poetici: un lavoro lungo e complesso.              72

II.2 La pubblicazione de La vóita d’una dona ed i rapporti con gli ambienti femministi              98

CAPITOLO III              114

La maturità artistica              114

III.1 Gli orizzonti si ampliano: il successo, l’incontro con Davide Argnani ed “i poeti del dissenso”              115

III.2 La seconda raccolta.              129

III.3 Gli ultimi anni. Rita Giannini e “E’ terz lóibar”              157

APPENDICE              171

BIBLIOGRAFIA              176

 

 

 


 

PRESENTAZIONE

 

 

 

 

 

Questa tesi di laurea ha l’obiettivo di indagare la figura e lopera di Giuliana Rocchi, poetessa dialettale santarcangiolese, decisamente meno nota rispetto ai suoi illustri concittadini  e colleghi Tonino Guerra, Raffaello Baldini, Gianni Fucci e Nino Pedretti. L’intento è quello di approfondire lo studio della sua esperienza poetica, partendo dalla constatazione che i contributi critici, anche autorevoli, che l’hanno riguardata sono numericamente pochi e volti a cogliere alcuni,  limitati aspetti della sua produzione. Si è invece cercato qui di ricostruirne la vicenda letteraria nel suo insieme, ponendo l’attenzione essenzialmente sulle circostanze davvero sui generis che hanno caratterizzato la scrittura, la revisione ed infine la pubblicazione dei suoi materiali poetici. La trattazione ha quindi al centro l’indagine sui testi, attraverso il confronto tra gli originali autografi, le varianti e le versioni definitive a stampa. Si è potuto realizzare questo tipo di ricerca grazie alla consultazione di due preziosi ed importanti archivi documentari: il Fondo Giuliana Rocchi, conservato presso la Biblioteca di Santarcangelo e l’archivio personale di Rina Macrelli, la curatrice delle  prime due raccolte della poetessa. Il primo è proprietà della biblioteca, accessibile a tutti. Il secondo è stato cortesemente messo a disposizione dalla proprietaria, per tramite dell’assessore alla cultura del comune di Santarcangelo Manuela Ricci, che attualmente lo ha in custodia. Entrambi gli archivi contengono materiali autografi della poetessa, molti dei     quali tuttora inediti: lettere, minute, poesie, appunti, note. A questi sono da aggiungere materiali documentari vari: lettere autografe o dattiloscritte che diversi mittenti le hanno inviato, articoli di giornali, riviste e pubblicazioni che in qualche modo hanno a che fare con


la sua opera. Li distingue però un elemento significativo: mentre l’archivio di Rina Macrelli è perfettamente ordinato su base cronologica e quindi di rapida e facile consultazione, i materiali del Fondo Rocchi non sono ancora stati sistemati, ma solo sommariamente divisi in faldoni in base alla tipologia (manoscritti, dattiloscritti, articoli a stampa e materiali iconografici), per cui il loro utilizzo è stato decisamente meno agevole. In ogni caso la ricchezza di questi materiali ha consentito di condurre una ricerca originale, che si è poi concretizzata, seguendo l’impostazione derivata dall’archivio della Macrelli, in una trattazione essenzialmente cronologica. Dopo l’Introduzione, che mira a contestualizzare l’opera della Rocchi nella temperie culturale santarcangiolese del dopoguerra, tutta indirizzata verso la rivalutazione del dialetto come strumento espressivo, nei successivi capitoli si segue l’evoluzione della sua personale vicenda letteraria: gli esordi, la prima raccolta, il raggiungimento della maturità artistica e la produzione degli ultimi anni. Il lavoro è chiuso da un’appendice che riporta in copia fotostatica alcuni autografi della poetessa ed altri documenti ritenuti particolarmente significativi.

Per la restituzione dei testi inediti ed editi il criterio che si è deciso di utilizzare è di tipo strettamente filologico: tutti i testi sono stati citati alla lettera (segni diacritici compresi) nella forma in cui compaiono nelle diverse fonti di volta in volta utilizzate.

 


 

 

SIGLATURA

 

 

 

Gli archivi utilizzati per la redazione del presente lavoro sono stati citati

secondo la seguente siglatura:

- FR : Fondo Giuliana Rocchi.

- AM : Archivio Rina Macrelli.


 

INTRODUZIONE

Santarcangelo e la poesia dialettale nel secondo dopoguerra

 

 

 

 

La straordinaria fioritura della poesia dialettale che si è verificata a Santarcangelo nel secondo dopoguerra, e che le ha valso la lusinghiera definizione di “città dei poeti”, non può essere considerata semplicemente il frutto dell’apparire casuale di singole individualità di talento in un breve arco temporale, ma necessariamente il prodotto di un humus culturale estremamente fertile che ha favorito lo sviluppo di questo genere di espressione poetica. Questo va senz’altro ricercato nella singolare esperienza di quello che è stato chiamato dagli stessi promotori (ma la paternità precisa della denominazione resta ignota) “E’ circal de giudéizi[1], un sorta di circolo culturale animato da un gruppo di amici, giovani intellettuali desiderosi di confrontarsi sulle proprie aspettative nel ritrovato clima di libertà, di aprirsi alle esperienze culturali più innovative, ma soprattutto di riscattarsi e riscattare il proprio paese dalle umiliazioni subite durante gli anni del fascismo e della guerra. Il gruppo era animato da Tonino Guerra, appena rientrato dalla deportazione in Germania, insieme a Nino Pedretti, Flavio

Nicolini, Raffaello Baldini, a cui in seguito si aggiunsero esponenti della generazione più giovane come Gianni Fucci e Rina Macrelli. Come si può vedere i principali nomi della grande stagione poetica santarcangiolese sono già tutti presenti qui, anche se è bene ricordare che gli esordi poetici di Pedretti, Baldini e Fucci avverranno molti anni dopo l’esperienza del circolo

(tra gli anni settanta ed ottanta), come frutti tardivi dei semi gettati allora. Per quanto riguarda Giuliana Rocchi, il solo nome che manca alla lista, pur essendo del luogo e loro coetanea, viveva in una realtà profondamente diversa fatta ancora di miseria e di duro lavoro e non partecipò mai al circolo, ma emerse come poetessa negli anni settanta grazie all’incontro con la Macrelli. Il gruppo aveva interessi multidisciplinari e vi aderirono anche giovani pittori locali come Federico Moroni e Giulio Turci, oltre ad essere aperto al confronto con realtà culturale diverse, in particolare quella romana, come dimostrano le frequentazioni con artisti della capitale quali il pittore Renzo Vespignani o il regista Elio Petri. E sarà proprio verso Roma e il mondo del cinema che si dirigeranno negli anni cinquanta due dei più noti membri del gruppo: Guerra verso la fertile collaborazione con Michelangelo Antonioni e la Macrelli con Liliana Cavani. Ma nell’immediato dopoguerra questi giovani colti e aperti sono ancora tutti insieme a Santarcangelo e si ritrovano regolarmente a casa di Pedretti o nei locali del bar Trieste per parlare di poesia, ascoltare la musica più moderna, seguire proiezioni cinematografiche, con l’attenzione rivolta alle nuove tendenze. Significativa la testimonianza di Baldini sulla scoperta di Montale:

 

 

“Eravamo tre o quattro amici nel bar della ex casa del fascio, si parlava di poesia, di D’Annunzio […] e a un certo momento si avvicina  Tonino  Guerra  e  ci  investe  con generosa violenza: ma cosa state a parlare di D’Annunzio, bisogna leggere Montale, avete letto Montale?’ E così lessi Montale e fu un bel colpo, sentii subito che quei versi mi riguardavano. Avevo allora diciannove anni, la poesia per me era quella della triade canonica, Carducci, Pascoli, D’Annunzio […] ignoravo quel che si macinava nellaboratorio poetico del novecento.[2]

 

 

E proprio quel che si macinava nel laboratorio poetico del novecento diventa il centro degli interessi del gruppo, come ricorda Nicolini:


 

“Eravamo ottimisti e leggevamo Kafka credendo di smascherare il passato mediante la letteratura […] era lo specchio della libertà e dell’immaginazione che interrogavamo.”[3]

 

 

Nell’elenco degli autori di riferimento figurano Vittorini, Fitzgerald, Hemingway, Verlaine, Montale, persino Dante Alighieri “riletto nella Vita Nuova”, i pittori Magritte e Sironi. Ad incentivare in questi giovani l’amore per la cultura e la ricerca c’era poi la figura di Augusto Campana, “professore dentro” come lo definisce Baldini[4], lo storico-filologo antifascista che nei periodi di vacanza dai suoi impegni a Roma riceveva il gruppo nella sua villa al Viale del Passeggio.

E’ in questo clima di entusiasmo per la ritrovata libertà e di apertura verso gli orizzonti culturali più moderni che maturano la riflessione sulla poesia dialettale e l’esordio poetico di Tonino Guerra, straordinario per originalità e riuscita letteraria. A proposito del recupero del dialetto come mezzo espressivo, Cremante[5] ricorda come questo tema fosse già presente nella cultura santarcangiolese del novecento a partire dagli studi sui dialetti della Valmarecchia condotti da Rino Molari, fino alle proposte di Alfredo Sancisi per un utilizzo del dialetto a supporto della didattica dell’italiano nelle scuole elementari. E certamente è plausibile che questi illustri precedenti fossero presenti a Guerra ed agli altri del gruppo. Tuttavia è opinione condivisa dalla critica[6] che la riscoperta del dialetto nei poeti santarcangiolesi del Circolo del Giudizio avvenga nel segno di una forte discontinuità rispetto alla pur ricca tradizione regionale. Franco Brevini nel suo breve excursus sulla linea romagnola della poesia dialettale del Novecento[7] identifica proprio nell’opera di Tonino Guerra il momento di svolta decisiva rispetto alla tradizione,

incarnata da un lato dallo stereotipo comico-realistica del “rumagnol sbraged” di Guerrini e dall’altro dalla vena spallicciana, imbevuta di “tensione agiografica” (per usare le parole dello stesso Brevini) verso la propria terra dove “le donne sono belle, la gente buona, il sangiovese si taglia con il coltello, il sangue nelle vene è in movimento […] e il documento verista è riconvertito nell’apologia borghese dei valori municipali.”[8]

Non è proprio questa la strada su ci si muove e Santarcangelo. L’esigenza per Guerra di scrivere nella lingua della sua terra nasce nella condizione drammatica di deportato. Ricorda il poeta nella prefazione a La s-ciuptèda:

 

 

 

 

“Ho cominciato a scrivere poesie al tempo della mia prigionia in Germania. Piacevano molto agli amici romagnoli e il dottor Strocchi le trascriveva nel suo quaderno di appunti. Senza dubbio furono di grande aiuto […] costituivano un forte motivo di evasione[9]

 

 

e lo stesso Gioacchino Strocchi, il medico ravennate suo compagno nel campo commenta a sua volta:

 

 

“scrivevamo con grande fervore delle cose in dialetto romagnolo e alla sera ci leggevamo a vicenda […] allora ci dimenticavamo di essere prigionieri in terra straniera”.[10]

 

 

 

Al ritorno dalla prigionia Guerra, insieme agli amici del Circolo del giudizio, trasformerà questa esigenza, scaturita in un clima di persecuzione ed oppressione, in un preciso progetto culturale. Afferma a questo proposito Nicolini:

 

“Eravamo usciti da una guerra ambigua, crudele e perduta. Avevamo subito l’umiliazione del regime e volevamo riscattarci con un’arte nuova. Il cinema ci dava il neorealismo, la poesia aveva bisogno del dialetto […] del tono di cultura di casa che offriva […] come per riscattare le umiliazioni precedenti dalla soggezione e dalla retorica. La misura giusta per sfrondare il mondo dai vizi della falsa letteratura stava nella pratica del dialetto.”[11]

 

 

 

L’uso del dialetto dunque come reazione alle umiliazioni del fascismo ed alla sua retorica nazionalista, un tentativo dal basso di svecchiare la cultura attraverso l’utilizzo di uno strumento linguistico antico e proprio delle classi popolari.

Il richiamo al neorealismo porta con sé il riferimento all’opera coeva di Pasolini che dalla poesia in dialetto friulano comincerà la sua avventura di scrittore. Questi, dalle pagine introduttive della raccolta Poesia dialettale del Novecento, curata insieme a Dell’Arco ed uscita nel 1952[12], fornirà una prima chiave interpretativa della novità intrinseca dell’operazione poetica sua e di Guerra, accostando egli stesso il proprio nome a quello del santarcangiolese (ricordiamo che le pasoliniane Poesie a Casarsa sono del 1942, I Scarabócc di Guerra del 1946). Pasolini riflette sulla “difficoltà teorica del dialetto in un tempo in cui l’italiano comincia ad essere effettivamente una lingua parlata”[13], in un tempo in cui cioè le politiche culturali e scolastiche volte a combattere la frammentazione linguistica dello stato unitario, e perseguite con determinazione dai governi regi e dal fascismo, cominciavano a dare i primi risultati. Anche se di vera unità linguistica in Italia si potrà parlare solo negli anni sessanta, con l’arrivo della televisione ed i programmi di alfabetizzazione generalizzata[14], per la classe intellettuale (quella a cui appartenevano sia Pasolini che Guerra e gli altri del Circolo del giudizio)

questa era già avvenuta, per cui, per i poeti dialettali di quella generazione risultava invertito il tradizionale percorso che aveva portato gli scrittori delle generazioni passate a parlare in dialetto ma scrivere in italiano (a questo proposito basti ricordare le stesso Manzoni e la necessità per lui di “sciacquare i panni in Arno”). Continua Pasolini:

 

“estremamente più complessa è dunque oggi [cioè metà novecento] la ragione di un

ritorno al dialetto, a questa non più unica ma seconda lingua parlata, la lingua di un’altra

classe sociale : richiede, in confronto ai vecchi veristi, o un assai maggiore raffinatezza o

un assai maggiore inclinazione verso le masse. O forse le due cose insieme.”[15]

 

 

 

Secondo Pasolini dunque l’inclinazione verista, lo spirito mimetico che ha caratterizzato la poesia dialettale (in tutta Italia, non solo in Romagna) tra fine ottocento e la prima metà del novecento sono di fatto superati nella nuova condizione sociolinguistica del dopoguerra, per cui lo scrivere in dialetto assume due nuove valenze: una letteraria, di raffinata ricerca formale, una politica, di attenzione alle masse diseredate ed incolte, ancora completamente immerse in un mondo residuale che conosce solo il dialetto. Entrambi queste valenze sono presenti nell’opera di Guerra fin dalla prima raccolta: c’è il richiamo alla poesia “alta” in lingua italiana, con la dedica a Montale, a cui Bo’ nella sua prefazione[16] a I Scarabócc, affianca la lezione di Pascoli: “Sant’Arcangelo non è poi troppo lontano da San Mauro, quindi siamo in clima di origine pascoliana del Pascoli più bello e fulminato di Myricae” , mentre Pasolini percepisce nei versi di Guerra “il linguaggio di Montale e il tipico antipetrarchismo pascoliano”; c’è l’attenzione ad un mondo residuale abitato da diseredati, poveri e vecchi senza casa, malati in sanatorio, reduci, disadattati, vale a dire , per usare le parole di Brevini, “la rivendicazione della

realtà romagnola contro la sua oleografia”[17]. C’è dunque la coscienza politica e di classe tipica del neorealismo, anche se poi Pasolini individua come limite dell’opera del santarcangiolese proprio l’incapacità di andare oltre, di trasformare la presa di coscienza in lotta per l’emancipazione, ricadendo, a suo dire, nel gusto borghese del lirismo e del ripiegamento intimista. Sia che si voglia o meno riconosce validità e pertinenza a questo genere di critica, resta il fatto che l’esordio poetico di Tonino Guerra apre una stagione nuova nel rapporto tra letteratura e dialetto, in cui si fondono la ricerca “colta” sulle possibilità espressive ancora inesplorate di questo strumento linguistico (il dialetto di Santarcangelo in particolare, per le sue sonorità irte e difficili e per la mancanza di una tradizione letteraria alle spalle[18] è davvero una lingua tutta da scoprire ai fini poetici) e la volontà di elevare alla dignità letteraria il mondo, povero e marginale di coloro che non sanno esprimesi se non in questa lingua. Tra queste due polarità si muoveranno le diverse esperienze dei poeti maturati all’interno del Circolo del Giudizio, tutti con la consapevolezza, come osserva Gianni D’Elia, “di muoversi in un contesto di letteratura poetica corale, arricchito dalle singole individualità, senza più nessuna soggezione verso la tradizione in lingua”.[19]

Guerra nelle raccolte successive accentuerà il carattere intimista della sua ricerca, in cui il paese reale diventerà “luogo dell’anima” e della memoria, “rifugio dalle tempeste della storia”n e la sua poesia approderà ad una dimensione magico-surrealista. Sarà seguito in parte su questa strada da Gianni Fucci, accostato dalla critica[20] ad autori come Prévert ed Eluard, anche se nelle sue ultime raccolte predomina la dimensione della poesia civile ed engagé, solidale con le grandi battaglie per il riscatto delle masse. Pedretti

e Baldini invece useranno il dialetto per trasfondere nelle loro poesia la “voce del popolo”, in chiave epigrammatica il primo, tendente al teatrale il secondo. Proprio Vòusi si intitolerà la prima raccolta di Pedretti in cui, come osserva Brevini “l’autore si propone di porre il privilegio dell’espressione al servizio di coloro i quali ne sono stati spogliati”[21], mentre Baldini affermerà di scrivere usando questo strumento linguistico perché “ci sono cose che ancora accadono in dialetto”, c’è un’umanità marginale, disadattata rispetto alla modernità, che ancora si esprime così e che diventerà l’io narrante nei suoi monologhi poetici.

Il clima di grande apertura mentale, di amore per la ricerca e la sperimentazione che furono alla base della nascita del Circal de giudéizi portarono poi al suo scioglimento. Era chiaro che a giovani così brillanti e pieni di aspettative, con l’idea “che anche da Santarcangelo si potesse mirare in alto”[22], la vita in provincia andasse stretta. I rapporti con Roma ed il mondo del cinema portarono Guerra verso il suo futuro di sceneggiatore di fama internazionale; Nicolini, dopo essersi laureato con una tesi sul valore educativo del cinema per i ragazzi, cominciò a lavorare come sceneggiatore televisivo e poi romanziere; Raffaello Baldini e Rina Macrelli partirono per la Francia, lui professore a Renne, lei a Parigi per scrivere la tesi su Voltaire ed approdare, come già ricordato, anche lei a Roma. Il gruppo restò però unito nella lontananza, come dimostra il fitto carteggio[23] intercorso tra i suoi componenti a partire dai primi anni della separazione fino quasi ai giorni nostri. Inoltre tutti restarono collegati, chi in maniera più stretta, chi meno, alla realtà del luogo da cui erano partiti, continuando ad animarne il dibattito culturale attraverso la collaborazione con giornali locali (come vedremo nel caso della Macrelli), partecipando a dibattiti ed incontri promossi dalle

autorità locali, spesso per celebrare i loro successi a livello nazionale o internazionale, diventando con le loro opere motivo di stimolo per le successive generazioni di santarcangiolesi aspiranti scrittori (tra i quali mi limito a citare il vulcanico Daniele Luttazzi autore teatrale e la brava Annalisa Teodorai nell’ambito della poesia dialettale), per cui il paese resta oggi, pur nella dimensione provinciale, un centro culturale vivo e vitale.

 

 

 

Dopo la produttiva stagione del “circolo del giudizio”, il dibattito culturale intorno al dialetto e alla poesia dialettale vive a Santarcangelo una seconda fase di grande vivacità agli inizi degli anni settanta, con la pubblicazione de I Bu di Tonino Guerra e, successivamente, l’emergere di Pedretti e Baldini come autori dialettali di primo piano, insieme alla scoperta di Giuliana Rocchi, rimasta fino ad allora completamente nell’ombra, grazie all’incontro con Rina Macrelli ed al ruolo attivo che questa ebbe nel portare alla pubblicazione della sua prima raccolta.

Un lungo periodo che si potrebbe definire di “latenza” per quanto riguarda la produzione in dialetto a livello nazionale separa la grande stagione postbellica, che si esaurisce nel 1954 con la pubblicazione di Lunario di Guerra e La meglio gioventù di Pasolini, dalla ripresa degli anni settanta che avrà proprio in Santarcangelo il suo epicentro. Tra le cause di questo temporaneo abbandono Brevini indica “la scarsa fortuna del dialetto in un periodo di furiosa modernizzazione, coincidente sul piano letterario con il successo della neoavanguardia”[24], che nel suo intento di rivoluzionare e disarticolare il linguaggio letterario non era interessata a lavorare su una

lingua comunemente percepita come retaggio del passato, ma soprattutto respingeva il carattere impegnato della produzione letteraria, incarnato dal Neorealismo pasoliniano, insieme all’Ermetismo e all’intimismo[25] e dunque la poesia dialettale postbellica in quanto compromessa con tutte queste tendenze. Ma a ridosso del sessantotto la situazione cambia, sotto l’influenza del fermento politico-culturale di quegli anni. Nelle riviste che animano il dibattito intellettuale (“Quaderni rossi”, “Quaderni Piacentini”, “Alfabeta”) si recupera il valore dell’impegno politico a tutti i livelli, lo sperimentalismo letterario è messo in secondo piano e il centro di indagine diventano i costumi e le esperienze di vita delle masse subalterne.

I riflessi di questo nuovo clima arrivano anche a Santarcangelo e portano ad un riaccendersi dell’interesse per il dialetto come mezzo espressivo per eccellenza delle classi popolari e, conseguentemente, per il valore liberatorio che l’uso di questo strumento assume nel fare poesia. Il dibattito è ben documentato sul periodico dell’amministrazione locale “Tuttosantarcangelo”[26], che lancerà una serie di iniziative volte al coinvolgimento diretto dei lettori in questa campagna di rivalutazione dell’idioma locale. Principale promotrice sarà Rina Macrelli, che collabora con il giornale da Roma, e in quegli anni porta avanti in prima persona le istanze politiche sessantottine, in particolare sul versante del nascente movimento femminista, come attivista del gruppo romano di via Pompeo.

Nel numero di gennaio del 1972 il giornale lancia un “Corso semiserio di dialetto” tenuto da Livio Vannoni, un ferroviere con la passione per il vernacolo, il quale, fornendo un quadro molto realistico della situazione linguistica locale in quegli anni, giustifica con queste parole la sua iniziativa:


 

 

 

“dalle nostre parti è ancora molto in uso parlare dialetto e chi lo usa di più sono proprio le persone più anziane che hanno avuto poca istruzione […]però anche molte persone di un certo livello culturale e sociale lo parlano […] Tra i bambini il dialetto è usato pochissimo, perché in casa i genitori si sforzano di parlare in italiano anche se, specialmente i nonni, dicono ogni tanto qualche sfrumblaun, così i bambini imparano perfettamente a capire il dialetto, anche se poco esperti nel parlarlo.”[27]

 

 

Il corso consiste poi in una esplorazione del lessico dialettale di uso comune diviso in “sezioni”, una dedicata al vestiario, un’altra alla casa, una agli oggetti per la lavorazione dei campi e così via ed è evidentemente dedicato proprio a quei giovani i cui genitori (ed aggiungo io, le istituzioni scolastiche a tutti i livelli) si sforzano di insegnare l’italiano, ma che per questo rischiano di perdere la lingua dei nonni.

Nei numeri successi il giornale comincia anche a pubblicare in maniera sporadica alcuni componimenti poetici in dialetto inviati dai lettori. Tra questi compare per la prima volta la firma di Giuliana Rocchi: nel numero di maggio presenta La zitela (che diventerà una delle sue poesie più note), a seguire E mi viaz a Roma (giugno ’72) e L’artournar a Roma (nel numero di luglio).

Nel frattempo usciva la raccolta I bu di Tonino Guerra[28], contenente le poesie già pubblicate, più una parte del tutto inedita, con la prestigiosa prefazione di Contini e la traduzione di Roversi. Rina Macrelli ne scrive per “Tuttosantarcangelo" una lunga ed appassionata recensione, sottolineando il forte valore innovativo di quella poesia, anche rispetto allo strumento linguistico, di cui ha contribuito ad aumentare la consapevolezza dei mezzi espressivi. Afferma la Macrelli:


 

 

“Il ruvido e scarno dialetto santarcangiolese da cui parte Guerra non ha alle spalle una tradizione letteraria […] e non offre una vera resistenza all’italiano […] questo fatto è una triste quotidiana esperienza dei parlanti i quali si accorgono di cedere ogni giorno, sotto l’incalzare di un generico italiano televisivo, larghe zone della loro lingua e cultura.”[29]

 

Questa annotazione, che fa proprio il punto di vista pasoliniano sul potere omologante e distruttivo delle identità locali da parte del mezzo televisivo, è la base di partenza per evidenziare l’importanza dell’opera dell’amico poeta : “In effetti Guerra non ha lasciato il dialetto così come lo ha trovato, greve, povero, ormai usurato dall’italiano…sotto la ruvida scorza ha sempre iniettato una sua personale linfa che quella scorza solleva” e conclude additando a “quel crepuscolo piccolo borghese verso cui sembra avviarsi la nostra società e del quale i veri poeti come Guerra ci avvertono con limpidezza, insinuando un atroce sospetto: che tutto sommato “I bu” siamo noi”. Il senso della recensione è chiaro: la ricchezza culturale e linguistica della realtà santarcangiolese è minacciata dall’avanzare della cultura omologante piccolo borghese. A questa minaccia occorre opporsi e l’opera di Guerra, per il suo valore creativo e letterario, ha dato un grande contributo in questo senso. La stessa Macrelli, evidentemente sempre più convinta dell’importanza di promuovere espressioni letterarie in lingua dialettale, dalle pagine di “Tuttosantarcangelo” scrive al direttore per proporre un concorso di poesia:

 

“Caro Gallavotti, perché il tuo giornale non lancia un concorso di poesia in dialetto santarcangiolese? Ho appena finito di leggere le due simpaticissime puntate della dolorosa istoria della Giuliana Rocchi[30] e penso a quanta ricchezza di umori e riflessioni, quanta ironia gentile, dignità e verace filosofia si possono esprimere in questa nostra più intima lingua […] e il premio sarà la consapevolezza di collaborare a un grande coro dialettale e

16

di conservare creando, un bene che nella nuova visione regionale[31]31 si dimostrerà sempre

più una radice vivificante.”[32]

 

 

La lettera si conclude alludendo all’assegnazione del prestigioso Premio Viareggio al poeta dialettale siciliano Ignazio Buttitta, un segnale chiaro nella direzione di una generale rivalutazione di questo genere di espressione poetica a livello nazionale. L’iniziativa, oltre ad essere prontamente accolta dal direttore, riceve l’illustre adesione dello stesso Ignazio Buttitta, che scrive tra l’altro:

 

 

“la poesia popolare è la sola oggi che sa commuovere e comunicare […] e so che i poeti di Romagna hanno il sole nel sangue”.[33]

 

 

Nei mesi successivi gli aspiranti poeti continuano ad inviare i loro testi (ricordiamo che da più di un anno il giornale ospitava saltuariamente gli esperimenti poetici dei lettori), compreso Livio Vannoni il “maestro di dialetto” e Giuliana Rocchi, a cui presto si aggiungono anche Gianni Fucci e Nino Pedretti. La pubblicazione delle poesie continua regolarmente sul giornale sotto la rubrica Poesia popolare dialettale fino al numero di maggio-giugno ’74, anche se l’idea del concorso presto scompare, e del resto la promotrice stessa affermava che l’aspetto della gara non aveva di fatto importanza. La provocazione della Macrelli darà però i suoi frutti sia in termini letterari, con l’emergere di Giuliana Rocchi come voce femminile nel panorama della poesia santarcangiolese, sia in termini di animazione del dibattito culturale intorno al dialetto che sfocerà nell’esperienza della scuola

media serale e nel seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola. Nell’atmosfera di unanime consenso alle iniziative volte a dar lustro all’idioma locale si fa sentire la voce critica di un lettore controcorrente, tale Andrea Costa, migrante in Svizzera, il quale scrive senza mezzi termini (sul numero di gennaio-febbraio ’73) che i poeti del concorso dovrebbero “darsi all’ippica” e il giornale occuparsi di questioni più serie. Alla lettera replica la stessa Macrelli ed è l’occasione per chiarire la valenza tutta politica che lei e la redazione del giornale attribuiscono all’iniziativa del concorso. La giornalista infatti puntualizza:

 

 

 

“Prendere la penna e scrivere nel proprio dialetto è oggi una operazione troppo importante perché si debba in primis considerare la riuscita estetica […] la Giuliana Rocchi, quarta elementare, è una contradara che fa la domestica […] gente comune, gente che lavora […] io dico a queste persone: non abbiate paura dei censori, tirate fuori il vostro verso, una parola in proprio vale più di tutte le esibizioni di cultura d’accatto.”[34]

 

 

 

La querelle ha uno strascico nel numero di aprile-maggio ’73 in cui si legge un “Botta e risposta” tra i due, anche questo un interessante documento per capire il clima di quegli anni sulla questione dialettale. Costa argomenta, questa volta in maniera più pacata ed intelligente, che il mondo di cui il dialetto era vivida espressione (“sono nato ed ho razzolato in mezzo a tre dialetti in una sola via”) è ormai morto (“ho assistito alla morte delle fiere del bestiame, ho visto la morte del gioco dei quattro cantoni, ho visto volare le ultime lucciole”) e che ostinarsi a utilizzare quella lingua è un’operazione forzata, passatista: “siamo nel 1973, non si possono scrivere poesie dialettali con il metro dei “Luneri di Smembar. Per me il dialetto come espressione letteraria di gioia, di amore, di passione è finito”. Difficile non vedere in

questa posizione un eco delle preoccupazioni che Pasolini esprimeva già negli anni cinquanta[35] sulla difficoltà e l’opportunità di scrivere in dialetto mentre ormai si pensava e parlava in italiano. Ma ancora più appassionata è la replica di Rina: “Caro Andrea no, occuparsi del dialetto non è amore di robivecchi, è una presa di coscienza di una lingua che veniva dalla pancia.” Poi prosegue annotando: “I quattro quinti degli operai e contadini parlano ancora dialetto da noi, padrone tu di decretarne la fine”. E qui certamente la Macrelli di nuovo manifesta tutta la forte “inclinazione verso le masse” che Pasolini riteneva necessaria agli intellettuali per avvicinarsi alla letteratura dialettale dopo gli anni cinquanta. Una risposta indiretta alle obiezioni di Costa sono anche i due componimenti che Pedretti invia al concorso[36], che diventeranno tra i suoi più conosciuti, un vero e proprio manifesto della necessità di fare poesia in dialetto nel mondo moderno: “Se la lengua la mor []/alòura e paeis l’è andè/ un à piò storia” recita il primo, mentre La lengua dla mi ma esalta la forza espressiva che deriva al poeta dall’usare l’idioma materno, anche se ormai lingua marginale: “Sa scòrr e tedèsc/adèss im capéss tòtt./Ma sa scòrr la/lengua dla mi ma’/ alòura a fazz di sprai/[] dal giòstri, di fièur/sal mi paroli”.

Sull’onda di questo clima culturale matura una importante iniziativa che concretamente va nella direzione di utilizzare il dialetto come strumento di emancipazione e di lotta politica. Alcuni giovani insegnanti della locale scuola media ascoltano le richieste di un gruppo di lavoratori desiderosi di ottenere il diploma di licenza e propongono all’amministrazione comunale di attivare un corso serale. Il bando per l’adesione al corso è pubblicato a grandi lettere sulla prima pagina del numero di ottobre 1972 di “Tuttosantarcangelo” e vi si legge:


 

 

 

“Il Corso tende a soddisfare le numerose richieste avanzate da cittadini lavoratori che sentono il bisogno di approfondire la loro cultura”

 

 

 

Gli insegnanti di lettere Paolo Foschi e Giovanna Gazzoni hanno poi l’idea, certamente innovativa e provocatoria rispetto ai tradizionali programmi scolastici, di adottare I Bu di Tonino Guerra come testo di studio. Nell’elencare le ragioni di questa scelta, Foschi parla della volontà di andare incontro al vissuto degli studenti, proponendo un testo come I Bu calato nella realtà paesana, e soprattutto del tentativo di concepire una scuola più democratica, con un diverso rapporto tra docenti e allievi:

 

“La presenza di un testo in dialetto, cioè la lingua che la nostra gente conosce bene, permetteva ai ragazzi stessi di avere per primi delle idee, magari più idee di noi insegnanti […] il primo dato positivo è stata la realizzazione di una democrazia totale con loro.”[37]

 

L’inevitabile scontro con le istituzioni scolastiche per l’approvazione del programma diventa un’occasione ulteriore per gli insegnati di ribadire la necessità del superamento di ciò che in quegli anni veniva percepito come “vecchio nozionismo”. Contro le perplessità espresse dai presidi, che lamentavano l’assenza dal programma dei capisaldi tradizionali (“manca l’epica, manca Manzoni ecc”) , si obietta che la maturità e il livello di competenza culturale degli studenti non si possono valutare solo nei termini di conoscenza dei classici della letteratura. In questo senso la scelta di un testo in dialetto diventa lo strumento per portare avanti un’idea diversa di scuola, vicina agli ideali del sessantotto e cara alla sinistra di quegli anni. Si può

essere d’accordo o meno con questa impostazione riguardo ai doveri formativi della scuola, ma resta il fatto che, a detta degli stessi partecipanti al corso, si è trattato di una esperienza molto positiva e stimolante. Molti dichiareranno che la lettura del libro di Guerra li ha coinvolti ed avvicinati per la prima volta alla poesia, e proprio perché scritto in dialetto, nella lingua da loro sentita come più familiare. Ecco alcune testimonianze:

 

“Noi proveniamo da una classe, la classe operaia…da una cultura dialettale e quindi un

libro in dialetto lo sentivamo di più”,

 

oppure:

“queste poesie mi parlavano del mio paese…mi hanno insegnato più dell’italiano e mi

hanno appassionato di più”,

 

e ancora:

“Io credo che con la poesia di Tonino Guerra anche mio padre che ha fatto la terza

elementare si entusiasmerebbe, anzi si è davvero entusiasmato.”[38]

 

La prima ad entusiasmarsi per il progetto è Rina Macrelli, la quale, fedele all’ideale del Circal de giudéizi che “anche da Santarcangelo si potesse mirare in alto”[39], prende lo spunto per organizzare un seminario che porterà in paese tra il 16 ed il 17 giugno del 1973 alcuni dei più noti linguisti e poeti italiani di allora, tra cui Tullio de Mauro, Alfredo Stussi, Augusto Campana, Ignazio Buttitta, fino al noto filologo tedesco studioso di dialetti romagnoli Friederich Schurr. Ospite d’onore Tonino Guerra, a cui l’evento è dedicato. Il titolo di “Seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola” chiarisce i termini dell’iniziativa. Il seminario è “popolare” perché ispirato dal basso, da una esperienza didattica che ha coinvolto studenti-lavoratori,

chiamati ad un ruolo di protagonisti al dibattito insieme agli eminenti studiosi; ha come centro d’indagine Tonino Guerra perché sua è l’opera su cui gli studenti hanno lavorato; questa deve essere poi la base di partenza per un indagine più vasta sulla poesia dialettale romagnola, ma non solo, come la presenza di Buttitta testimonia. Gli spunti di riflessione offerti dal seminario sono numerosi. Viene ribadita da più parti la valenza politica di tutta l’operazione di rivalutazione del dialetto. Il sindaco Donati non usa mezzi termini:

 

 

“La riscossa politica è cominciata, quella culturale è più difficile e ci auguriamo che questa

sia un occasione per la presa di coscienza del nostro popolo.”[40]

 

 

Gli fanno eco gli interventi di Foschi sul progetto di una scuola più democratica, già riportati sopra. Su questo punto si articola anche l’intervento di De Mauro che ribadisce la necessità di una politica scolastica che porti alla alfabetizzazione in lingua italiana di tutta la popolazione, partendo però dalla valorizzazione delle parlate locali. Secondo il linguista, le politiche portate avanti dall’unificazione d’Italia, mentre sono servite ad inculcare il disprezzo per i dialetti, non hanno scolarizzato le masse in maniera sufficiente al raggiungimento di una vera padronanza dell’italiano, condannando di fatto vasti strati della popolazione al semianalfabetismo:

 

 

“questa scuola ha prodotto per lungo tempo …ciò che era funzionale ad un progetto miope di potere brutale di pochi sulle masse: ha prodotto cittadini paurosi di parlare e di far sentire la loro voce”[41].

Nella nuova Italia democratica questo non deve più essere, pertanto le espressioni letterarie in dialetto, che vengono dal basso, vanno promosse ed incoraggiate, come sosteneva la Macrelli nel lanciare l’iniziativa del concorso. Il disprezzo del dialetto come stigmate di arretratezza ed ignoranza va superato, vanno superati i falsi pregiudizi che hanno portato a considerare i dialetti forme degradate della lingua italiana, mentre sono sistemi linguistici autonomi e perfettamente validi al pari della lingua nazionale. Le opere poetiche di Guerra e Buttitta proprio questo dimostrano, che anche con il dialetto si può fare alta poesia. Su questo punto arriva la provocazione dello scrittore giornalista Claudio Marabini, convinto che i poeti dialettali contemporanei siano “i più aristocratici che noi abbiamo”, che non scrivono certo per il popolo che ormai rifiuta il dialetto:

 

 

“Il recupero del dialetto è prettamente letterario, un’operazione che parte da una élite […] per arrivare di nuovo al popolo, chiudendo un cerchio che potrebbe anche apparire come vizioso”[42].

 

 

 

Come si vede i termini della questione sono rimasti sostanzialmente gli stessi individuati da Pasolini negli anni cinquanta: il recupero del dialetto in poesia, mentre questo si avvia lentamente a morire come lingua parlata, è volontà di andare verso le masse o una forma nuova di aristocrazia letteraria? Tonino Guerra, nel suo intervento al seminario, non ha dubbi: affermerà che la sua non ha mai voluto essere un’operazione aristocratica, che lui ha scelto il dialetto perché quella era la lingua del suo popolo, mentre se la gente ora lo rifiuta è perché, come osservato da De Mauro, gli è stato insegnato che usarlo è segno di ignoranza[43]. Fermo restando l’assoluta buona fede di Guerra, è certo che negli anni a venire gli interessi “culturali” delle masse si

allontaneranno dal dialetto e dalla poesia, anziché avvicinarvisi, verso una acritica omologazione sui modelli televisivi imperanti.

Il seminario segna il culmine della stagione di dibattito intorno alla riscoperta del dialetto e della poesia dialettale a Santarcangelo. Negli anni successivi la discussione si spegne, in coincidenza a livello nazionale con quella che è stata definita “la fine del dibattito culturale”, una fase in cui gli ideali del sessantotto si sfaldano per approdare (dal 1973-74 in poi) agli anni del “riflusso” e del “ritorno al privato”. Il passo successivo sarà il “ritorno alla poesia”[44], dopo il rifiuto nelle stagioni della neoavanguardia e della contestazione, che avrà proprio nei poeti santarcangiolesi alcuni degli esponenti principali.

Pur considerando il nuovo clima culturale in Italia, a Santarcangelo a mio avviso il dibattito si spegne essenzialmente per due ragioni: da un lato l’attenzione per la dimensione politico-sociale dell’operazione di recupero del dialetto viene meno, nel mutato panorama socio-economico che vede la città diventare un centro completamente inserito nella modernità opulenta, mentre l’uso del dialetto come lingua parlata connota sempre di meno l’appartenenza ad una classe sociale subalterna (anche alla luce del fatto che in tanti sono riusciti ad emergere da quel mondo povero e marginale che conosceva solo il dialetto) e diventa sempre di più un fatto generazionale; dall’altro diventa pressoché unanime il riconoscimento[45], da parte del mondo letterario, dello spessore artistico dei poeti locali, per cui nessuna battaglia in questo senso è più necessaria.

Gli anni delle iniziative provocatorie, dei seminari e dei botta e risposta sui giornali lasceranno il campo, sul finire degli anni settanta e i primi anni ottanta alla seconda grande stagione della poesia dialettale santarcangiolese con la pubblicazione delle prime raccolte di Nino Pedretti (Al vousi nel 1975),


Raffaello Baldini (E solitari nel 1976), Gianni Fucci (La morta e’ cazadòur nel 1982) e il ritorno alla poesia dialettale per Guerra con E’ mel del 1982. Ognuno di questi autori con una propria personalità poetica ben definita ed originale, non semplici epigoni sulla strada tracciata trent’anni prima da Tonino Guerra, ma seguaci convinti di quello spirito di sperimentazione e ricerca su cui li aveva indirizzati l’esperienza del Circolo del giudizio. Nel 1980 vedrà la luce anche la prima raccolta di Giuliana Rocchi (La vóita d’una dona), fino ad allora un’oscura operaia delle contrade con la passione per la poesia, il “caso letterario” di cui si occuperà il presente lavoro nei capitoli seguenti.

In chiusura di questa introduzione voglio però tornare ad Andrea Costa, la “voce fuori dal coro”, e lasciare a lui l’ultima parola, riportando il suo ultimo, accorato intervento contro l’uso del dialetto in poesia. Rendiamo l’onore delle armi a questo combattente in buona fede per una causa persa, tra l’altro niente affatto incolto o sprovveduto. Cito testualmente:

 

 

“Constato che il neorealismo cinematografico è stato lievito della fortuna dialettale di oggi [osservazione che, come abbiamo visto ha una sua pertinenza]. Il dialetto è necessità decadente in poesia. E’ proiezione lirico-biochimica di traguardi mancati…è mezzo letterario relativamente facile che riapre le porte ad una nuova retorica…il dialetto offerto ad una assemblea indigena, ad una piazza, è chiusura, è masochismo, è oppio…il dialetto è limitato, non è lingua matrice (come l’italiano) di neologismi, di concetti nuovi…è fissità di colori, rinuncia al meccanismo dinamico […] foneticamente è forza comica elementare, sentimentalmente è ingrediente chimico del ricordo […] politicamente è chiusura democratica […] una lingua squisitamente privata, che dobbiamo usare solo privatamente.

Con i migliori saluti, Andrea Costa” [46]

 

 

Con tanti saluti, appunto…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO I

 

 

 

 

 

 

 

Modelli e mentori:

 

 

gli esordi di Giuliana Rocchi

 

Nel breve excursus introduttivo sullo stato del dibattito intorno al dialetto ed alla poesia dialettale nella seconda metà del Novecento a Santarcangelo, ho ricordato come la figura di Giuliana Rocchi si collochi in una posizione diversa rispetto agli altri grandi poeti locali, per una serie di ragioni che fanno di lei un unicum nel panorama della poesia neovolgare[47] italiana, non solo romagnola.

Come si è già avuto modo di accennare nell’introduzione, il livello di scolarizzazione della Rocchi si è limitato alla frequenza della quarta elementare e per il resto della vita ha condotto umili lavori manuali: bracciante nella prima giovinezza, poi operaia nella corderia di Santarcangelo fino al 1964, anno in cui la fabbrica viene chiusa, infine domestica a Rimini. La sua situazione esistenziale è stata dunque ben diversa da quella degli altri scrittori santarcangiolesi della stessa generazione, i quali, pur provenendo per la maggior parte da famiglie di bassa estrazione sociale, sono tutti riusciti ad accedere ad un alto livello di istruzione che ha loro permesso non solo di entrare presto in contatto con il mondo della cultura ed i grandi maestri del Novecento, ma pure di intraprendere brillanti carriere professionali anche lontano dal paese. Questo punto è a mio avviso di vitale importanza per valutare la portata artistica e letteraria della sua poesia. L’aporia individuata da Pasolini a proposito dei poeti postbellici che si proponevano di scrivere in dialetto mentre ormai erano abituati a pensare e parlare in italiano, nel caso della Rocchi semplicemente non pone, perché per lei il dialetto sarà sempre la sola vera lingua-madre, la “lingua di latte” per usare un’espressione cara a Tonino Guerra, utilizzata per comunicare a tutti i livelli, mentre l’italiano


resterà una seconda lingua padroneggiata in maniera precaria ed impiegata sempre con qualche timidezza ed imbarazzo.

Il livello di scolarizzazione e l’ambito di appartenenza socioculturale avvicinano semmai l’autrice ai poeti popolari e di piazza[48] attivi in Romagna tra fine Ottocento e prima metà del secolo scorso, il più noto dei quali è il riminese Giustiniano Villa, un calzolaio con un corso di studi fermo alla terza elementare, a cui si possono aggiungere i nomi del cesenate Montaldi (detto Bruchìn) o di Bartoli di Bagnacavallo. La produzione di questi poeti era concepita per essere letta nelle piazze durante le feste o le fiere, e nota con i termini di satre o zirudèle. I caratteri della satra, dal latino satura[49] erano quelli della poesia di intrattenimento popolare: strutturata sulla rima baciata per poter essere facilmente mandata a memoria da un pubblico incapace di leggere, concepita in un linguaggio semplice e vicino all’oralità, che non ponesse alcuna difficoltà di comprensione, infarcita di elementi comici e scurrilità per suscitare il riso. Questo genere di poesia di piazza aveva a sua volta alle spalle un patrimonio di canti, filastrocche e detti popolari particolarmente ricco in terra di Romagna, come testimoniano la preziose raccolte degli studiosi del folklore Quandamatteo[50] e Piromalli[51], la prima delle quali arriva alla notevole cifra di tremila voci citate! I temi erano legati per lo più ad episodi di vita contadina, dalla semina, al raccolto, al governare gli animali, oppure riguardavano l’amore, il matrimonio e la nascita, e ancora i battibecchi tra comari o tra contadino e padrone, tutti svolti in chiave
comico-satirica con la funzione essenzialmente di divertire senza troppe pretese.

 

La zirudèla invece aveva carattere decisamente più impegnato ed era strutturata spesso come un vero e proprio contrasto poetico tra contadino e padrone, talvolta declamato da due diversi recitatori, “culminante in un finale sprizzante collera ed ira”[52] . Autori come lo stesso Villa utilizzavano questo forma poetica per portare avanti una forte denuncia sociale in chiave antipadronale ed anticlericale, raccontando in versi episodi storici o di cronaca, in funzione di veri e propri “informatori democratici”[53], allo scopo di creare nel pubblico una coscienza politica e di classe. Ecco ad esempio uno stralcio della zirudèla sulla festa del Primo maggio:

 

Oh che spavent! Oh che terror!

Che e prim de d’Maz l’a mes ti sgniur […]

Ench i pret ià vu paura

I se de ‘na gran premura

De fe tutt al su funzion

Per busches da fe clazioun E

po la cisa i la ha ciusa Senza

avé nissuna scusa […][54]

 

Nei seguenti versi invece il poeta lamenta la miseria degli operai come frutto della avidità dei padroni:

 

Quanta rana at i operai! Quant i ne ch’fa di sbadai Chi fa veda e cauzalett […]

Al savrì quel cle e motiv

Ca sem tun sted cativ? […]

 


Tutt l’origin dla miseria Le

avarizia e cativeria Innosseda

chi è ti sgniur […] [55]

 

Sul piano stilistico anche qui notiamo la presenza della rima baciata, l’uso di un linguaggio diretto e colorito (cauzalett che indica le budella, innosseda, cioè “entrata fin dentro le ossa”), i parallelismi e la paratassi, i tratti tipici della poesia popolare. Il carattere democratico di questi componimenti stava anche nel fatto che gli stessi autori li distribuivano poi per pochi spiccioli su fogli volanti[56]

perché fossero riutilizzati autonomamente dal loro pubblico, senza diritti di copyright, come ci informano questi versi del Bartoli:

 

Una masa d’cuntaden

E pu anch da gli èt famei

Per passer e temp piò ben

I ha pu in ca al mi puisei

E la sera in parec sid

On e lez e ch’i etr’i rid[57]

 

Mentre la cultura in lingua ed fermenti letterari del Novecento sono lontani anni luce dalla Rocchi negli anni della sua formazione, il mondo della poesia popolare e contadina le è particolarmente vicino, perché il padre si divertiva a recitare satre e zirudele nelle stalle durante le veglie o alle feste. Così ne parla la figlia in una intervista rilasciata alla Domenica del Corriere nel marzo 1984:

 

“Si chiamava Federico ma tutti l’avevano ribattezzato Galinoun … era un bel tipo. Gli piacevano molto le satre, le poesie che dicevano in piazza i cantastorie nei giorni di


mercato e poi vendevano stampate su piccoli fogli. Mio padre le comprava, le imparava a memoria, alcune le componeva lui stesso, poi le recitava ai contadini.”[58]

 

Ed erano le figlie a leggere al padre analfabeta i versi che poi andava a recitare[59]. Ancora più significativa una delle poesie che Giuliana gli ha dedicato:

 

L’éra noéd a Bagnùl d’Arvérs

T’ una fraziàun ‘d Runfredd

Da famèa ad cuntadóin

E l’éra un gran purètt.

L’óli i l cumpréva a àunzi

E s’una rénga in trégg. […]

A scóla i n’i mandéva

(e’ racuntéva léu)

E par vlai dói quatórgg

I géva “dógg piò déu”. […]

Fra satri e barzaléti

Niséun i i tnéva moèn.

L’éra un gran balaróin

E’ gal ad ogni festa;

énca senza un quatróin

l’alzéva la su cresta. […][60]

 

La miseria e l’estrema ignoranza non impedivano a quest’uomo di cercare il divertimento attraverso il ballo (passione tipica delle popolazioni romagnole) e l’espressione in rima. Da notare in questo testo, accanto a versi facili e popolareggianti (L’éra un gran balaróin/E’ gal ad ogni festa;/ énca senza un quatróin/ l’alzéva la su cresta) la presenza di soluzioni poetiche originali e di grande espressività, come l’esemplificazione dell’ignoranza del padre

attraverso il riferimento alla sua incapacità di contare oltre il dodici, o la forza icastica assoluta di un verso come “e s’una rénga in trégg” a rendere l’idea della miseria, una prima esemplificazione di come la Rocchi, partendo dalle satre paterne sia riuscita poi ad andare ben oltre sulla strada far poesia. E’ certo però che queste sono state le sue prime fonti ed i primi modelli poetici[61]. Poco o nulla si può dire sulla originalità o meno dei componimenti recitati dal padre, oltre a quanto affermato dalla figlia nell’intervista. Tra i manoscritti autografi della poetessa conservati nel Fondo Rocchi figurano un paio di foglietti riportanti una filastrocca ed una “preghirina” con in calce la nota “del mio babbo” che farebbe pensare a sue creazioni, o perlomeno al fatto che lei le ritenesse tali. La “preghierina” di certo non è originale. E’ una delle tante varianti di una preghiera della sera diffusa nelle compagne romagnole e riportata (insieme alle altre versioni) da Quondamatteo nella sua raccolta di modi di dire dialettali

 

A let, a let a voi andae

Tott I Sint a voi ciamae

E signuour per mi pader

La Madona per mi mader

San Jusép per mi parent

A durmirò sicurament […][62]:

 

Pure la filastrocca, in forma del tutto simile a quella del manoscritto, è pubblicata nella stessa raccolta, il ché lascia pensare che non fosse stata inventata dal padre di Giuliana, ma fosse anche questo un testo che circolava negli ambienti contadini, ed il finale licenzioso aveva la funzione di far ridere il pubblico, come osservato precedentemente a proposito di questo genere di poesia. E’ la storiella di un uomo a cui muore la cavalla e, mentre la va a
gettare nel fiume, si imbatte in due vecchi sconci. Cito il finale per rendere l’idea:

 

[…] U éra du vicéun

Ch’i balèva senza calzéun

U i era du bastoérd

Ch’i balèva a chéul vért

Una vècia da la rèisa

La s’è sbroènch e’ chèul

E la comèisa.[63]

 

Interessante è però notare come su questa filastrocca Giuliana abbia lavorato, scrivendone un paio di versioni riviste ed abbreviate[64], segno che la riflessione su questo genere di produzione ha fatto di certo parte del suo apprendistato poetico.

Se la tradizione della poesia popolare romagnola, mediata attraverso la figura del padre, è entrata nella sua formazione culturale, in questo, come già ribadito, profondamente diversa da quella dai poeti dialettali colti del secondo dopoguerra, le motivazioni e le modalità con cui Giuliana approccia l’esperienza poetica vanno ben al di là della ricerca di un divertissement con cui intrattenere un pubblico contadino come evasione alle fatiche del vivere. L’urgenza dell’espressione poetica nasce in Giuliana da un bisogno molto più profondo e viscerale:

 

 

 

“Perché scrivo magari di notte? Per liberarmi un po’ dalla rabbia che ho dovuto reprimere, soffocare fin da piccola, per farvi conoscere le ingiustizie subite insieme alla gente come me, gente della mia generazione che ha dovuto, umiliata, chinare il capo di fronte al volere dei padroni, di dover dire sempre sissignore, di essermi sempre sentita una schiava[65].


La dichiarazione è molto esplicita ed eloquente, anche nel suo essere sgrammaticata. Il tono è grave, la motivazione seria ed afferisce a due dimensioni, entrambe fondanti la sua produzione poetica: una personale, autobiografica (“liberarmi dalla rabbia che ho dovuto reprimere”), l’altra sociale, politica (“farvi conoscere le ingiustizie subite insieme alla gente come me”). Se vogliamo cercare un possibile accostamento con l’ambito della poesia popolare dobbiamo pensare a Villa, alle sue violente zirudèli antipadronali, qualcuna delle quali di certo Giuliana deve aver sentito mentre andava in giro per i mercati con il padre. Ma la componente esistenziale era assente da questo genere di testi, tutti proiettati verso l’esterno, verso la piazza, la dimensione pubblica. Diventa allora forse più appropriato l’accostamento a Tonino Guerra, che inizia a scrivere in dialetto prigioniero in Germania come reazione alla situazione disperata in cui si trovava, e la sua poesia, almeno nella prima fase, ha una forte componente esistenziale e “lirica”[66], oltre che politica di reazione al fascismo e all’oppressione[67].

Tuttavia le ragioni che separano Guerra, e con lui Baldini, Pedretti e gli altri del circolo del giudizio da Giuliana e dalla sua esperienza poetica sono già state ricordate: oltre al divario culturale, c’è il fatto che questi sono riusciti a lasciarsi alle spalle una vita fatta di miseria, limitazioni materiali ed hanno scritto le loro opere più importanti ormai lontani, sia socialmente che fisicamente da quella realtà. Se quel mondo è entrato nella loro poesia, vi è entrato filtrato dai ricordi[68], recuperato ex post non solo per essere elevato alla dignità letteraria insieme alla lingua che ne era espressione (ed abbiamo visto

come questa motivazione sia dichiaratamente presente, sebbene con connotazioni diverse, in tutti questi autori), ma soprattutto come sfondo, base di partenza per creare poi universi poetici originali ed autonomi, espressione di sensibilità letterarie diverse.

Giuliana è invece rimasta una voce diretta da quel mondo di privazioni e fatica, perfettamente consapevole della sua condizione sociale. Dice a questo proposito Rina Macrelli nella introduzione alla prima raccolta:

 

“la vita dura è troppo impressa nel corpo di Giuliana in rughe, mani grosse, reumatismi, per diventare ornamento [alla propria poesia]…”[69].

 

Per questo dobbiamo crederle quando afferma:

 

“è giusto che mi dia fastidio (la sera quando torno a casa) trovare la posta con su scritto

‘Alla poetessa’. Non è falsa modestia la mia […] Non è la poetessa che gira tutto il giorno in mezzo al ferro vecchio, che accudisce a quattro uomini, che parla con la Rina, la mia cagnetta, con le galline i gatti […] ma una povera diavola stanca, malridotta che avrebbe tanto bisogno di godersi in pace le trecento ottantamila lire di pensione di cinquant’anni e passa di lavoro[70].

 

Questa dichiarazione non deve però trarre in inganno. Il rifiutare per sé l’appellativo di poetessa non significa affatto che la Rocchi non curasse la propria poesia. L’indagine diretta dei materiali autografi e delle bozze dattiloscritte permette il riscontro di un notevole lavoro di riscrittura e limatura del testo poetico, della ricerca della rima o dell’assonanza più giusta, del termine più efficace, della versione migliore tra tagli o aggiunte di versi. Gli esempi in questo senso sono numerosi (alcuni già individuati e resi noti dal lavoro di Rita Giannini per l’edizione dell’ultima raccolta postuma Le parole nel cartoccio, altri saranno discussi nei paragrafi successivi, in sede di

analisi dei testi) e testimoniano la passione, la serietà e l’impegno con cui Giuliana si dedicava all’attività poetica, spesso, come lei stessa ammette, sottraendo tempo al sonno ed al riposo nonostante le fatiche quotidiane. Anche nel suo caso sono perciò pertinenti le osservazioni di Brevini a proposito dei “nuovi lirici dialettali”[71] per cui “la poesia non è vissuta come una pratica su cui esercitarsi a tempo perso”, come accadeva per i poeti borghesi come Spallicci, definiti “professionisti che scrivono anche poesie”, o per gli autori della tradizione popolare il cui intento primario era divertire il pubblico, ma “come l’attività fondante…che nasce dall’ansia di riscatto.”[72]

La contraddizione con il rifiuto netto dell’appellativo di poetessa da parte di Giuliana è solo apparente: significa semplicemente che nella percezione della propria identità ella antepone la coscienza di sé, della propria realtà e la coscienza di classe a qualsiasi velleità letteraria. E questo semmai aggiunge forza alla sua poesia, di certo non la sminuisce. Rivela inoltre l’umiltà e il senso del limite di chi è perfettamente consapevole della pochezza dei propri strumenti culturali, strumenti comunemente ritenuti indispensabili a chi voglia tentare la difficile strada dell’espressione poetica.

Le coordinate socio-culturali utili per inquadrare in qualche modo l’esperienza poetica della Rocchi rimandano da un lato alla tradizione popolare delle satre contadine e delle zirudèle impegnate di Villa, dall’altro la forte motivazione esistenziale presente nella sua opera, unita alla serietà ed impegno con cui affronta il lavoro poetico la avvicinano ai lirici dialettali postbellici. I due aspetti si incontrano in maniera originale e proficua nella sua poesia e rendono conto delle sue caratteristiche salienti: il primitivismo ed il senso di spontaneità ed immediatezza derivate dall’uso di una lingua viva, lingua antiletteraria (del resto Giuliana di “letteratura” in senso stretto ne conosceva ben poca) che richiama continuamente l’oralità; la passione per la

rima: “la cerco per giorni, ho quel debole lì”[73]; il realismo e la forte componente autobiografica: “le cose che dico fanno parte della mia vita, di quella della mia famiglia, dei miei parenti, degli amici, non sono campate per aria, né frutto della mia fantasia”[74]; il carattere politico-militante di molti suoi versi; infine la nota ironica che sempre alleggerisce anche il racconto più serio.

Significativa è pure la modalità con cui materialmente Giuliana scriveva le sue poesie: su fogli sparsi, non ordinati in alcun modo, coèrti pérsi come lei stessa le definiva, senza data o altri riferimenti temporali, spesso senza titolo. Anche per questo aspetto verrebbe da pensare ai testi dei poeti di piazza che circolavano su fogli volanti e spesso solo su questi supporti sono giunti fino a noi. Ed in effetti la prima poesia di Giuliana ad avere diffusione pubblica circola proprio in questo modo: stampata a ciclostile per essere distribuita agli operai della corderia in cui lavorava e che scioperavano per non perdere il lavoro:

 

[…] L’è vóint’àn ch’a lavurém

E dla porbia a s nu magném

E dòp tót i patimént

I s’à doè e’ licenziamént […]

Ma nèun sti schéurs i n s’è stoè bén.

A s sém méss tót quant insén

E l’altra sàira, proima ad nòta

Èm deciòis ad doèi la bota […][75]

 

 

L’affinità di un testo come questo alle zirudèli di Villa è evidente. Oltre al supporto ed alla modalità di diffusione c’e l’aspetto formale legato alla presenza della rima baciata, del vocabolario semplice e della sintassi
paratattica, c’è il tono polemico ed il carattere militante dei contenuti. Basti il confronto con questi versi del poeta di San Clemente sul topos de “l’unione fa la forza”, con la voce narrante in prima persona plurale come nel testo della Rocchi:

 

 

[…] ma quand srem unid insein

A potarem al nost rasoun

Cosa am dsle sor padroun? […]

Ma formand tott un unioun

Ic ascolta anche ma noun[76]

 

 

Nonostante l’affinità, tuttavia il contesto socio-culturale in cui Giuliana scrive è profondamente diverso: siamo nel 1964, non è più quella l’epoca delle poesie declamate ai mercati o alle veglie nelle stalle. Sono gli anni della tumultuosa industrializzazione e modernizzazione del paese, le comunità contadine si vanno disgregando, le modalità di socializzazione cambiano, il cinema, la tv ed i giornali hanno preso il posto dei cantori di piazza e la propaganda politica è fatta prima di tutto dagli organi dei partiti. Non è neppure più pensabile il ruolo di poeta-aedo informatore del popolo.

Infatti dopo questo episodio, per otto lunghi anni la voce di Giuliana tace nella dimensione pubblica, fino a quando nel 1972 compaiono le prime poesie su “Tuttosantarcangelo”, mentre lei continua a scrivere prima di tutto per se stessa, per soddisfare il suo bisogno di raccontarsi e riscattarsi, e i fogli volanti manoscritti si accumulano nei suoi cassetti. Dove probabilmente sarebbero rimasti se non ci fossero stati la campagna di rivalutazione dell’espressione dialettale, voluta da Gallavotti (direttore del giornale) e dall’amministrzione comunale, e soprattutto l’incontro con Rina Macrelli, che non solo l’ha scoperta e fatta conoscere al grande pubblico curando la prima

raccolta, ma è stata il suo mentore, l’ha resa consapevole dei propri mezzi e delle proprie potenzialità espressive.

 

 

 

 

“Cara Rina, senza di te sono come una casa senza le fondamenta”. E’ l’incipit di una lettera che Giuliana scrive alla Macrelli nel settembre del 1974[77] per ringraziarla dell’interesse che questa nutre per il suo lavoro poetico e per i consigli ricevuti. Testimonia il rapporto di amicizia che si era stabilito tra le due donne in quel periodo, ma soprattutto il ruolo fondamentale, fondante che la Rocchi riconosce all’intellettuale giornalista nella costruzione della propria identità di donna impegnata sì nelle fatiche quotidiane, ma pure capace di esprimere se stessa in poesia. La riconoscenza ed il ringraziamento saranno un tema costante di tutte le lettere che Giuliana invierà a Rina nel ventennio che è durata la loro frequentazione, interrotta solo dalla morte della poetessa nel 1996.

Le circostanze che hanno portato al loro incontro sono già state accennate nell’Introduzione ed hanno a che fare con la campagna che il periodico dell’amministrazione comunale “Tuttosantarcangelo” lancia nel 1972 a valorizzazione del dialetto e della poesia dialettale, sulla scorta di un clima politico che punta alla rivalutazione della cultura delle masse popolari, ed in concomitanza con la pubblicazione per Rizzoli della raccolta I bu di Tonino Guerra. Giuliana inizia così ad inviare al giornale qualcuna delle sue còerti pérsi, le poesie scritte sui foglietti volanti, che vengono pubblicate insieme a quelle di Livio il ferroviere, Lina Acerboli la casalinga, e gli altri aspiranti poeti, senza alcuna distinzione sul valore letterario dei vari testi. L’episodio chiave è però l’intervento polemico del migrante Andrea Costa contro questi

scritti ed i loro autori[78], seguito dalla accorata replica della Macrelli. Ricorda in proposito la scrittrice:

 

“Ho conosciuto Giuliana nel ’73. Una mia difesa delle sue poesie sul giornaletto locale l’aveva molto toccata. Un presuntuoso aveva scritto al giornale consigliando di eliminare i contributi poetici in dialetto…”[79].

 

 

Questa circostanza è anche ricordata da Giuliana in una lettera del maggio ’78 a Rina, la quale aveva invitato l’amica a Roma per starle vicino in occasione della morte della sorella Nanda. Nel declinare l’invito, Giuliana la ringrazia con queste parole:

 

“sei buona, nobile d’animo, sai infondere coraggio, sei quella che sa dare dieci anche ai più zucconi, come scrivesti in un vecchio Tuttosantarcangelo in mia difesa.” [80]

 

In realtà Rina nelle replica a Costa di certo non aveva difeso i poeti dilettanti in questi termini, ma si era espressa contro i suoi giudizi tranchant:

 

“trovo petulanti i registri, qui i bravi, qui i zucconi”[81].

 

Le parole scelte da Giuliana nel ricordare quell’episodio sono molto interessanti perché rivelano come all’epoca fosse lei a sentirsi, nei confronti del fare poesia, poco più che una zuccona cui la magnanima “professoressa”[82] Rina aveva saputo dare un bel dieci di incoraggiamento!

L’umiltà e l’ironia sono anche la cifra della risposta al “presuntuoso” che la stessa poetessa invia al giornale:

 

Signor Costa

U m dispis immensamént d’avail deléus sal mi satri

(e non poeséi) mo e’ capita, a so andoè a scola da Liverani

a so arivata me sòul e pu u s’è nuvlè e piò d’acsè a n’ò imparoè […][83]

 

Giuliana ci tiene a puntualizzare che le sue non sono poesie, termine comunemente associato alla letteratura “alta”, ma satre, cioè componimenti di carattere popolare, e dunque senza pretese letterarie, perché la sua istruzione è stata inadeguata (Liverani era un maestro incapace per antonomasia). Pur non essendo la replica scandita in versi, la terza riga citata contiene una assonanza interna (nuvlè-imparoè) che la divide in un endecasillabo e un settenario regolari, oltre che essere una efficace metafora. Questo mentre si scusa per non saper scrivere vera poesia… Le potenzialità della Rocchi sono subito intuite da Rina, che nella stessa replica a Costa osserva:

 

 

“io non sono mica d’accordo con il fatto che queste poesie non sono riuscite […] dove la metti la satira della Giuliana Rocchi […] la sagacia, al fierezza, l’ironia paesana e moderna che ne sprigionano […] non sarà grande lirica, ma intanto è lavorazione del terreno linguistico, prova degli strumenti, un primo dissodamento per sé e per gli altri […] certo ci vuole fatica di vanga. Ma prima ancora ci vuole il coraggio di mettersi a farlo”.[84]

 

 

 

Mentre è intenta a preparare il seminario su Tonino Guerra e la poesia dialettale, la Macrelli, che in quel periodo fa la spola tra Santarcangelo e

Roma dove risiede, ha modo di visionare le carte di Giuliana e resta prima di tutto impressionata dal carattere precario e occasionale dei supporti su cui scrive: “su carta da quaderno, su foglietti volanti, su cartoni da schede che qualcuno le regala, su brandelli qualunque”[85]. Capisce il carattere spontaneo ed insieme l’urgenza espressiva da cui nasce la sua ispirazione e la incoraggia a scrivere, invitandola a spedirle a Roma i materiali per poterli visionare. A colpirla non sono solo le poesie in sé, ma la persona di Giuliana in quanto tale, la sua storia di donna che ha sempre lavorato e combattuto contro la miseria, sapendo conservare una grande dignità, testimoniata dalla consapevolezza e dalla forza con cui sa raccontare la sua vita ed il suo mondo: “Giuliana ha una voce che tuona […] è cresciuta fra le lavandaie, fra le operaie, fra la gente dei campi e delle contrade”, dirà di lei nell’introduzione alla prima raccolta.

Un primo gruppo di poesie viene da lei trascritto per essere poi distribuito durante seminario. La circostanza è menzionata in una relazione datata 1984 e spedita all’amico Maurizio Pallante, che in quegli anni dirigeva a Torino una collana di autori dialettali:

 

le poesie della Rocchi furono fatte conoscere ai partecipanti al seminario su Tonino Guerra e distribuite in un fascicolo ciclostilato.[86]

 

 

L’evento non risulta però dagli atti del seminario pubblicati[87], dove il nome della poetessa compare solo in una nota dell’introduzione firmata da Tullio de Mauro, che definisce come “straordinaria la sua avventura poetica” e nella

relazione di Nino Pedretti, accanto a quello di Fucci, tra le nuove promesse della poesia santarcangiolese. In ogni caso le parole di De Mauro possono essere lette come una testimonianza indiretta del fatto che proprio in quella occasione il linguista sia venuto a conoscenza di Giuliana e del suo lavoro. Del fascicolo non c’è traccia né nell’archivio Macrelli né tra le carte personali della poetessa conservate alla biblioteca di Santarcangelo e non è possibile risalire a quali e quanti testi vi fossero contenuti. Sappiamo però, da una minuta che Rina aveva scritto a Nino Pedretti, che era sua intenzione invitarla a leggere pubblicamente qualcosa, ma temendo la sua ritrosia, aveva poi deciso di inviare un paio di queste poesie all’amico perché eventualmente le leggesse lui:

 

 

“Caro Nino, ti mando due poesie della Rocchi, le ha fatte lei in questi giorni…una è d’occasione, l’altra è un breve capolavoro […] cerco di incoraggiarla a leggerle, se no le dirai tu, vero?”[88]

 

 

Il “breve capolavoro” viene effettivamente letto da Pedretti nel suo intervento. Si intitola E’ vlen[89]:

 

Al lozli al ni è piò

I li à invlenoedi

E’ groen l’è arvoenz te scheur.

Al zghéli al n’coenta piò cumè una volta

Agli è maloedi

Un po’ agli è morti

Cagli élti agli è stunoedi.

 


Due anni prima del celebre articolo di Pasolini sulla scomparsa delle lucciole[90] una domestica senza licenza elementare, poeta autodidatta sa anticipare il tema: le lucciole non ci sono più perché qualcuno le ha avvelenate –l’uso della diatesi attiva in I li à invlenoedi marca la volontarietà dell’azione – ed il grano, simbolo della fertilità della terra è rimasto al buio. La campagna, il mondo contadino non hanno perso solo le luci naturali che ne illuminavano l’oscurità, ma anche i suoni: a causa dello stesso veleno le cicale non sanno più cantare e quelle che non sono morte sono stonate, cioè non sanno più produrre un suono in armonia con la natura. Una denuncia ambientalista ante litteram in una forma poetica perfettamente strutturata: due serie di tre versi brevi (settenari tranne il quinto, ipometro), separati da un endecasillabo, la prima dedicata alle lucciole e chiusa da un aggettivo legato alla vista (schéur), la seconda alle cicale e chiusa da un termine riferito all’udito (stunoedi). E’ sufficiente una breve analisi del testo per metterne in luce la forza espressiva e le qualità poetiche, che giustamente Rina, con la sua cultura e le sue frequentazioni letterarie aveva saputo prontamente cogliere. Ma la piena consapevolezza delle proprie potenzialità sembra ancora mancare a Giuliana: nella poesia d’occasione che accompagna il “breve capolavoro”, e che è dedicata a Tonino Guerra ed al seminario sul dialetto, l’autrice torna a parlare della sua scarsa istruzione e della conseguente difficoltà di esprimersi:

 

 

 

da Ma Tonino Guèra

 

[…] A so noéda tla cuntroèda

tra la zénta disagéda

l’istruziàun a n la ò véuda


e perdunoè com a so vnèuda.

Mè l’idea a l’avréb bèla

ma u n s’pronéunzia la favèla.

A v dmand sàul te mi dialètt

(e scusé s l’è trop purètt)

d’arcurdoè Tonino Guèra

ch’l’è un poeta dla mi tèra. […][91]

 

 

Può essere interessante notare che la dichiarazione di inadeguatezza delle proprie capacità espressive nei confronti dell’idea poetica si accompagna ad una resa stilistica decisamente inferiore rispetto al testo precedentemente analizzato, molto vicina al livello delle satre popolari, come se la scelta della forma volesse dare prova della veridicità del contenuto. Viene quasi da pensare ad un sottile artificio retorico, magari usato in maniera inconsapevole, ma che dimostrerebbe l’esatto contrario di quello che questi versi affermano, dimostrerebbe cioè la sua capacità di esprimere perfettamente l’idea da trasmettere.

Anche se Giuliana non ha letto personalmente i suoi testi, il seminario del 1973 è sicuramente l’occasione decisiva per farla conoscere ad un pubblico di esperti e suscitare un primo interesse nei suoi confronti da parte del mondo della cultura accademica. Ricordiamo, oltre al già menzionato interessamento di Tullio de Mauro, quello di Quondamatteo, anche lui presente al convegno, che l’anno successivo pubblicherà due suoi racconti in prosa nell’antologia dialettale E viaz[92]. Si tratta di una raccolta concepita sulla falsariga della precedente (Tremila modi di dire dialettali), come studio a carattere folklorico e linguistico sul patrimonio dialettale delle campagne romagnole[93], ma i racconti della Rocchi sono ben più di semplici aneddoti popolari: due piccoli gioielli narrativi semisconosciuti[94], storie di vita vissuta, e che meritano un esame attento per il quale si rimanda al paragrafo successivo del presente

capitolo. Fino al ’73-’74 dunque i suoi pochi lavori ad essere pubblicati lo sono in contesti che non tengono conto delle loro qualità artistiche, come nel caso del concorso di poesia dialettale su Tuttosantarcangelo o la raccolta appena menzionata, dove l’obiettivo dichiarato è la valorizzazione del patrimonio culturale legato al dialetto, non quello di fare emergere le potenzialità dei singoli autori.

Un primo decisivo passo in avanti si ha nel 1976, quando il nome di Giuliana Rocchi ha l’onore di figurare nella sezione I poeti colti dell’importante raccolta curata sempre da Quondamatteo insieme a Giuseppe Bellosi che ricostruisce un secolo di poesia dialettale romagnola[95]. Pur avendo ben presente che colta non era, e tra i dati biografici si riporta il fatto che “a scuola non fosse neppure riuscita a scaldare i banchi, costretta subito a dare una mano a casa”[96], la scelta dei curatori va evidentemente letta come un giudizio di merito sulla sua poesia, per loro accostabile a quella dei grandi letterati dialettali, da Spallicci a Nettore Neri a Olindo Guerrini, fino ai compaesani Guerra e Pedretti. Ed effettivamente i materiali pubblicati sono di grande valore, definiti nella presentazione come “incisivi epigrammi nei quali si condensano la vitalità dell’aspro dialetto […] e una tematica di denuncia sociale e di recupero dei valori umani”. Oltre a E’ vlen, compaiono qui per la prima volta due tra le poesie più riuscite di Giuliana: La vóita d’una dona, una ironica meditazione sul suo essere stata sempre sottomessa fino all’inevitabile epilogo “quand ch’l’ariverà/ e’ cmandarà la mórta/ e mè a n’ò cmandoè mai”, e La strèta de mi ba, un componimento intimista di grande intensità emotiva, assimilabile per toni e temi alla migliore lirica del Novecento:


O’ sempra lavurè fin da burdèla,

la pèga a la daseva me mi ba.

“A faz piò fundament ch’un è s’un òm”

sa ch’ilt e’ geva.

Mu me un m’à mai dè sodisfaziàun.

 

Però quand e’mureva

che da una pèrta l’era pérs

sla mèna bona

u m’à strèt fort fort la mèa

senza parlè, sal lègrimi ma i ócc.[97]

 

Il topos del recupero del rapporto tra il figlio-poeta e la madre al momento della morte, che attraversa la lirica novecentesca da Ungaretti a Montale a Saba, appare qui nella forma speculare di una figlia che ricorda il padre, in una atmosfera di grande commozione. La forza di questa poesia sta però nell’essere riuscita ad esprimere tanto pathos attraverso l’uso di stilemi assolutamente colloquiali (“A faz piò fundament”, “un m’à mai dè sodisfaziàun”) fino allo straordinario verso “che da una pèrta l’era pérs”, dove al significato traslato dell’espressione (cioè una parte del suo corpo aveva perso la sensibilità) si sovrappone il senso primario dell’aggettivo pèrs, cioè perduto, come irrimediabilmente perduto è un padre che muore. La circostanza della pubblicazione di questi materiali è al centro di uno scambio epistolare tra Giuliana e Rina che merita di essere analizzato per comprendere come la poetessa senza istruzione si fosse affidata all’amica più colta nella gestione del proprio lavoro poetico. In una minuta datata 19 febbraio ’76, Giuliana fa riferimento alla sua partecipazione alla presentazione della raccolta di Pedretti[98] alla biblioteca di Santarcangelo. Tra gli invitati figurava anche Quondamatteo che le aveva detto: ‘la prossima volta penseremo a te’, alludendo evidentemente alla pubblicazione delle sue

poesie e l’aveva poi contattata chiedendo del materiale da inserire nella raccolta sopra citata. Prima di aderire alla proposta la Rocchi vuole però sentire il parere di Rina:

 

 

 

So che sinceramente mi dirai cosa devo fare perché solo tu mi hai guidata e sei stata la sola a darmi coraggio per quel poco che ho potuto fare. Se non devo accettare dico che il mio materiale è presso di te a Roma […] Ripeto che faccio con piacere e con orgoglio quanto mi consigli.”[99]

 

 

 

Dalle informazioni che si possono evincere da questa lettera sappiamo che Giuliana cominciava ad essere conosciuta come poetessa dialettale ed invitata ad incontri e presentazioni ufficiali, come nel caso dell’uscita del testo di Pedretti; inoltre la battuta di Quondamatteo lascia intuire che negli ambienti dell’editoria locale ci fosse interesse per il suo lavoro; la richiesta di consiglio e le parole di riconoscenza rivolte a Rina di nuovo ci dicono come Giuliana le attribuisse un ruolo di guida sia per quanto riguarda la revisione della produzione poetica, sia circa le modalità della sua diffusione pubblica. Nella sua replica, datata 28 febbraio 1976 la Macrelli sottolinea con forza la necessità per Giuliana di non “svendere” il proprio lavoro pubblicando i propri testi migliori, e praticamente inediti, in una antologia e di pretendere la tutela dei diritti d’autore. Il suo consiglio è quello di inviare qualcosa, perché comunque la presenza del suo nome in una silloge di una certa importanza sarebbe utile a farla conoscere al pubblico, ma di tenere in serbo la parte più interessante del suo lavoro per una raccolta personale. La chiusura della lettera fa riferimento poi ad un ulteriore, decisivo aspetto dell’interesse di Rina per il lavoro di Giuliana: il suo vedere in lei una sorta di icona del

cammino di emancipazione femminile, dalla miseria e l’oppressione verso l’indipendenza e l’autodeterminazione.

 

 

Non credo giusto che tu pubblichi il meglio in un’antologia […] specialmente in un caso come questo in cui è in ballo la storia di una donna che è un riassunto della storia dell’oppressione delle donne.”[100]

 

 

La Macrelli, che all’epoca era una attivista femminista vicina ai gruppi romani, in particolare quello storico di Via Pompeo Magno, proprio all’ incontro con la poetessa mette in relazione la sua adesione al movimento:

 

la forza che lei ha dato a me è stata essenziale al mio accostamento al femminismo romano e al mio aderire al gruppo di via Pompeo Magno, dove cultura e dialetto si mescolavano con irruente

radicalità.”[101]

 

 

 

Le femministe di via Pompeo Magno, effettivamente note per la loro radicalità, si caratterizzavano anche per il loro andare attivamente a cercare l’incontro con le donne del popolo, nei quartieri, nei mercati[102], nella convinzione che le loro istanze non avrebbero potuto affermarsi finché non avessero fatto breccia all’interno di questi ceti sociali. Era allora maturato l’interesse per le storie di vita vissuta da queste donne, non fatte solo di miseria e sfruttamento, ma anche di capacità di resistenza e di voglia di riscatto. E la storia di Giuliana era sicuramente una di queste, considerata la vita durissima che aveva condotto nella giovinezza, ma anche il fatto che aveva saputo guadagnarsi con il proprio lavoro un’indipendenza di cui andava orgogliosa (ricordiamo la chiusa della puntigliosa replica ad Andrea Costa:

toènt a n’ò da rènd còunt ma nisèun”) e considerati anche i suoi trascorsi di poetessa militante ne La bataia dla corderèa[103].

Riassumendo due sono gli ambienti “colti” che si interessano alla poesia di Giuliana dopo le prime divulgazioni dei suoi scritti: gli studiosi della cultura dialettale romagnola ed i gruppi femministi vicini al collettivo di via Pompeo Magno. Le motivazioni sono evidentemente diverse: Quondamatteo e Bellosi guardano al valore “antropologico” delle sue esperienze di vita (è l’intento dichiarato di una raccolta come E’ Viaz) ed alla sua poesia in rapporto al resto della produzione dialettale romagnola; Rina Macrelli e le compagne femministe leggono in chiave socio-politica la sua storia personale e puntano a valorizzarne il lavoro poetico come un grande esempio di lotta per il riscatto e l’emancipazione femminile.

 

 

 

 

Tra le opere della Rocchi pubblicate prima di quella data, un’attenzione particolare meritano i racconti apparsi nel 1974 nell’antologia dialettale E’ viaz. Racconti e fiabe di Romagna curata da Quondamatteo[104]. La loro importanza è duplice: da un lato rappresentano, in quanto prose, un unicum nella sua produzione; dall’altro si tratta di testi ben riusciti, efficaci e commoventi ed ingiustamente trascurati da tutti coloro che negli anni successivi hanno cercato di valorizzare e diffondere la sua opera. Del resto è il carattere stesso dell’antologia che li ospita a metterne in secondo piano la valenza artistica, in quanto essa non vuole essere, per ammissione dello stesso curatore, una silloge letteraria di prose in dialetto, selezionate in base alla loro qualità, ma uno studio a carattere socio-liguistico sulla Romagna:

“I racconti dialettali raccolti in questo volume vogliono costituire una documentazione scritta, anche se incompleta, delle svariate parlate romagnole e un’immagine inconsueta del costume, dell’animo e degli aspetti sociali della Romagna. Essi si dipanano nell’arco di tempo di circa un secolo.”[105]

 

Posta questa duplice finalità di documentazione linguistica della varietà dialettale e di indagine sugli “usi e costumi” della Romagna, gli “autori” dei racconti da presentare (il termine è virgolettato, perché il loro ruolo è in realtà quello di narratori che si limitano a riferire storie raccolte della tradizione popolare) sono scelti prima di tutto su base geografica, in modo che le parlate esemplifichino le diverse varietà del dialetto romagnolo:

 

“Scenderemo lungo la via Emilia partendo da Nord; nella piana di Cesena ci attirerà il linguaggio di Borello e San Matteo […] Da Santarcangelo risaliremo la Marecchia fino a Novafeltria. Rimini e Cattolica saranno l’estremo sud del nostro viaggio […] poi risalendo lungo la costa raggiungeremo Ravenna.”[106]

 

La variètà sul piano sociologico è invece garantita dalla diversa estrazione sociale degli scriventi: “dalla casalinga al sacerdote, dall’operaio al medico, dall’artigiano all’insegnante” come ci informa Quondamatteo nell’Introduzione[107]. I loro racconti, che per lo più riferiscono episodi od aneddoti tramandati oralmente a livello locale, mirano a restituire un’immagine della Romagna più vera e meno stereotipata di quella trasmessa dalla produzione dialettale più tradizionale:

 

“I fatti e gli avvenimenti quasi tutti veri e realmente accaduti, consapevolmente dissacrano, ma con amore, una Romagna idealizzata e mai esistita […] una poetica dialettale (e non) ha raffigurato questa Romagna come una donna dai fianchi opimi, il seno opulento […] dove gli scariolanti sono felici di essere tali e vanno, cantando, verso l’inumana fatica che li attende. Dando la parola ad una verità spesso amara, i racconti di questo libro […] dicono anche di una terra di miseria, di pianto […] di profonde ingiustizie sociali […] Ci

sono voluti la guerra, lo scorrere degli anni e i tempi nuovi perché Tonino Guerra prorompesse in accuse e denuncie taglienti.”[108]

 

 

 

Le finalità di documentazione a carattere linguistico-folklorico si intrecciano anche qui ad uno scopo in un certo senso politico: cercare nell’aneddoto e nel racconto popolare le testimonianze della vita vera, fatta anche e soprattutto di miserie, privazioni ed ingiustizie. Il riferimento a Guerra ed alla sua esperienza poetica è quindi d’obbligo essendo stato lui a sancire il primato di questo tipo di sguardo nella produzione dialettale non solo romagnola[109]. Sotto questo aspetto l’antologia si colloca negli ideali politico-culturali già affermati dall’esperienza santarcangiolese del Seminario popolare del 1973 (cfr. Introduzione) e non a caso è lo stesso Tullio de Mauro a scriverne la presentazione, riprendendo il tema del distorto rapporto tra lingua italiana e dialetto, già al centro del suo intervento al seminario, definito con il termine di “schizoglossia”: la scuola impone l’italiano dall’alto ed insegna il disprezzo per i dialetti, facendo sentire emarginate intere fasce di popolazione che ancora li usano per comunicare. Recuperare le classi subalterne al rispetto per la propria lingua e le proprie tradizioni è il primo passo verso il giusto riscatto sociale:

 

“E’ appunto in funzione di queste lotte che si vuole recuperare criticamente la storia passata […] le tradizioni locali, per ritrovarvi e riportare in luce valori culturali e politici da affermare oggi, nel presente […] ciò è ben chiaro in questa nuova raccolta di Quondamatteo.”[110]

 

 

Poste queste premesse, l’antologia si presenta come una raccolta di aneddotica popolare, non sempre edificante (del resto “dissacrare” la

Romagna idealizzata è tra gli intenti dichiarati del curatore) molto varia sul piano linguistico, poiché il dialetto muta da un racconto all’altro anche in maniera piuttosto significativa al variare della zona di provenienza del narratore, con un’ ovvia preponderanza del registro colloquiale ed una certa prevalenza delle forme dialogiche dirette, in quanto le più semplici da usare da parte di narratori non professionisti, fino ad arrivare a racconti interamente costruiti sul dialogo (cfr. Sla piazeta dal purazi della riminese Elsa Paglierani che riporta la conversazione udita tra due donne che lamentano le rispettive disgrazie). Al centro delle storie è una Romagna povera, devastata dalla guerra con la sua crudeltà (E’ tudesc ad San Gian, La galeta de suldét) e le sofferenze per la popolazione civile (Cl’inveran de mellnovzentdisset), popolata di poveri cristi diseredati in cerca di fortuna (E fiol ad Bel-gnòc, Masin e carbuner), ladri di polli (E’ gob la Marda ), alcolisti violenti (Storia de s-ciop ad Sisì), matti che parlano con gli animali (Basìli e la manèna, La bréca), bestemmiatori anticlericali (figura che non manca mai tra i romagnoli del popolo, cfr: Ora pro noooobis!), mentre le donne si arrabattano a tirare avanti per sé e la famiglia come possono, anche con il gioco o la vendita del proprio corpo in storie come quelle raccontate ne E terni sec e La Feingrénga.

Questo è il contesto in cui si inseriscono i due racconti della Rocchi, ma rispetto a cui si discostano sotto vari aspetti. Innanzitutto il primo di essi, intitolato La Santoina de Ross, non è un episodio ripreso dalla tradizione popolare, ma, come specifica il sottotitolo “un ricordo di Giuliana Rocchi”, dunque un racconto autobiografico, legato ad una esperienza direttamente vissuta. L’altro si intitola La camoisa ad Panòc ed è invece una storia che lei ha raccolto e che si caratterizza come un esempio di grande solidarietà tra poveri, tema poco presente nel resto dei racconti pubblicati nell’antologia. Ha per protagonista un giovane senza famiglia il quale, quando sentiva la necessita di avere una camicia pulita, la rubava tra quelle che le lavandaie di
Santarcangelo mettevano ad asciugare nel cosiddetto canfiré, l’antico campo della fiera. Il risvolto comico non mancava:

 

“Tent volti, quand l’era ma coesa, u s’incurzoiva che te scheur magari l’eva tolt una camisa

da dona; alaura u i rimbucheva e’ culet, u sla infileva ti calzeun e via.”[111]

 

 

Per fronteggiare la miseria, il ragazzo parte a piedi per Roma per andare a fare il manovale insieme ad un gruppo di amici. Arrivati a Natale, quando ormai è tempo per tutti di cambiarsi (“Burdell, a que l’è aura ad cambies, l’aroiva al festi…”[112]) lui non ha soldi per una nuova camicia e non può fare altro che incamminarsi verso Santarcangelo per procurarsene una nella solita maniera. Ma questa volta le lavandaie non glielo permettono e deve tornarsene a Roma con la vecchia camicia rivoltata. Gli amici prima lo prendono in giro, poi il giorno di Natale gliene fanno trovare una nuova come regalo:

 

“Panòc quant ch’u l’avdet us mitet a pianz e un fót bon ad dì piò gnent. Dop taent an, quand ul racunteva, e’ pianzaiva ancaura” [113]

 

 

Sebbene le parole con cui la Rocchi chiude il racconto lascino pensare ad una storia del tutto vera, è più probabile che si tratti di un aneddoto in parte reale, ma poi rielaborato dalla fantasia popolare (non poteva Panòc semplicemente togliersi la camicia e lavarsela o chiedere alle lavandaie di farlo?), che mette in luce però vari aspetti della Romagna preindustriale: la miseria che impediva a molti di possedere abiti di ricambio, la necessità che spingeva tanti ad emigrare proprio verso Roma, come spiega una nota al testo:

“L’esigenza di fare di Roma da un piccolo centro la capitale d’Italia aveva creato, intorno al 1880, un forte incremento delle costruzioni edilizie […] Questo improvviso sviluppo

attira nella capitale torme di lavoratori, in maggior parte provenienti dalle campagne […] e quando vi lavorano sono mal pagati, mal nutriti e male alloggiati”[114]

 

 

L’indigenza spinge Panòc all’arte di arrangiarsi, ma soprattutto diventa in questo caso la motivazione del bel gesto solidale degli amici.

La solidarietà è pure al centro del racconto autobiografico, dedicato al ricordo della primissima infanzia di Giuliana, quando una forma di rachitismo sembrava condannarla ad una morte prematura, da cui l’hanno salvata le cure della vicina, la Santoina de Ross. Nella parte iniziale del racconto, Giuliana si presenta ai lettori come narratrice della storia e si identifica in quanto figlia di suo padre Galinaun:

 

Me mi ba i i geva Galinaun, e me -la su fiola- av racount sta storia ad miseria, una miseria

nira cume la nota.”[115]

 

 

Come abbiamo visto i due ruoli sono strettamente collegati, poiché per stessa ammissione di Giuliana è dal padre che le è derivato il gusto per il raccontare (cfr. par I.1). Subito dopo indica le coordinate sociali in cui si colloca la vicenda, sfruttando una efficace metafora tipica del parlato (la miseria è nera come la notte) e fornendo poi implicitamente un chiaro giudizio politico sull’epoca:

 

 

a so noeda te temp che i fascesta i deva oli e manganel ma la pora zenta, no mi sgneur.”

 

 

In poco più di due righe vengono fornite informazioni essenziali per inquadrare la storia e comprenderne il successivo sviluppo, secondo una
grande capacità di sintesi e concentrazione dei significati che diventerà una delle caratteristiche principali della sua migliore produzione poetica. Il resto del racconto è ben organizzato per nuclei narrativi, individuati attraverso la scansione in paragrafi: la nascita “quasi per dispet”; il rachitismo che le impediva di crescere, i primi anni trascorsi senza camminare, accanto al camino (la “rola”) in inverno, stesa su una coperta fuori nelle contrade in estate; le cure della Santoina che si era presa a cuore la sua salute in vece della madre malata, tanto che “la patoiva al pene de purgatori avdaim taent moel ardota”, fino al rito magico che sblocca la situazione:

 

 

“Fina sta burdela la sta sempra pez! Chi j apa fat al malegni? Csa giresvi ad purtoela sota al radghi d’un arvura?’ […] E dè dop im porta zo tl’Eus, i fa ste beus sota un’arvura, e per tre matoini in fet foe la ziravolta sota stal radghi. Pu im cavet chi du curset ch’avaiva ma dos, e i mi splétt tla beusa. Quand che i straz j era froid, me a duvaiva caminoé. E fott propria acsé”[116]

 

 

Il simbolismo del rito è piuttosto chiaro: per tre volte, secondo la più tipica scansione del tempo magico, la bambina viene fatta passare sotto le radici di una quercia, albero per antonomasia forte e longevo, per assimilarne il vigore e così guarire. Gli abiti vecchi lasciati a marcire rappresentano la parte malata che viene assorbita, “annullata” dalle radici stesse dell’albero taumaturgico. Si tratta di un rituale contadino arcaico, di cui si è persa traccia con l’avvento della civiltà industriale. La Rocchi nel raccontarlo non solo riferisce un episodio-chiave della sua esistenza, ma preserva la memoria del rito per le future generazioni di lettori che non ne hanno mai sentito parlare. Ecco qui emergere un altro aspetto decisivo della sua opera: il voler far rivivere, attraverso il filtro dei propri ricordi, quel mondo contadino ormai scomparso, con le sue pratiche, i suoi saperi, le sue credenze. Da questo punto di vista le sue conoscenze e competenze sono decisamente puntuali e precise, come
molto puntuale e precisa è la ricca terminologia dialettale che la poetessa utilizza nel rappresentare tale realtà. Così ad esempio nella descrizione della cucina della Santoina troviamo nomi desueti come gli oggetti che indicano: “la rola, i sarmint e i gambareun [i fusti delle pannocchie usati come combustibile], un bel parol, e pajaz si cavalet.” Questa accuratezza terminologica sarà poi una caratteristica qualificante anche la sua migliore produzione poetica.

Il rito si dimostra efficace e Giuliana è salva. Segue il racconto delle cure amorevoli della vicina, che pur nella estrema povertà le procura giornalmente il cibo per farla crescere:

 

“L’am standaiva s’un pez ad pida zala un cucer ‘d cunserva ch’la stéva saura un asa sot è let […] Intoent ch’a magneva disdai sla rola l’am mitaiva al garneli ad furmantaun te fug […] e l’am li deva saura e’ querc de caldir, perché di piat la i n’avaiva soul deu e l’eva paveura ch’al rumpéss […] e par che dè la era cuntenta perché aveva magnè.”[117]

 

 

Il massimo che la donna riesce ad offrirle è piada di granturco e conserva, non ha nemmeno i piatti per darle da mangiare, ma il suo amore per la bambina è grande e Giuliana lo esprime al meglio con parole semplici e dirette: la Santoina era contenta almeno per quel giorno, perché la piccola aveva mangiato. Questa formulazione lascia intendere che la donna si sarebbe preoccupata anche il giorno seguente e gli altri a venire per darle da mangiare, e questo nonostante non fosse sua figlia e il cibo fosse scarso per tutti. Nel finale del racconto Giuliana piange la sua morte, preceduta da quella del marito:

 

“Un bròt dè Michel e muret, e poc dop la su Santoina l’al seguet. Te post dla su chesa ch’l’era chesca, j avaiva fat l’ort […] Ma me un poer da vdai ancaura la Santoina ch’l’am slonga la su pida sla cunserva.”


Di queste persone non rimane nemmeno più la casa, crollata e sostituita da un orto[118], ma resta vivo nella memoria di Giuliana il gesto d’amore della donna che la nutriva e che le ha salvato la vita.

L’episodio al centro di questo racconto deve essere stato così importante per Giuliana (ed in effetti lo è stato, visto che da questo è poi dipesa la sua sopravvivenza), che la poetessa ne ha ricavato anche un poemetto di circa duecento versi, pubblicato con il titolo Cum e’ fótt ch’am sò salvoè da la fòsa nella prima raccolta. L’autografo di questo testo, conservato tra le carte dell’archivio Macrelli, è accompagnato da una minuta dell’autrice, datata 31 dicembre 1975, contenente espliciti riferimenti alla sua stesura[119], per cui è possibile ipotizzare che questa sia sostanzialmente la data di composizione. Poiché il racconto è invece stato pubblicato come si è detto nel 1974, è certo che esso sia precedente la redazione del componimento in versi, che ne riprende molto da vicino la scansione narrativa e le scelte lessicali. Fino al punto che alcune strofe della poesia riportano alla lettera passi della prosa che presentavano già di per sé figure poetiche come l’assonanza o la rima. Ad esempio il paragrafo che descrive le giornate passate da Giuliana in fasce nella contrada stesa su una coperta, diventa una quartina del poemetto:

 

“quand l’arveva la stasaun bona im stug-loeva tla cuntroeda e im ciutoeva s’un strazaz, no perché ch’in num guardèss, ma perché al moschi al num magnèss.”

 

I m stugléva tla controèda

s’un strazaz, mèza ciutoèda

no perché ch’i n mu guardéss,


58

ma perché al mòschi al nu m magnéss […][120]

 

La prima frase del passo riportato dal racconto viene riorganizzata, conservando sostanzialmente le stesse parole, a formare due ottonari rimati, mentre il resto è ripreso alla lettera, separato in versi dalla virgola già presente nella prosa. Lo stesso accade per un passo successivo, relativo all’impossibilità per la piccola di camminare. Le due frasi sono riportate identiche a formare una quartina:

 

“Ma al mi gambi l’in s muvaiva e la testa la pandaiva. ‘Mo guirda là, porca mastela! Cum

s’faral sa sta burdela!”

 

Ma al mi gambi li n s muvéva

e la testa la pandéva.

‘Mo guoèrda là, porca mastèla!

Cum s’faral sa sta burdèla!”[121]

 

A cambiare nel passaggio dalla prosa ai versi è solo la trascrizione del dialetto, decisamente più accurata, con il dittongo “ai” dell’imperfetto (muraiva, pandaiva) che diventa “é”, ed il verbo “guirda” trascritto molto più correttamente come “guoèrda”. Per il resto è identica anche la punteggiatura. Se da un lato appare fin troppo evidente come il poemetto sia una vera e propria trasposizione in versi del racconto, dall’altro è ancora più interessante rilevare, ai fini di un indagine sulle modalità compositive della Rocchi, la sua tendenza a pensare in forma poetica, per rime ed assonanze, anche uno scritto in prosa. Tendenza riscontrabile anche nell’altro racconto, La camòisa ad Panòc, fin dall’incipit:

“Ma Panòć i i geva acsè perché l’era znin e ross. L’era solit che quant us vuleva cambié la camoisa, l’andoeva te canfiré duè che al lavandoeri a gl’avaiva al tirati dla biancheria staisa.”

 

In appena due frasi si trovano tre assonanze (Panòć/ross; cambiè/canfirè; avaiva/staisa), due rime (geva/vuleva; perché /che) ed una consonanza (camoisa/staisa). Del resto non sarà stato un caso che questa esperienza letteraria in prosa sia rimasta unica nella sua produzione: Giuliana ha esposto le sue storie in forma di racconto perché così le è stato chiesto, data la tipologia della raccolta. Si deve essere trattato di una sorta di “lavoro su commissione”, come lascia intuire l’allusione che ne fa la stessa autrice all’amica Rina in una minuta del settembre 1974. Ringraziandola per il lavoro di sistemazione che questa compie sulle poesie che le manda[122], aggiunge: “Ho fatto qualcosina per il dott. Quondamatteo che ti racconterò”[123]. Considerata la data della lettera, il riferimento deve essere necessariamente ai due racconti poi pubblicati nello stesso anno ne E’ viaz e da come Giuliana ne parla sembra proprio che li abbia scritti su richiesta esplicita di Quondamatteo, che evidentemente si è rivolto a lei come “voce narrante” dell’area dialettale santarcangiolese. In quegli anni Giuliana era ancora pressoché sconosciuta, agli esordi della sua carriera letteraria, ma desiderosa di esprimersi ed emergere, come dimostrano le sue pubblicazioni di satre su “Tuttosantarcangelo”; per questo deve aver accettato con entusiasmo l’invito di Quondamatteo ed è probabile che abbia scritto in prosa già avendo in mente, almeno per quanto riguarda uno dei due racconti, la versione in poesia. La prova è sicuramente ben riuscita, ma dopo quest’episodio, come si è già detto, non figurano altri esempi di opere prosastiche, né tra i suoi autografi, e tanto meno tra le pubblicazioni. Giuliana è nata e cresciuta tra le rime e la

ritmica di satre e zirudèle, la sua vocazione resterà sempre essenzialmente poetica e come poetessa sarà conosciuta e ricordata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO II

La prima raccolta

 

Dalla comparsa dei primi componimenti su “Tuttosantarcangelo” nel 1972 all’edizione di una vera e propria raccolta personale della Rocchi passeranno diversi anni. Se uno degli ostacoli principali sarà la difficoltà di trovare un editore disposto ad investire nel progetto, la preparazione stessa dei testi da inserire richiedeva tempi lunghi: ricordiamo che nella lettera del 1976 Rina riteneva “non ancora maturo” il libro di Giuliana. Un tema costante del carteggio tra le due era infatti la difficoltà da parte di quest’ultima di trovare tempo ed energie da dedicare alla produzione poetica, presa com’era da impegni di lavoro e di cura dei familiari. Ecco alcuni passi significativi al riguardo:

 

“Cara Rina, sono ancora a te, ma senza nessuna poesia o satra…Ho lasciato definitivamente Rimini [il riferimento è al pensionamento dall’impiego di domestica presso il giudice] non senza averle trovato prima una brava donna […] per incominciare il riposo sona andata a vendemmiare a Gambettola” [124];

 

 

“Cara Rina, volevo scriverti prima ma siamo stati quasi un mese all’ospedale con mia mamma e non ho avuto tempo [...] per questo non ho riscritto bene la satra che ti mando” [125];

 

 

“Faccio poco perché cerco di andare a fare qualche ore, 55 mila e rotte lire sono poche, e capirai sono stanca più di prima”[126].

 

Oltre al problema della mancanza di tempo dovuto ai troppi impegni di Giuliana, il lavoro di revisione del materiale poetico prevedeva un ruolo attivo da parte della Macrelli, che a sua volta richiedeva tempo, prima di tutto a

causa delle modalità stesse con cui la poetessa glielo forniva: i foglietti volanti su cui erano appuntate le poesie, spesso in forma di abbozzi e senza scansione strofica, venivano allegati alle lettere spedite a Roma; Rina a sua volta li ricopiava, facendone una prima bozza dattiloscritta, base per le successive proposte di modifica e correzione. Per quanto riguarda gli originali, generalmente glieli rimandava, ma a volte li tratteneva, come dimostra il fatto che i manoscritti di alcuni testi si trovano nell’archivio Macrelli ma non figurano tra le carte del Fondo Rocchi: ad esempio la primissima stesura di quello che diventerà uno componimenti più lunghi e significativi dell’intera raccolta, “Cum fótt ch’a m so salvoè da la fòsa”[127]

(ricavato come si è visto[128] dal racconto La Santoina de Ross) o la prima versione della poesia I pézz de tloèr dla mi nòna[129]. Riguardo a quest’ultima può essere interessante notare che la raccolta postuma curata da Rita Giannini, e che è in gran parte dedicata proprio alla presentazione delle versioni originali di testi già pubblicati, non la riporta semplicemente perché la Giannini, che lavorava solo sulle carte lasciate dalla poetessa, non l’aveva a disposizione. In realtà il problema della restituzione dei manoscritti viene presto risolto, quando Giuliana impara a trascrivere le poesie facendone una copia con l’utilizzo della carta a carbone:

 

“Non scusarti per il ritardo. Sono io che devo farlo per la scocciatura che ti do [il riferimento è al fatto che Rina dattiloscrivesse i testi che le mandava] Quando scrivo io ho imparato a farlo con la carta carbone così non ho nessuna premura [di riaverli indietro], ci tengo solo che tu le legga e le conservi in tal caso ci potessero servire”[130].

Una volta dattiloscritti, la Macrelli proponeva interventi sui testi, indicando le correzioni a penna o a matita. A volte l’iter poteva variare nel senso che le modifiche venivano proposte direttamente sul manoscritto[131] oppure la copia dattiloscritta già ne conteneva alcune. Nella maggior parte dei casi veniva proposta la scansione strofica: in particolare venivano fatte emergere le quartine alla base di molte poesie di Giuliana, soprattutto quelle più lunghe. Ad esemplificazione di questo, qui di seguito si riporta uno stralcio del poemetto menzionato sopra, Cum fótt ch’a m so salvoè da la fòsa, prima nella trascrizione dal manoscritto, poi nella versione dattiloscritta, già scandita in strofe:

 

 

[…] Al pretaisi al n’era toenti e dè per dè i andeva avoenti ma un dè l’arvet la cartuloina proima Michel pu la Santoina i partet eun a la volta

ognieun d’lau par la su sorta. A s’era znina ma a m’arcord

e dipiasair ad quant chi è mort um s’era mes propria un magaun un’era saul per la claziuan

e perché mu mè im sfameva ma pre ben che lau im vleva a pensai um ven in ment

la miseria che spavent […][132]


[…Al pretàisi al n’era toenti e dè per dè i andeva avoenti

ma un dè l’arivét la cartuloina, proima Michel pu la Santoina

 

 

i partet éun a la volta

ogniéun d’lau par la su sorta.

 

 

°°°

A séra znina,  ma am’arcord

e’ dipiasàir ad quant chi è mort;

U m s’éra mèss própria un magàun. U n’éra saul per la claziuàn

 

 

e perché mu mè i m sfaméva, ma pre bén che làu i m vléva. A  pensoèi, u m vén in ament

la miséria, che spavent![133]

 

 

Oltre all’intervento sulla divisione strofica, viene migliorata la resa grafica del dialetto (con segnalazione della “e” aperta o chiusa ed uniformazione nella grafia dei dittonghi) ed inserita la punteggiatura, quasi assente nell’originale, mentre tre cerchietti individuano una ulteriore scansione del testo in sezioni distinte. Così trascritto, il componimento ritorna nelle mani dell’autrice[134], che apporta poi una modifica, accolta nella versione pubblicata: a fianco dei primi due versi qui citati ne compaiono altri due manoscritti (la calligrafia della Rocchi è ben riconoscibile) : “i puret a doil a què /i andeva avoenti dè per dè”. Ed ecco l’organizzazione definitiva di questo passo, come appare a stampa:


[…] (i puret a doil a què

i andeva avoenti dè per dè )

 

 

Ma un dè l’arivétt la cartuloina, proima Michel pu la Santoina

i partet eun a la volta

ognieun d’lau par la su sorta.

 

 

(E’ mi magàun)

A séra znina,  ma am’arcord

e’ dipiasàir ad quant chi è mort; um s’éra mèss própria un magàun. un’éra saul per la claziuàn

 

 

e perché mu mè i m sfaméva, ma pre bén che làu i m vléva. A  pensoèi, u m vén in ament

la miséria,  che spavént!.[…][135]

 

 

 

 

 

 

La prima quartina della versione dattiloscritta è stata smembrata, i primi due versi sostituiti e presentati come un inciso tra parentesi. I due versi restanti sono andati poi a comporre una nuova quartina con il distico che seguiva. Una ulteriore parentesi riporta il titolo che introduce a una nuova sezione del poemetto: un’aggiunta successiva nel punto in cui la Macrelli nel dattiloscritto aveva indicato la separazione in sezioni. Che la scansione strofica dei materiali sia stata opera sua è fuori di dubbio: gli originali manoscritti, laddove reperibili, non sono mai divisi in strofe, segno evidente che questa pressi era estranea alla cultura e sensibilità poetica di Giuliana. E di nuovo qui torna pertinente l’accostamento a Villa e alle zirudèle, strutturate sì sulla rima, ma non sulla strofa[136]. La curatrice invece riteneva opportuno


intervenire su questo aspetto della struttura poetica al fine di valorizzare i testi e rendere l’amica più consapevole delle proprie potenzialità:

 

“forse battendo a macchina (di mia iniziativa) le cose che mi spediva in visione, posso averla resa più consapevole di forme poetiche – p.es. nette quartine – che lei usava quasi inconsapevolmente.”[137]

 

 

In realtà però l’analisi dei documenti rivela che spesso gli interventi sono stati di tipo più sostanziale ed hanno riguardato l’organizzazione interna dei versi, il taglio e lo spostamento di parti di testo, fino al vero e proprio smembramento di alcuni componimenti, pubblicati a stralci e come poesie distinte. In considerazione del fatto che i materiali, sia autografi che dattiloscritti, passavano dalla mani della poetessa a quelle di Rina e viceversa secondo le modalità sopra descritte, non è sempre facile stabilire a chi delle due siano da attribuire le molte modifiche riscontrate, e spesso indicate nelle bozze sotto forma di segni di espunzione, frecce o cancellature ecc.

Un testo che ben si presta a mostrare questi interventi per così dire “di secondo livello” è sicuramente E’ lavadéur vèc, soprattutto per quando riguarda la prima parte, che qui di seguito si riporta prima nella versione manoscritta inedita, poi in quella a stampa per il confronto. Il manoscritto presenta segni di correzioni indicati a matita che si è cercato di mettere in evidenza nella trascrizione attraverso la sottolineatura delle parti interessate:

 

Quant volti da burdela a iò lavoe

dop chi l’ha guast quant volti a l’ho insugne

l’era una vasca granda fonda e longa

te mez una muraia lal divideva

 


5              da sponda a sponda

D’un coent toti insen u si laveva

da chelt duvè che l’aqua l’era cera u si saqueva.

Ste vascaun l’era un po’ sota

10              e prandoe zò us paseva d’una scoela laugra e rota

dal poerti un salgoe a scoina ad brecc e sculeva l’aqua zò t’una cuneta

e quand us turzeva i pan

15              questa l’andeva sota

D’una poerta saul u i era un purticoed riservoed mal lavandoeri

ac-se quant e piuveva al cosi agliera seri, me squert s’un sugamoen sal spali

20              e un fazulet lighed a brèta al laveva tot cal doni

piò svelti d’una saièta.

E sabat pu sta vasca i la sgumbreva e Richin sla su scoela zò l’andeva

25              s’una garnoeda e feva pulizea

e tota cla rubaza u la buteva vea […][138]

 

 

Ecco la descrizione più dettagliata dei segni di correzione riportati sul manoscritto che si sono poi tradotti nella nuova versione del testo così come risulta a stampa: la parte finale del secondo verso (v.2 “a l’ho insugne”) è sottolineata ed indicata con una freccia; il v.15 “questa l’andeva sota” è cancellato con una riga e sopra la parola “questa” è scritta la parola “acqua”; nel v.16 “D’una poerta saul u i era un purticoed” la parola “saul” è cerchiata e barrata con un segno a croce; più sotto le parole “ fazulet lighed a brèta (v.20) sono sottolineate e l’ultima cerchiata; infine gli ultimi quattro versi sono barrati con un chiaro segno di espunzione. Questa la versione finale pubblicata:

 

 


 

 

Quant vólti da burdela a i ò lavoé! Dòp chi l’à guast

quant vólti a l’ò insugné…

 

 

L’éra una vasca granda, fònda e lònga;

5

te mèz, una muraia

la l dividéva da spònda a spònda;

d’un coènt, toti insén u s’i lavéva,

da cl’oèlt, duvè che l’aqua l’éra cèra,

u s’i saquéva.

10

Ste vascàun l’éra un pó sòta

e pr’andoè zò u s paséva d’una scoéla

làugra e ròta.

 

Dal poèrti un salgoé a scóina ad brecc

e’ sculéva l’aqua zò t’una cunèta;

15

quand u s turzéva i pan

l’aqua l’andéva a brèta.

E d’una poèrta u i éra un purticoèd

ma l’éra riservoèd mal lavandoèri

acsé quant e’ piuvéva

20

al cósi agl éra séri.

 

 

Me squert,

s’un sugamoèn sal spali

e un fazulèt lighéd a brèta al lavéva, tót cal dòni,

25              piò svélti ‘d na saièta.[139] […]

 

Anche su questo brano vengono prima di tutto apportate correzioni sulla resa grafica della sintassi e fonetica del dialetto, che era decisamente approssimativa nel manoscritto: ad esempio alcuni gruppi sintattici erano resi con un’unica parola, come “iò” (v.1, “ci ho”), “chelt” (v.7, “quell’altro”), prandoe” (v.10, “per andare”); inoltre, come già evidenziato per il testo precedente, mancavano molti accenti e la punteggiatura, poi inseriti nella versione corretta per la stampa. Viene effettuata la scansione strofica, e
seguono poi interventi sulla struttura interna dei versi: il v.2 “dop chi l’ha guast quant volti a l’ho insugne” viene separato in due parti ed insieme al primo va a formare la strofa iniziale della nuova stesura; i vv. 4-5 del manoscritto sono riorganizzati a costituire i vv. 5-6 della versione finale (“te mèz, una muraia/la l dividéva da spònda a spònda”), probabilmente secondo un criterio di razionalizzazione della scansione dei versi rispetto alla sintassi, od in base a considerazioni di tipo metrico (dalla sequenza di endecasillado ipermetro/ quinario si passa a settenario/endecasillabo ipometro). Il v. 15 è completamente variato: “questa l’andeva sota” diventa “l’aqua l’ andéva a brèta” , modifica che comporta anche un cambio di senso: dalla semplice costatazione che l’acqua (“questa”) scendeva sotto (“t’una cunèta”) si passa ad un espressione idiomatica che rende l’idea dell’acqua che correva via forte ed in grande quantità. Ma forse quello che si è cercato di fare qui con l’introduzione di questa variante è stato creare un gioco di parole con il termine brèta usato più avanti nel testo (v.20 del manoscritto) nel senso letterale di “berretta”; infine al verso successivo (v.17 della versione definitiva) viene eliminato il termine “saul”, probabilmente per il suo essere pleonastico, mentre per preservare la regolarità metrica è aggiunta all’ inizio la congiunzione “e”. Se si eccettua l’intervento al v. 15, non si tratta di vere e proprie modifiche sostanziali, solo di tentativi di riorganizzazione del testo dettati da considerazioni di tipo metrico o legate alla volontà di dare una migliore struttura al discorso poetico. Difficile però definire in tal modo la soppressione degli ultimi quattro versi della porzione di testo qui considerata. In questo caso penso che lo scopo sia stato quello di eliminare il riferimento ad un personaggio estraneo (l’addetto alla pulizia del lavatoio) rispetto al gruppo delle lavandaie, per mantenere il componimento nel suo insieme coerentemente focalizzato su di loro e sul loro lavoro. Se si considera che proprio questa poesia in particolare diventerà una delle più apprezzate dalla stampa femminista, proprio per il suo essere un racconto della fatica delle
donne, il taglio di questi versi riferiti ad altro, al lavoro di un uomo, è stato funzionale a far risaltare meglio questo aspetto.

Un altro testo che è andato incontro ad un taglio significativo nel passaggio dall’originale manoscritto (tuttora inedito) alla versione a stampa è stato proprio I pézz de tloèr dla mi nòna di cui si parlava sopra, che dai ventidue versi dell’autografo viene ridotto a quindici, e in questa nuova versione pubblicato. Ecco in due testi in sequenza:

 

Ho trov un laigal d’canva

t’una casa

ho fat un bel curnec

ma la mi ròca

5

ho tolt un feus e pu a l’ho fileda

Le stoe cmè avai la frosta

e no e caval

un gné piò nient dl’artigianoed

che l’era dla mi nona

10

Si tloer ià fat i pidistal mal bòti

i sobi al piencli e al casi

pre fraunt i li ha brusedi

si lezz ià fat al cordi per i sac

Sla dreugla ià zughe tot i burdell

15

e me strazoer ià doe enca i tandecc

u i è arvoenz saul

e nasp e rudal e un dvanadeur

che a iò afide mal moeni d’un pitaur

perché l’è musicesta

20

intoent che guoida e pnel

a so che tla su ment

ui pasa un ritornel[140]

 

 

 

ò tróv un làigal ad canva t’una casa ò fat un bél curnèc ma la mi ròca

ò tolt un feus e pu a l’ho fileda…

le stoé cmè avài la frosta e no e’ caval.


 

5              Un gn’é piò niént dl’artigianoed che l’éra dla mi nòna.

 

 

Si tloèr i a fat i pidistàl mal bòti, e’ sóbi, al pièncli e al casi

pre fràunt i li ha brusédi,

10              si lézz i a fat al córdi per i sac,

sla dréugla i a zughe tot i burdéll

e me strazoèr i a doè oénca i tandécc.

 

 

U i è arvoènz sàul è nasp un dvanadéur

15              e e’ rùdal[141]

 

 

La trascrizione del manoscritto di nuovo evidenzia i limiti della scrittura della Rocchi, tutti ascrivibili alla sua bassa scolarizzazione: l’assenza di punteggiatura, di divisione strofica e una trasposizione grafica del dialetto molto approssimativa ed oscillante: si noti qui ad esempio il nesso soggetto – verbo “i a” (essi hanno) reso in un'unica parola “” (vv. 10, 12- 15) o la mancanza dell’accento in finale di parole tronche per cui abbiamo stoe”, “zughe”,“afide”, a cui però si affiancano “gnè” e “perché correttamente accentati (vv. 8 e 19). La versione riveduta per la pubblicazione, oltre alla normalizzazione di questi aspetti, nella prima parte presenta una vera e propria riorganizzazione interna della scansione in versi: dai primi sette di varia lunghezza del manoscritto (da “Ho trov un laigal d’canva” a e no e caval”) viene ricostruita una quartina di endecasillabi; la sezione centrale è ristrutturata in un distico ( i vv. 5-6 “Un gn’é piò niént dl’artigianoed/che l’era dla mi nòna.”) che rappresenta una sorta di introduzione alla strofa di sei versi che segue e che elenca le varie parti del telaio della nonna e la loro successiva destinazione. Anche qui l’intervento è limitato ad una riorganizzazione del testo poetico secondo criteri di


regolarizzazione metrica (la prima quartina) e razionalizzazione della struttura strofica sulla base del contenuto, già evidenziati a proposito del componimento precedentemente analizzato. L’operazione compiuta sulla parte finale invece è più invasiva: vengono espunti ben cinque versi, cosicché la metafora conclusiva del pittore-musicista scompare, mentre è conservato solo il riferimento ai pezzi del telaio superstiti, con i puntini di sospensione ad alludere ad una possibile continuazione del discorso. L’impatto sul senso complessivo del componimento è piuttosto forte: mentre nella versione pubblicata il discorso poetico resta compreso in una dimensione realista, seppure filtrata dal ricordo, la chiusa originalmente pensata dall’autrice lo proiettava su un piano diverso, metaforico, con l’evocazione di una seconda vita per i pezzi superstiti, preziosi reperti di un mondo passato che la poetessa (voce narrante) affida alle mani dell’artista perché ne tragga ispirazione. Una metafora che potrebbe anche essere letta in chiave di riflessione sulla creazione artistica, e dunque poetica, che sa nutrirsi di piccoli oggetti poveri, ma vissuti e imbevuti di memoria. Nella redazione definitiva sembra si sia preferito preservare una sorta di compattezza e coerenza interna al testo, in questo caso rispetto ad piano del realismo, e nell’omettere la parte finale si è mantenuto il contenuto del componimento focalizzato esclusivamente sugli usi concreti dei pezzi del telaio, e dunque sulle necessità materiali del mondo contadino. Del resto una delle caratteristiche salienti di questo testo è proprio l’uso di un linguaggio estremamente concreto e preciso, termini tecnici legati all’arte antica della tessitura artigianale (làigal, curnèc, ròca, sòbi, pièncli, lézz, dréugla, nasp, dvanadéur, rudal), ostici per la maggior parte dei lettori, ma che denotano da parte dell’autrice una conoscenza del patrimonio culturale e linguistico dialettale davvero straordinaria.

E non a caso l’aspetto su cui sembra che la Macrelli non intervenisse nel suo lavoro di “risistemazione” dei testi di Giuliana è proprio quello linguistico di scelta dei termini e delle forme più appropriate, consapevole com’era del
fatto che la poetessa avesse una competenza decisamente superiore alla sua in materia, come osserva nell’introduzione a La vòita d’una dòna:

 

 

“Il dialetto, seconda lingua degli altri poeti dialettali di Santarcangelo, per Giuliana è la prima lingua e lei lo usa, rispetto a loro, con autorità assoluta. Giuliana è per eccellenza una di quei dialettofoni dei quali Anna Maria Mozzoni nel 1876, mentre lottava per la riforma delle scuole rurali, scriveva che parlavano il dialetto grammaticalmente al pari di un letterato.”[142]

 

 

 

Della straordinaria padronanza del dialetto da parte di Giuliana era ben consapevole Nino Pedretti, che nella nota a chiusura della sua raccolta Al Vòusi ricorda come solo lei tra i poeti dialettali di Santarcangelo fosse ancora in grado di usare in maniera appropriata certi dittonghi, ormai in fase di spegnimento per la maggior parte dei parlanti, e non più recepiti nemmeno dalla scrittura di un maestro come Guerra: “Altri dittonghi […] non sono registrati neanche da Guerra che come me scrive, o scriverebbe malèdi (malate) invece di maloèdi come scrive Giuliana Rocchi che ci offre l’esempio di un dialetto estremamente ricco e sonoro.”[143]

 

 

 

Rina mette dunque a disposizione le sue competenze per dare una buona resa grafica al dialetto della Rocchi, ma non interviene nelle scelte linguistiche, anzi talvolta sarà costretta a chiedere delucidazioni circa il significato di termini dialettali per lei incomprensibili. Un bell’esempio di questo ci riporta al componimento “Cum fótt ch’a m so salvoè da la fòsa”, di cui si è
analizzato l’intervento sulla strutturazione strofica. Nella versione dattiloscritta che la curatrice invia alla poetessa compare un verso con spaziatura che indica la mancanza di una parola:

 

[…] U i dèva l’oli miniroèl

e do renghi e rest e’ soèl[…][144]

 

 

Probabilmente l’invio del dattiloscritto era accompagnato da una lettera, che non è però rintracciabile negli archivi, in cui si chiedeva la spiegazione del termine mancante, e non solo di quello se nella successiva lettera di Giuliana questa, tra le altre cose, le scrive:

 

La parola che non hai capito è lumbardun [sottolineato nell’originale], il dialetto per lo stoccafisso e la saba è un ristretto di mosto bollito tante ore.”[145]

 

 

Con la precisazione dell’autrice il testo appare poi correttamente a stampa:

 

[…] U i dèva l’oli miniroèl

e lumbardàun, do rénghi e rest e’ soèl […][146]

 

 

Mentre per i testi fin qui considerati l’analisi dei documenti consente di identificare in maniera piuttosto chiara gli interventi di modifica intercorsi prima di arrivare alla versione definitiva poi pubblicata, esiste almeno un esempio interessante di quanto possa essere difficile la ricostruzione anche sommaria, da un punto di vista filologico, del complesso iter che ha portato i
foglietti volanti di Giuliana, le sue coèrti pérsi a diventare le poesie che oggi tutti possiamo leggere. Mi riferisco al componimento E’ dè di murt, dedicato la ricordo di due compagni uccisi in guerra, di cui Rina parla con l’autrice in una minuta del 1975:

 

“ Cara Giuliana, aspetto altra roba sostanziosa. Stavolta, per ‘E’ dè di murt’ non ho potuto fare granché. Sento che non è ancora a posto, e che prima o poi troverai tu quel piccolo tocco che sistema tutto.”[147]

 

Tra le carte del Fondo Rocchi sono conservate ben tre versioni differenti di questo testo, una autografa, due dattiloscritte (che per comodità indicherò rispettivamente con le sigle ms., ds.1 e ds.2) nessuna delle quali identica a quella infine pubblicata. Tuttavia, mentre il ms. e uno dei dattiloscritti (ds.1) riportano una variante del testo decisamente più breve e diversa da quella finale, e sono quindi verosimilmente ascrivibili ad una prima fase di elaborazione, l’altro dattiloscritto (ds.2) mostra una versione a questi successiva, più lunga e vicina a quella definitiva. Le affermazioni riportate dalla minuta lasciano capire che la prima stesura del componimento non convincesse la Macrelli, che forse aveva provato a “sistemare” il testo, ma per sua stessa ammissione non aveva potuto fare granché, e sollecitava un nuovo apporto di Giuliana con la sua sensibilità poetica. A questa fase della gestazione del componimento appartengono a mio avviso le due varianti più brevi (ms. e ds.1), a cominciare dal manoscritto qui riportato:

 

E dè di murt

 

 

Sla tomba ad du cumpagn mazoed zinquoent’an fa

a vleva met un fiaur un gnera e post

5              e ò det na rechia[148]


77 Sullo stesso foglio compaiono già alcune proposte di modifica, manoscritte con penna e calligrafia differenti dal resto del testo: al v. 4 è aggiunta la parola “piò” (“un gnera piò post”); al v.5 è inserito il pronome “me” (“e me ò det na rechia”), infine, sotto al testo qui riportato compare un nuovo verso (“mo i s’era arcurdè tott”) che una freccia indica da inserire dopo il v.3. L’uso di una penna ed una calligrafia diverse lascia pensare si tratti dei primi tentativi di “correzione” da parte di Rina. In particolare, il verso aggiunto mira a rendere più chiaro il senso della poesia: sulla tomba dei due compagni uccisi non c’era più posto per i fiori della poetessa perché tutti si erano già ricordati di loro. Il ds.1 ci offre un’altra variante del componimento:

 

E dè di mort

 

 

Sla tomba ad du cumpagn mazoed zinquant’an fa

a vleva met un fiour perché i n’a piò niseun

5                            ma à no truvoè e post

e ò det na Rechia [149]

 

Rispetto alle modifiche proposte nel manoscritto qui compare un altro verso (“perché i n’a piò niseun”), sebbene collocato nella stessa posizione (tra “a vleva met un fiour” e “ma à no truvoè post”) che dà al testo nel suo insieme ancora una altro significato: la poetessa voleva portare un fiore sulla tomba dei due uccisi perché sapeva che non avevano più nessuno al mondo, invece non ha trovato posto. In questo caso davvero non è possibile stabilire a chi si debba attribuire questa nuova variante: il testo è dattiloscritto e l’operazione di battitura a macchina sappiamo veniva compiuta da Rina, perciò è probabile che l’idea del nuovo verso sia sua, ma si può pure ipotizzare che questa
avesse in mano un’altra versione autografa di Giuliana da cui attingere, diversa rispetto a quella (riportata sopra) che io ho rintracciato tra le carte della poetessa in biblioteca. La cosa certa è che l’iter di scrittura di questo componimento non finisce qui. Partendo molto probabilmente dall’invito che Rina le rivolge nella lettera, la Rocchi di fatto riscrive il testo, in una forma più lunga e che unifica i diversi significati fin qui individuati. L’autografo di questa nuova versione non è a mia disposizione, ma l’altro dattiloscritto (ds.2) di cui si parla sopra, e che qui di seguito si riporta, deve esserne la trascrizione:

 

E’ dè di murt

 

 

Sla tomba ad Braschi e d’ Montvécc

i du cumpagn mazoed zinquent’an fa ò dett una rechia.

A vleva mètt un fiaur

5              mo a n’ò truvé e’ post

A n’ò mai vest niséun di su parént e a pens ch’in n’apa piò

però soura al su tombi

u i era una strasoin ‘d fieur.[150]

 

Come si può vedere, si tratta di una testo notevolmente diverso rispetto ai precedenti. Ai due compagni viene dato un nome (“Braschi” e “Montvecc”, due noti partigiani di Santarcangelo), la poetessa ritiene che non abbiano più parenti perché non ne ha mai visti al cimitero, ma nonostante questo nel giorno dei morti sulla loro tomba ci sono così tanti fiori che non c’è posto per il suo e può dire solo una preghiera. Così riformulata la poesia sembra più completa e coerente, ma sul dattiloscritto sono proposti a matita di nuovo alcuni cambiamenti: il v.3 viene espunto e riportato manoscritto dopo l’ultimo verso; al v.5 le parole “a n’ò truvé” sono cancellate con una riga e sostituite
da “un gn’era”; infine i vv. 6 e 7 sono messi tra parentesi. Il ds.2 così rivisto diventa finalmente la base per la versione definitiva come compare ne La vòita d’una dòna, seppure anche quest’ultimo passaggio non sia stato privo di nuovi apporti:

 

E’ dè di murt

 

 

Sla tomba ad Braschi e d’ Montvécc

i du cumpagn mazoed zinquent’an fa a vleva mètt un fiaur

 

 

(a n’ò mai vest niséun di su parént

5              e a pens ch’in n’apa piò)

 

 

mo u n gn’era e’ pòst

u i era una strasóin ‘d fieur.

E ò dett una rechia.[151]

 

Rispetto all’ultima versione (ds. 2) sono comparse le strofe, è sparito un verso (“però soura al su tombi”) e altri (“mo u n gn’era e’ pòst”, “E ò dett una rechia”) sono stati spostati: il solito lavoro di riorganizzazione già altrove evidenziato. E’ possibile che questo appena analizzato costituisca un po’ un esempio limite del complesso lavoro di revisione cui il materiale poetico di Giuliana, prodotto inizialmente in maniera spontanea e spesso “destrutturata”, è stato sottoposto prima di arrivare ad essere pubblicato. Ma gli interventi ci sono stati e non hanno riguardato soltanto i quattro manoscritti tuttora inediti (relativamente alla versione del testo che riportano) che ho avuto l’opportunità di analizzare. La gran parte di questi emerge facilmente confrontando le poesie che Rita Giannini ha pubblicato nella raccolta postuma da lei curata nella loro stesura originaria, spesso molto diversa da quella
riportata nelle due raccolte precedenti. Relativamente ai componimenti contenuti ne La vòita d’una dòna, la Giannini ha ripresentato in altra versione: E’ ben, U n gn’è piò, La bataia dla corderèa, E’ mi viaz a Roma e La zitela. Il primo è una variante di uno dei testi più famosi di Giuliana, inciso tra l’altro sulla sua lapide e dedicato al ricordo del grande amore della sua vita, pubblicato nella raccolta curata dalla Macrelli con il titolo E’ ben dabòn. Minima ma significativa la differenza, che consiste essenzialmente nell’aggiunta di un solo verso:

E’ bén

 

E’ bén dabòn

quèll che u t fa patòi

quèll ch’u t’invurness

ch’u t tò la ptòita, e’ sonn

ch’u t lòugra dè par dè la vòita

ch’u t fa bramoè la morta

e’ pasa snò una vólta[152]

 

 

 

E’ bén dabòn

 

Quèll ch’u t’invurness

ch’u t tò e’ repòir

la ptòita, e’ sonn

ch’u t lòugra

dè par dè la vòita

ch’u t fa

bramoè la morta

arcòrti bèn

e’ pasa snò una vólta[153]


In questo caso non c’è dubbio che la seconda versione, che però ricordiamo è stata la prima ad essere pubblicata, è certamente più efficace con l’aggiunta di due sole parole “arcòrti bèn” che danno alla poesia quel tono di monito solenne che ne rafforza il messaggio. Riguardo a La bataia dla corderèa si è già ricordato come questo sia stato il primo testo della Rocchi ad avere diffusione pubblica, composto e distribuito nel 1964 in occasione dell’occupazione da parte degli operai della corderia di Santarcangelo che stava per essere chiusa. Ne La vòita d’una dòna era apparso poi con il titolo E’ paradòis, riorganizzato in alcune parti con spostamenti di versi, ma soprattutto decurtato della quartina finale, un appello diretto ai cittadini perché appoggiassero quella battaglia:

 

[…] A fèmm apèl mi zitadòin

che ma néun i s staga avsóin

e a sperémm sa tótt l’uniòun

ad cunvòinz e’ nòst padròun.[154]

 

Il taglio in questo caso ha cancellato quella che era stata la funzione contingente del testo, cioè appunto il chiamare in causa la cittadinanza di Santarcangelo a sostegno della lotta operaia, facendo così passare in secondo piano il suo carattere occasionale per mettere in risalto l’aspetto di denuncia della prepotenza dei padroni, che in quanto tale trascendeva l’episodio specifico. In questa operazione può essere individuato un ulteriore criterio, oltre a quelli già discussi sopra, in base al quale i testi di Giuliana sono stati rivisti prima di entrare a far parte della raccolta: il tentativo di fare passare in secondo piano questa dimensione occasionale della sua poesia per dare al

messaggio poetico una valenza che oltrepassasse le situazioni contingenti ed all’opera nel suo insieme un respiro di esemplarità. Un aspetto caratteristico del modo di comporre della Rocchi era infatti la tendenza a fare scaturire lo spunto, l’ispirazione poetica da eventi, circostanze precise, storicamente collocabili, di cui era stata partecipe o testimone: “Le mie non sono poesie, ma storie di vita vissute” amava dire. Un ulteriore esempio di questa modalità compositiva e del successivo intervento per “decontestualizzare” il materiale prodotto prima della pubblicazione è una poesia che scrive nel 1974 in riferimento al tema del divorzio. Tra le sue carte è conservata la prima stesura, originata dalla lettura di un articolo di giornale apparso sul “Giorno” del 18 aprile 1974, allegato al dattiloscritto del componimento, riguardante un curioso fatto di cronaca: una giovane donna aveva piantato il marito per fuggire con il prete del paese. L’aspetto tragicomico della situazione era già nel titolo: “Denuncia di un cantoniere di Nocera Umbra-il parroco gli ha ‘rubato’ la moglie” . Prendendo spunto da questo episodio, che di certo non era sfuggito all’attenzione di Giuliana, sempre pronta a cogliere il lato ironico della vita, la poetessa scrive una “meditazione” in versi sul tema del divorzio:

 

 

 

E’ divorzi

 

 

A n capèss perché i ne vo’ Las chi faza quel ch’i po’. A cridoi d’ès religèus

ma però a si tot cunfèus

5              (a n savoi sl’è ben o moèl)

a n savoi sl’è sè sl’è no

e a ‘spitè quèll ch’e’ fa i piò. Se déu i s vo bén, l’è bén acsè, però si n va, ta i vu mandoè?

10              U v pis piò i concuboin sa tre testi e du cusoin.


Csèl ch’i vo sti clericoèl

che ènc ma làu u i pis ‘d fè moèl ènca làu i a ciap la sborgna

15              i a capoi c’la i pis la gnorgna.

Ho lizéu propria sti dè

un ènt fat ch’e’ dois acsè:

u i è Don Lino ad quèl ‘d Nocera u n gn’importa si i fa guèra

20              sla su Alfasud dri la muraia l’è rivat e la ciàp la quaia l’ha rapoi la su Giovanna

basta un cuore e una capanna. E che pori maridaz

25              l’arvoènz alà comè un cazaz[155].

 

 

Questa prima versione del testo è a tutti gli effetti una zirudèla, sia dal punto di vista stilistico che dei contenuti: c’è il riferimento diretto ad un fatto di cronaca (vv. 16-22), l’uso di un linguaggio tendenzialmente osceno (“la gnorgna” al v.15 è allusione sessuale forte) e di un tono al limite del sarcasmo (vv. 21, 24, 25), con una valenza politica ed anticlericale. La poesia non viene inclusa nella prima raccolta[156], ma pubblicata molti anni dopo (nel 1986) ne La Madòna di Garzèun in una nuova variante fortemente abbreviata:

E’ divorzi

 

 

A n capèss perché i ne vo’

las chi faza quel ch’i po’.

Se déu i s vo bén, l’è bén acsè, però si n va, ta i vu mandoè?

5              U v pis piò i concuboin

sa tre testi e du cusoin?[157]


 

Da una zirudèla, poesia d’occasione, si è passati ad un breve, efficace epigramma. Il componimento è stato completamente decontestualizzato, per diventare una riflessione ironica sulla necessità di ammettere il divorzio, ed in quanto tale sempre attuale. Non c’è dubbio che i versi conservati brillino per la loro forza icastica: in particolare il v. 4, costruito sul gioco di parole tra va” e “mandoè” e l’immagine finale delle “tre teste per due cuscini” a significare i disagi del manage a trois cui la separazione è senz’altro da preferire.

Per capire appieno i criteri che hanno guidato la preparazione della raccolta, un altro aspetto interessante da valutare sono i componimenti che la curatrice ha deciso di scartare. Che la decisione in merito sia stata sostanzialmente sua lo conferma l’iscrizione sulla busta, conservata tra le carte del Fondo Rocchi, che contiene le bozze dattiloscritte di questi testi:

 

“Maggio 1981- poesie non incluse nel libro perché non ritenute valide per la Rina”.[158]

 

Le poesie in questione sono: Ma Tonino Guerra, scritta in occasione del seminario del 1973[159]; E’ zéntenoèri dla nascita ad Giulio Faini, composta in concomitanza con le celebrazioni che nel 1975 si tennero a Santarcangelo per ricordare il maestro[160] più altri tre testi già apparsi negli anni settanta su “Tuttosantarcangelo”, La risposta, E’ dént de giudóizi e L’artòuran a Roma che fanno riferimento a tre episodi precisi della vita dell’autrice. Due tratti accomunano questi componimenti “scartati”: il loro essere appunto “poesie d’occasione”, composte in circostanze particolari ed a queste necessariamente legate, e la loro struttura molto vicina alle satre popolari, in
pratica le stesse caratteristiche riscontrate nella prima versione de E’ divorzi, sopra analizzata. Si tratta infatti di testi relativamente lunghi (oltre i trenta versi per intenderci), costruiti sulla rima baciata, dal tono non lirico ma discorsivo e talvolta carichi di una ironia molto semplice, popolareggiante, come dimostrano questi versi scritti in risposta alla provocazione di una amica sposata che riteneva lo stato di zitella di Giuliana invidiabile rispetto al suo:

 

da La risposta

 

 

Cara Lina Acerbolina […]

Scapa fura, vén in piaza

tóirla fura la tu faza.

T’ è rasòun che e’ tu maróid

u n’à l’aria da pulóid […]

U m dispis, tci stoè sgraziéda

me a so stoèda sfortunoèda

mo a la fóin de calandoèri

t’avdiré cha a sémm a poéri. […][161]

 

A questo tema Giuliana aveva dedicato un’altra poesia, intitolata programmaticamente La zitèla, che sarebbe diventata una delle sue più popolari e richieste durante le letture pubbliche a cui fu spesso invitata negli anni a seguire, sull’onda del successo delle sue raccolte:

 

[…] e’ guai l’è che stal sgraziédi

agli è moèl considoèredi;

quand t’è scòurs d’una zitèla,

ch’la séa brótta a ch’la séa bèla,

5              s’la fóss oènca quérta d’ór,

la è vésta a malincór;

mo al savói cari al mi zénti

che a sémm dvénti indipendénti,

adès tótti a lavurémm


10

e la vóita a s guadagnémm […]

A fès al spòusi, s la va bén,

l’ è una cósa ch’la cunvén,

mo st’incòuntar un instrumént,

un vagabònd, un prepotént,

15

u n sarà mèi, s’a n si quaiéun,

a dì póra mè che pòra néun?

U i è onca quèlli che al bazòila,

al ni vréa stoè tla fóila

dal ragàzi un pó trapasi

20

e’al s dà agli ari da gradasi […]

al va véa drètti drètti,

al vò própria foè al burdlètti

mo la pèla la va zò

e te vòia a tiré so. […]

25

Se arnasémm, cumè ch’i dòis,

al spusarò e’ mi Luois;

l’éra pòch bèl, stralòc e stort

l’è apr quèll che a n l’éva tòlt

e a vói sproè che stoèlta mnèda

30

chi i la daga una cundoèda.

I dóis che quèst e’ séa un pasàgg,

che a sém aquà per un asàg…

 

Se pu u n’è la verità

a ‘rvoènz fregoèda ad qua e dlà. [162]

 

Questo componimento fu pubblicato a stralci nel libro curato dalla Macrelli, con l’omissione di alcune parti ed andò a formare due poesie distinte: A fès al spòusi, s la va bén (dal v, 11 al v.16) e Se a rturném, cumé i dois (dal v.17 al finale). La prima poesia che ne è stata ricavata sicuramente estrapola la parte più riuscita e significativa e si colloca sul piano di un’arguta riflessione in versi. Ma un testo come questo solo se letto nella sua interezza rende tutto il gusto della satra popolare, suscita divertimento ed ilarità e mette in risalto il carattere bonario dell’autrice. Aspetti questi che evidententemente si è preferito lasciare in secondo piano, come dimostrano anche le scelte relative
alle poesie scartate, per privilegiare un’ idea di poesia più vicina, almeno sul piano strutturale, ai gusti di un pubblico più colto; non a caso la maggior parte degli interventi hanno riguardato proprio la ristrutturazione del discorso poetico, alla ricerca di razionalità e regolarità sul piano delle forme e coerenza nei contenuti. Rispetto ai quali si è cercato di dare spazio ai temi più impegnati: il ricordo della miseria e delle violenze fasciste, il lavoro delle donne, la denuncia della prepotenza dei padroni, in linea con il contesto politico-culturale (le grandi lotte operaie e femministe degli anni settanta) in cui è maturata la preparazione e successiva pubblicazione della prima raccolta di Giuliana.

 

 

Se la redazione e revisione dei materiali per giungere alla compilazione della raccolta hanno richiesto molto tempo e costanti sforzi, non minori sono stati i problemi incontrati per giungere alla sua pubblicazione, che si è potuta concretizzare solo attraverso l’intervento diretto dei gruppi femministi in cui militava la Macrelli.

Il lavoro di preparazione dei materiali in vista di una possibile pubblicazione aveva mantenuto stretti i contatti tra la poetessa e l’amica Rina, nonostante la distanza fisica che le separava (l’una a Santarcangelo, l’altra a Roma), il profondo divario culturale e gli ambienti sociali del tutto diversi in cui si trovavano a vivere. Proprio questa amicizia ha portato la Rocchi ad entrare in contatto con questi ambienti che altrimenti sarebbero rimasti del tutti estranei ad una come lei, nata e vissuta nelle contrade, senza istruzione e sempre impegnata in lavori manuali.

La Rocchi, lo si è già visto, non era nuova all’impegno politico diretto. Militava nel PCI, era attiva nella locale sezione della Società Operaia di

Mutuo soccorso e soprattutto scriveva testi politicamente impegnati. Un primo avvicinamento da parte sua al movimento femminista ed alle sue istanze si era avuto nel 1974, quando a Santarcangelo giovani attivisti di sinistra avevano usato il suo poemetto A i n’ém vu sa ad quèi de vindò nella battaglia per il No al referendum sul divorzio. Il componimento, dedicato al ricordo di episodi di violenza fascista, era chiuso da versi che alludevano all’attualità: “Pu i à e’ curàgg da turnoè so?/ A i n’ém vu sa ad quèi de vindò!”, viene distribuito durante i volantinaggi della campagna elettorale, ed è l’occasione per un approfondimento dell’amicizia con Rina[163] che comincia a parlare di lei con le compagne a Roma. In particolare, per le successive vicende editoriali saranno fondamentali le figure di Vania Chiurlotto, allora direttrice di “Noi Donne”[164], la storica rivista organo dell’UDI (l’associazione delle donne vicina al PCI) e Alearda Trentini, una giovane attivista impegnata sul fronte della costruzione di una casa editrice femminista autonoma che facesse emergere “le voci sotterranee in positivo, la vitalità e la forza della donna, non più soltanto la denuncia, la rabbia o il vittimismo”, come si legge in una sua intervista rilasciata al periodico L’Europeo nel giugno del 1979[165], un progetto che sembra proprio riferibile a Giuliana, alla sua storia ed al suo lavoro poetico. La stessa Alearda riuscirà infatti a far pubblicare la prima raccolta della santarcangiolese, presso la casa editrice “Amanda” da lei creata nel 1978, e che faceva parte di una serie di iniziative editoriali simili nate all’interno dei vari gruppi femministi con scopo di creare canali alternativi, ed indipendenti attraverso cui promuovere un discorso culturale organico alle loro istanze politiche.[166] La maggior parte di questi progetti avrà vita breve,


soffocati in parte dalle difficoltà finanziarie, in parte dal declino stesso del movimento a partire dalla metà degli anni ottanta. “Amanda” pubblicherà infatti solo cinque titoli per poi cessare l’attività nel 1981[167].

Prima di arrivare al canale dell’editoria femminista però era stata presa in considerazione per la raccolta di Giuliana un’altra possibilità: pare infatti che inizialmente il progetto di ricavare un libro dai suoi “foglietti volanti” poggiasse su un impegno alla successiva pubblicazione da parte della Società operaia di mutuo soccorso di Santarcangelo, cui la poetessa era molto vicina avendovi militato fin da giovane; questo almeno stando a quanto afferma la stessa Macrelli:

 

 

“Il fatto che il primo libro di Giuliana sia stato edito per la prima volta a Roma entra un po’ in questo discorso. Da anni un famoso fabbro locale le prometteva di stamparlo a spese della Società operaia di cui era presidente; e fu per questo progetto che io curai quel tomo. Alla fine, disperandone, lo diedi all’Amanda” [168]

 

 

Tramontata dunque questa ipotesi, che doveva basarsi su accordi orali ed informali perché non ce n’è traccia nei documenti, anche epistolari, che ho potuto consultare, le fortune letterarie della Rocchi sono affidate all’iniziativa dei gruppi femministi romani. Nell’ottobre del 1979 la poetessa viene invitata a leggere le sue poesie al festival nazionale dell’Udi che si tiene al Testaccio. Un fascicolo contenente un gruppo di suoi componimenti viene distribuito tra le partecipanti, tra cui figurano i nomi più in vista della letteratura al femminile in Italia in quegli anni: Amalia Rossellini, Maria Luisa Spaziani, Dacia Maraini, Biancamaria
Frabotta. Ricorda Rina, nella minuta[169] scritta al sindaco Romeo Donati per sollecitare un contributo alla pubblicazione della raccolta, “il successo clamoroso che la poesia di Giuliana ebbe al festival”, e continua menzionando la commozione di Amalia Rossellini, figlia del martire antifascista Carlo, alla lettura di A i n’ém vu sa ad quèi de vindò. Il fascicolo, preparato dalla Macrelli, può essere visto come un’anteprima del libro: contiene undici poesie, tutte nella forma definitiva in cui verranno poi pubblicate, precedute da una breve presentazione che a sua volta richiama in sintesi i temi svolti nell’Introduzione a La vóita d’una dòna: l’infanzia di miseria e la vita di lavoro vissute dall’autrice, la passione per il racconto ereditata dal padre e la scrittura vista come forma di riscatto, l’uso di alcuni componimenti per battaglie politiche, la qualità formale degli scritti, la forza espressiva del dialetto. Non solo le poesie, ma anche la personalità ed il modo di porsi di Giuliana impressionano molto positivamente le compagne, come si deduce da questa minuta che Vania Chiurlotto le invia a margine del festival, ringraziandola di non aver richiesto alcun rimborso per la partecipazione:

 

“Ho pensato molto alla tua paura ed alla tua dolcezza. Le compagne mi hanno raccontato tutto con molta emozione, come immaginavo ti sei trovata tra amiche felici di conoscere te e la tua poesia. Non hai voluto alcun rimborso per le spese che hai incontrato […] ma come farti capire che apprezziamo il tuo gesto e che sei dei nostri?” [170]

 

Per ricambiarla della generosità Vania le regala un abbonamento gratuito a Noi Donne “cosi tutte le settimane saremo in collegamento”[171].

I materiali poetici, dopo il complesso lavoro di revisione descritto nel paragrafo precedente, sono finalmente pronti, e la popolarità di Giuliana
ormai è tale che i tempi sono maturi per la pubblicazione della raccolta. Per dare alla poetessa la sensazione di quanto concreta sia la possibilità di vedere le sue poesie, le umili satre in dialetto scritte un po’ dove le capitava, diventare un vero libro, Rina predispone un menabò, conservato accuratamente nel suo archivio. Un foglietto autografo infilato dietro la copertina ne chiarisce lo scopo:

 

 

“ L’idea di rilegare a libro le poesie non mi è nata pensando al menabò. Mi è nata per mettere il libro in testa a Giuliana”.[172]

 

 

Le difficoltà finanziarie però restano e Rina mette in moto le sue conoscenze a Santarcangelo per ottenere i finanziamenti necessari. Sollecita un intervento di suo cognato, l’allora assessore alla cultura Edoardo Zavatti, poi si risolve a scrivere al sindaco Donati, con la lettera già menzionata, in cui tra l’altro si legge:

 

 

“Caro Romeo […] non c’è bisogno che faccia io l’elogio della poesia di Giuliana, che si presenta da e che in parte conosci. Tu, Edoardo, i consiglieri, tutti quanti siete in grado meglio di me  [sottolineato nell’originale] di apprezzare l’importanza culturale,  per la storia di Santarcangelo, de La vóita d’una dòna […] In tutta onestà questo libro io lo vedo un po’ come una continuazione, per quanto mi riguarda dell’operazione ‘seminario’: una iniziativa […] che continuò nella pubblicazione degli atti e che in qualche modo ha incoraggiato, motivato, la produzione successiva di poesia a Santarcangelo, vedi Nino, Lello e anche i piccoli poeti sciolti. Prova che il momento di assunzione collettiva di un

fatto culturale diventa culla e promozione di fatti successivi.[173]

 

Nel momento in cui cerca una motivazione convincente per ottenere un contributo concreto alla realizzazione del progetto editorale sulla poesia di Giuliana, la Macrelli ritorna alle radici politiche dell’operazione di
rivalutazione del dialetto e colloca quell’esperienza alla base della fioritura poetica santarcangiolese, implicitamente assumendosene una parte del merito, da condividere con l’amministrazione comunale che aveva sostenuto le sue iniziative dalle pagine di “Tuttosantarcangelo”: la pubblicazione di una raccolta di poesia che viene un’autrice locale, una lavoratrice autodidatta senza istruzione, sarebbe la definitiva conferma del successo di tutta una politica culturale. Il Comune, insieme alla Provincia di Forlì[174], danno il loro contributo decisivo. All’interno della quarta di copertina della copia della prima edizione di La vóita d’una dòna conservata nell’Archivio Rina Macrelli, su di un foglietto manoscritto autografo si legge:

 

 

“Pubblicato grazie al pre-acquisto di molte copie da parte del Comune di Santarcangelo all’aiuto del Comune e Provincia di Forlì sollecitato da Vania Chiulotto, direttrice di ‘Noi Donne’.”[175]

 

 

Il libro finalmente esce nel marzo del 1980. Due note poste a chiusura della raccolta, la prima della Chiurlotto, l’altra dell’editrice Alearda Trentini, chiariscono il significato che questa operazione ha avuto all’interno del movimento femminista:

 

“Ci siamo impegnate in questa impresa mentre insieme - all’interno del movimento delle donne stiamo costruendo un’ipotesi politica […] Quando Rina per la prima volta prestò la sua voce perché potessi apprezzare tutta la robusta liquidità di questa lingua romagnola, che cosa fu quell’emozione? Non so se fosse già politica nel senso delle donne, di sicuro non aveva niente di letterario e di intellettualistico […] Adoperarmi per essere, a mia volta, tramite di questa emozione per altre più donne mi è sembrato naturale. In questo passaggio, che comporta il cammino dall’emozione all’operatività […] è forse la politica […] senza che si perdesse evidentemente, lo scopo al quale val la pena di dirigere una operatività: che è sempre la passione di comunicare con la gente e di cambiare insieme la storia. A me pare che molte donne si riconosceranno in questa duplice passione e troveranno in Giuliana
casalinga e lavoratrice e ora pensionata come tante, una voce che per essere la ‘loro’ non sentiamo meno nostra.”[176]

 

 

 

“Dare voce alla nostra continuità politica di donne, alla vitalità, alla forza positiva […] la storia uscita da noi, dalla nostra pelle, dalle nostre teste e negata da una cultura che nel corso del tempo ne ha accuratamente cancellato le tracce. Ma la sotterraneità del vivere delle  donne  ha  conservato  in  mille  forme,  attraverso  canali  sconosciuti  e  ignorati,  la Grande Forza di cui è capace […] Questa raccolta di poesie è il primo contributo al desiderio-ambizione di fare emergere tracce di questa cultura sotterranea. E perché si realizzi anche nel nostro produrre della continuità di cui siamo portatrici, questo piccolo

grande progetto editoriale porta il nome di mia figlia Amanda[177]

 

Vania Chiurlotto vede in Giuliana Rocchi e nella carica emozionale che la sua poesia sa suscitare uno strumento per mettere in comunicazione il movimento femminista con le donne di altri ceti ed ambienti sociali (casalinghe, lavoratrici e pensionate), nel tentativo di coinvolgerle in una ipotesi politica, genericamente formulata nel programma di “cambiare insieme la storia”; l’editrice Trentini, riprendendo i concetti già espressi nell’intervista allo “Europeo”, ricorda le finalità del suo progetto editoriale che si materializza nella pubblicazione del libro della poetessa di Santarcangelo: portare alla luce la voce delle donne, la creatività femminile, per troppo tempo soffocata dalla cultura dominante maschilista e repressiva. Quello che colpisce dall’analisi di questi documenti è il voler necessariamente attribuire all’operazione editoriale una valenza che vada al di là del semplice farsi carico di aiutare un’autrice dalle grandi capacità poetiche, ma senza mezzi, ad emergere. Anche la dimensione dell’amicizia personale, che pure abbiamo visto essere ben presente nella relazione tra le protagoniste di questa vicenda, viene considerata non sufficiente a giustificare il passaggio “dall’emozione all’operatività”, per usare le parole della Chiurlotto. Tutto viene ricondotto a motivazioni più ampie, alla dimensione politica, all’interno della quale
Giuliana, la sua storia e la sua poesia sono viste come uno strumento di lotta per la causa dell’emancipazione femminile. Un atteggiamento congruo al clima di scontro di quegli anni, che vedeva i movimenti femministi ancora fortemente impegnati nelle ultime grandi battaglie, in primis quella sull’aborto e la cosiddetta “liberazione sessuale.”

Ma quello che emerge dalle scelte di vita, dall’opera poetica e pure dalle lettere personali è la mancanza, da parte di Giuliana, di una vera adesione alle istanze più tipiche del femminismo militante, a cominciare dalla lotta di genere. Alla morte della sorella Pina che viveva a Gambettola, la poetessa si sente in dovere di farsi carico della cura del cognato e dei tre nipoti maschi, abbracciando volontariamente il più tradizionale ruolo che la cultura contadina (e “maschilista”) assegnava alle donne, e senza la minima esitazione se nel biglietto scritto a Rina all’indomani del funerale della sorella si legge:

 

“Rina cara, non trovo le parole per descriverti il mio stato, so solo che adesso quattro uomini hanno bisogno di me”[178].

 

Un impegno portato avanti per anni con molta abnegazione, e tale da distrarla anche dalla sua passione per la poesia come dichiarerà in una intervista rilasciata dieci anni dopo, nel 1990:

 

“non scrivo perché non ho più tempo, visto che sono tutto il giorno a Gambettola ad aiutare i miei parenti e la sera torno a casa stanca ammazzata.”[179]

 

Anche la circostanza di non essersi mai sposata non sembra avere niente a che fare con una scelta ideologica di rifiuto della tutela maschile ma, per sua
stessa ammissione è stata la conseguenza di un amore infelice[180] e del fatto di non aver poi trovato l’uomo giusto, come ironizza nei versi dedicati all’argomento:

 

Da  U s fa nòta ti cantéun

 

 

[…] Quand a séra una burdlaza, oènch s’a n’ sèra toènta blaza, ch’u m’avnéss un azidént,

a i avéva i pretendént.

 

 

Mo èun u n’era da paràz, c’oèlt u n’era un gran ragaz se chi béll i nu m guardéva ma chi brótt a n’i parléva.

 

 

Basta, scoèrtni sèt o òt,

a m so trova tótt d’un bòt ch’u s fa nóta ti cantéun

e u nu n pasa piò niséun.[181]

 

Può essere interessante notare che questa poesia, originariamente intitolata E’ mi viaz a Roma[182] fa parte di quelle pubblicate in versione molto ridotta rispetto alla stesura originale. Le strofe conservate non sono altro che una sorta di introduzione al lungo racconto in versi che seguiva dell’avventura romana di Giuliana in cerca di marito. Racconto che non ha trovato spazio nelle pagine della prima raccolta, per le ragioni già ricordate sopra: la volontà di fare emergere i componimenti più impegnati, togliendo spazio ai contenuti più leggeri ed alle forme poetiche più vicine ai gusti popolari.


Appena uscito, con il titolo emblematico di La vòita d’una dòna, il libro viene inizialmente distribuito attraverso il canale delle librerie gestite dai circoli dell’UDI. Ha quindi una diffusione limitata, ma alla sua successiva notorietà contribuisce in maniera determinante il battage promozionale della stampa femminista. A cominciare naturalmente da “Noi Donne” che nel numero di aprile 1980 pubblica un’ampia recensione a firma di Stefania Giorgi, con alcune foto della “lavandaie” della poesia E’ lavadèur vèc, stralci di lettere in cui l’autrice parla della sua vita di lavoro, insieme ad una breve intervista a Rina che riassume le tappe del loro incontro. Il testo dell’articolo richiama le tematiche già individuate nell’interesse dei circoli femministi verso Giuliana e il suo lavoro poetico, il suo essere emblema della creatività femminile che sa manifestarsi nelle condizioni più difficili, e che è compito del movimento delle donne fare finalmente emergere:

 

“in questi versi scritti rubando tempo al cucire, allo spazzare, al lavorare duramente in fabbrica […] c’è lo stesso amore che trovo nel guardare la vita di Ermanna Chiozzi, mondina ferrarese, dipinta sulle lenzuola del suo corredo; nel leggere i ricordi di guerra di Marcellina Masiero o i racconti della risaia di Alves Neri Magnani […] Sta a noi, tutte, riportare alla luce, far circolare i ricordi di altre generazioni di donne […] racconti negati ad altre donne per paura, timidezza. [183]

 

 

Un altro giornale di area, “Quotidiano donna” dedica alla raccolta una recensione di Adele Faccio, la nota attivista radicale finita pure in carcere per le sue battaglie a favore della legalizzazione dell’aborto[184]. Anche qui si loda l’opera di Giuliana ponendo l’accento sulla necessità di costruire una solidarietà al femminile, basata sulla condivisione di un vissuto comune (cfr. alla tesi di Vania Chiurlotto nella nota citata sopra):


 

“Una donna di Romagna […] scrive della sua vita come di tutte le vite delle donne contadine, proletarie, lavoratrici. Tanta spiritosa ironia e un velo di sottile commozione che conferisce spessore allo spaccato della storia di una, di tutte ciascuna inconfondibile e tutte sorelle – le donne.[185]

 

 

Lo stesso quotidiano aveva già parlato della Rocchi in un’inchiesta riguardante il rapporto tra le donne e l’acqua, collegata alla circostanza di una rivolta popolare scoppiata a Pelagonia in provincia di Catania nell’aprile del 1980 per reclamare il diritto a questo bene fondamentale. Di nuovo viene tirata in ballo la poesia da lei scritta per ricordare il vecchio lavatoio che l’amministrazione comunale di Santarcangelo aveva deciso di smantellare, citata nella traduzione della Macrelli:

 

 

 

Quante volte da bambina ci ho lavato!

dopo che l’hanno sfatto

quante volte l’ho sognato…

Era una vasca grande, lunga e fonda […]

Da un lato tutte insieme si lavava,

dall’altro, dove l’acqua era chiara,

si risciacquava. […]

Io me le vedo ancora tutte insieme…

A volte litigavano

ma si volevano bene.

Altre volte cantavano poi tutte contente

Di loro non ho più che un bel ricordo[…]

E non c’è più la vasca. Demolita.

Che boiata fu quella, era bellissima.[186]

 

Un testo questo molto amato dalle femministe per il suo essere un inno alla solidarietà tra donne ed un invito a conservare la memoria delle loro fatiche,
contro le facili rimozioni. Naturalmente qui il suo valore poetico non è nemmeno preso in considerazione, come la citazione della sola versione in italiano rivela, unita alla scarsa attenzione per la scansione dei versi (“Quante volte da bambina ci ho lavato!” e “altre volte cantavano poi tutte contente”sono riportati con un’emjambement che non esiste nel testo). Le recensioni della stampa femminista confermano quindi la volontà, già ampiamente illustrata, di contestualizzare l’opera della santarcangiolese all’interno di un più ampio progetto di raccolta e diffusione di storie di vita delle donne, in particolare quelle dei ceti subalterni, per creare coscienza e solidarietà di genere.

Nonostante per il momento l’uscita della raccolta sia limitata alle librerie femministe e le recensioni ai periodici di area, l’emozione e la gioia di Giuliana nel vedere il suo lavoro pubblicato e lei stessa “finire sul giornale” sono immense:

 

 

“Rina cara, non ho più parole, ma guarda che lo dico sul serio e ti dico pure che questa gioia mi fa paura, al punto di sentirmi male e per davvero imbarazzata […] Non so se avrò il coraggio di ringraziare la Faccio, certo ti vorrei sempre al mio fianco come protettrice e ti vorrei pure giovedì 15 a Forlì dove sono stata invitata dall’Udi […] e ricordati che la solidarietà di tanta gente è solo merito tuo.[187]

 

 

Di nuovo ritorna in questa minuta il tema della riconoscenza verso Rina e del ruolo di guida e sostegno che Giuliana le aveva attribuito, fino ad invocarla come “protettrice”, segno di quanto ancora si sentisse insicura e timida, soprattutto nell’affrontare una platea, come nella circostanza qui menzionata della sua partecipazione ad un incontro promosso dall’Udi di Forlì, primo episodio di quello che negli anni successivi diventerà una costante per Giuliana-poetessa: l’essere invitata a serate, convegni, manifestazioni di ogni
genere a leggere pubblicamente le sue poesie. Infatti, nonostante la gioia per un successo che già le sembra grande, in realtà la sua notorietà crescerà in maniera esponenziale successivamente alla primavera dell’ottanta, con recensioni da parte di importanti quotidiani e periodici nazionali come “Il giorno”, “Il manifesto”, “Panorama”, fino a travalicare i confini della carta stampata (per approdare su radio e tv) e del territorio nazionale, con la pubblicazione di alcune sue poesie tradotte in inglese e tedesco. A fare da trait d’union tra la prima fase di notorietà e diffusione della raccolta limitate agli ambienti femministi e la seconda, molto più ampia e trasversale, sono da indicare la recensione di Raffaello Baldini su “Panorama” ed il lungo articolo di Ileana Montini su “Il manifesto” . Il breve trafiletto di Baldini del 27 ottobre 1980 disvela per la prima volta il nome e l’opera della Rocchi al vasto pubblico e l’attenzione è tutta dedicata alla qualità suoi versi:

 

“Un candido amore per la rima, una lingua mista di arcaismi e neologismi, malinconie, rabbie, dolcezze, pietà, una lunga ballata sull’infanzia, qualche fulminante meditazione”

 

Il lungo articolo su “Il manifesto” del 14 febbraio 1981 invece ha sicuramente il merito di essere il primo a dedicare spazio al rapporto tra Giuliana e la sua ispirazione poetica, allargando l’orizzonte di analisi rispetto alle precedenti recensioni, con una intervista all’autrice che parla del periodo in cui ha cominciato a scrivere e delle primissime cose prodotte, informazioni preziose perche non rinvenibili in maniera così diretta in nessuno dei tanti documenti che ho potuto analizzare. Dopo aver riferito della passione del padre per le satre, così prosegue:

 

“anch’io ho avuto questa passione […] ma l’ho sempre tenuta dentro. Ho cominciato in tempo di guerra, sul mio parente vedovo che si doveva sposare. Aveva trovato una sorda e avevano già fatto i materassi, tutto, ma una sera lui dice: ‘vi devo dire una cosa: mio babbo non vuole che mi sposi, neanche che faccia il moroso […]’. Dopo tutte le sere mi facevano
dire questa satra. Poi la prima seria l’ho fatta in corderia, quando abbiamo occupato la fabbrica”.[188]

 

 

Quindi è certo che Giuliana abbia iniziato a scrivere ben prima del 1964, quando appare per la prima volta una sua poesia nella dimensione pubblica, ha cominciato “in tempo di guerra”, raccontando un episodio tragicomico di cui era stata testimone (purtroppo di questo testo non è rimasta traccia alcuna tra i documenti conservati in biblioteca a Santarcangelo e non corrisponde a nessuno di quelli pubblicati). La bataia dla coderèa semmai rappresenta per sua stessa ammissione il primo testo impegnato. L’intervista ci offre poi un’altra testimonianza importante circa il carattere occasionale e spontaneo della sua ispirazione, cui si è già accennato:

 

“ Una volta ho assistito alla conversazione di una vecchia con il postino che le diceva di fare presto a firmare e lei: ‘[…] ò fat la crausa par stent’an /e a m so sempra vargugneda,/ ma forza ad doèi a l’ò imparoèda. / I m l’à insgnèda i mi burdéll’[…]”[189]

 

 

La risposta in versi attribuita alla vecchietta è in realtà il testo della poesia La firma dla pensiàun che la Rocchi ha scritto riferendosi a questo episodio di cui è stata testimone. Il titolo stesso dell’articolo, Versi comperati al mercato, coglie bene questo aspetto del suo modo di fare poesia partendo sempre da situazioni di vita reale. Nell’indagare poi la dimensione politica della sua opera, la giornalista lascia che di nuovo sia lei stessa a parlare, chiarendone gli obiettivi. Prendendo spunto da una delle poesie più toccanti dell’intera raccolta, Te vièl di sgnèur a Rèman, dedicata all’episodio di una donna che in una zona tanto ricca della città cerca un paio di scarpe nella spazzatura e si vergogna della propria povertà, Giuliana cita il finale (“In coèva e’ vièl u i è una cisa/ duvè ch’ e’ prit e’ dois/ ch’a sém tot fradéll”) e poi aggiunge :

 


101
“Il prete dice che siamo tutti fratelli, ma non è vero niente che siamo fratelli […] Nel signore ci credo anche, ma in quello che fanno i suoi dirigint no, non mi sta bene. Io ce l’ho con i padroni e dico che c’è solo la morte uguale anche per loro”[190]

 

 

L’accento non è posto sulla lotta di genere cara al femminismo (non a caso si parla di fratelli, non di sorelle) ma sulle ineguaglianze sociali, contro la chiesa che predica una fratellanza che poi non sostiene nei fatti, e contro la classe padronale che impedisce qualsiasi forma di egualitarismo terreno. Del resto la stessa Macrelli, nell’ introduzione a La vóita d’una dòna riconosce che questi soni i contenuti più autentici dell’opera di Giuliana:

 

“Ciò che è veramente vitale, direi esemplare per Giuliana non sono gli scontri (di sesso o di classe). E’ qualcosa che lei ci propone come una utopia paritaria, come una forma di uguaglianza, reperibile ai livelli più poveri e forse soltanto ad essi […] Non si tratta di una uguaglianza mitica, di un ‘sogno delle origini’ […] E’ un progetto attivo, possibile e da lei già vissuto […] Niente lagne in Giuliana, ma solidarietà ed elogio di essa.”[191]

 

 

Giuliana pone la solidarietà tout cours al centro della propria esistenza, sempre disponibile verso quelli che hanno bisogno, a cominciare dai parenti, e senza mai porsi il problema della propria emancipazione in quanto tale. Per questo non può essere considerata in senso stretto una femminista, fermo restando la condivisione da parte sua di alcune battaglie del movimento e l’amicizia personale che l’ha legata ad alcune attiviste, a cominciare da Rina, che hanno fatto sì che rapporti con quell’ambiente non si siano mai interrotti. Semmai ha più senso proporre un discorso “femminista” sulle difficoltà del

suo essere poetessa, come ha saputo fare la Montini a chiusura del suo intelligente articolo, questo sì davvero condivisibile:

 

 

“Ma Giuliana Rocchi non è un poeta, è una poetessa. Se fosse stato un poeta proletario, un dialettofono straordinario (come di lei dice Tullio de Mauro) in pensione, il tempo di scrivere, di dedicarsi anima e corpo a scrivere, l’avrebbe. Nessuno si sognerebbe di togliergli questo piacere e questo compito per l’umanità. Una moglie, una sorella, una figlia gli garantirebbero le condizioni di tranquillità, circondandolo di cure affettuose e di tributi di riconoscenza per il suo genio. Invece Giuliana, essendo soltanto una povera donna non può, non pensa neppure a sottrarsi al ruolo antico di colei che deve rinunciare a tutto per servire gli altri.[192]

 

 

Nonostante tutto, come si vedrà nel prossimo capitolo, Giuliana riuscirà comunque ad affermarsi come poetessa ed a raggiungere una notorietà per lei impensabile solo qualche anno prima.



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO III

 

 

 

 

 

 

 

La maturità artistica

 

 

 

 

 

 

 

Con un cortometraggio di tredici minuti andato in onda su Rai 2 nell’inverno del 1981 all’interno della rubrica “Si dice donna”, la Rocchi fa la sua prima apparizione sul mezzo televisivo, per di più a diffusione nazionale. La radio si era già occupata di lei con un programma di Lidia Gargiulo dedicato alla sua poesia ed andato in onda sull’emittente romana “Spazio Aperto”. Sui contenuti di questi due programmi non si sa molto. Dalle note della Macrelli[193], a proposito della trasmissione televisiva, sappiamo che era stata curata da Alessandra Bocchetti, nota anche come giornalista della carta stampata, e che all’interno erano state lette delle poesie di Giuliana nella traduzione italiana. Intanto le manifestazioni di interesse per questo che sta diventando un vero e proprio “caso letterario” si moltiplicano. Ritornano in campo le istituzioni ed i media locali romagnoli, che promuovono numerosi incontri pubblici a lei dedicati, con immancabile recita di poesie da parte sua: a partire dal 28 febbraio 1981, quando l’assessorato alla cultura di Santarcangelo organizza un “incontro con Giuliana Rocchi” per la presentazione de la vòita d’una dòna, si susseguono tutta una serie di apparizioni televisive sulle emittenti locali (Telemare, Telerimini, Telegabbiano); inviti a feste di varie associazioni territoriali (oltre ai gruppi dell’Udi per l’8 marzo, anche l’Avis e l’Aido, la proloco di Rimini per la “Festa do Borg”, il PCI per le feste dell’Unità ecc); partecipazione ad eventi culturali di vario genere, spesso insieme a Gianni Fucci, l’altro poeta santarcangiolese emergente. La sua popolarità in ambito romagnolo cresce in maniera esponenziale. Piacciono le sue satre, che spesso vengono lette nelle
versioni originali, più lunghe e diverse da come appaiono a stampa e che riscuotono grande successo tra il pubblico[194]. Il suo modo di porsi molto gentile ed affabile, il carattere aperto e bonario ne fanno un personaggio molto amato e la sua presenza è richiesta anche in ambienti lontani dai riflettori mediatici, come gli asili, le scuole, le case per gli anziani. Giuliana vi si concede volentieri e con molta umiltà, senza fare distinzioni opportunistiche tra la partecipazione ad eventi di prestigio come il Premio Zeus Città di Rimini, un concorso dedicato agli artisti emergenti in area romagnola e che vincerà nell’ottobre del 1981, o la recita di poesie alla scuola materna di San Mauro nel Natale dello stesso anno. A fronte di tanto successo il libro si vende molto bene e a questo punto si muove anche l’editoria locale, non senza una punta di polemica retroattiva, come si evincere da questa minuta che Giuliana scrive alla Macrelli il 16 marzo 1981:

 

 

 

“Ti scrivo per dirti che sono stata a Cervia, e tre volte a Cesena, pure in un ospizio di vecchi, ovunque sono andata cercavano il libro e alla libreria Bettini di Cesena hanno telefonato pure a Milano per averlo […] Saprai che Alearda mi ha telefonato e mi ha detto che non lo può più fare [cioè ristampare]. Ieri l’altro ho parlato con la signora della libreria [si chiama Edoarda e dagli anni settanta gestisce l’unica libreria di Santarcangelo] e mi ha detto che le ha telefonato Maggioli e che si è rammaricato non poco perché il libro di una di Santarcangelo sia stampato a Roma […][195]

 

 

Ad un anno dall’uscita, e con il canale distributivo limitato alle sole librerie femministe (fatta eccezione per la libreria Bettini di Cesena, menzionata appunto nella lettera), la prima edizione della raccolta è esaurita, ma l’editrice Amanda non è più in grado di ristamparla, visto che di lì a poco cesserà

l’attività[196]. Il principale editore del riminese, Maggioli, fa sapere di essere interessato, e manda a dire di essersi dispiaciuto per non essere stato coinvolto prima.

L’edizione Maggioli esce nell’ottobre 1981, in base ad un accordo che prevedeva solo un compenso di quattrocento mila lire all’autrice.[197] E’ l’edizione tuttora reperibile su richiesta nelle librerie della zona, quella consultabile nelle biblioteche (l’edizione romana, pure conservata nella biblioteca di Santarcangelo, è diventata così preziosa da stare sotto chiave!) ed ha consentito al testo di avere finalmente una più facile diffusione, rendendolo disponibile nei normali circuiti di vendita. Nel frattempo continua l’interesse da parte della stampa e del mondo della cultura, anche a livello nazionale, alla poesia della Rocchi. Nel maggio del 1982 se ne occupa il settimanale lo “Europeo”, che pubblica un pezzo di Michele Dzieduszycki, uno tra i più noti giornalisti culturali italiani, ora scomparso, dedicato alla “Santarcangelo dei poeti”[198]. Nel recensire Il Miele di Tonino Guerra, uscito in quel periodo, Dzieduszycki ricorda come sulla strada della poesia dialettale da lui intrapresa altri nella sua città l’abbiano seguito con risultati interessanti e cita Gianni Fucci con la sua prima raccolta La mórta e e’ cazadour e Giuliana Rocchi, ponendo l’accento sul sua umile estrazione sociale e sul suo essere una autodidatta. L’accostamento a Gianni Fucci, che ha riguardato anche la partecipazione congiunta dei due poeti alle manifestazioni a livello locale (nel senso che venivano invitati insieme a leggere le loro poesie) non è casuale: la prima raccolta di Fucci viene edita da Maggioli nel 1981 praticamente in contemporanea con la sua edizione de La vòita d’una dòna e la stessa Rina Macrelli ne aveva scritto l’introduzione. I due testi fanno parte di uno stesso progetto editoriale, inseriti in una collana appositamente creata, “I due

elefantini”, e vengono spesso accostati, nonstante si tratti di due opere profondamente diverse: essenzialmente lirica e piena di reminiscenze colte la poesia di Fucci, modellata sulle satre popolari, tendenzialmente narrativa e realista quella della Rocchi. Ma i due sono concittadini, coetanei e scrivono nella stessa lingua: tanto basta perché le loro opere siano presentate e recensite insieme. Sulla falsariga dell’articolo apparso sull’ “Europeo” è un documentario andato in onda sul canale regionale della terza rete Rai nel gennaio del 1984, curato da Simonetta Nicolini, la figlia di Flavio, uno degli animatori del “Circolo del giudizio”. Dedicato al “Paese dei poeti”, contiene brevi interviste a Guerra, Baldini e Fucci, oltre che a Giuliana, ripresa nella sua modesta casa nelle contrade. Davanti alle telecamere l’autrice parla della sua passione per la poesia, a cui si dedica nei ritagli di tempo, prendendo spunto da “storie di vita vissuta”, secondo l’esempio del padre che amava recitare satre e zirudèle, del fatto che non si senta una poetessa ma una semplice donna che lavora. Tutti aspetti già ben noti a coloro che la conoscono e hanno già letto i suoi testi, ma che attraverso l’interesse di questi media vengono presentati ad un audience molto più vasta. Come accade anche con il lungo articolo comparso nel marzo 1984 su “La domenica del corriere”, uno dei settimanali italiani più popolari e diffusi all’epoca, e presentato come la prima tappa di un viaggio attraverso le regioni italiane “alla ricerca dell’anima popolare e della cultura dialettale”. Non sarà stato un caso che l’autore Luciano Simoncelli abbia deciso di cominciare questo “viaggio” proprio dalla Romagna e da Santarcangelo, ormai capitale indiscussa della poesia dialettale in Italia per numero di autori e qualità della produzione (ricordiamo che nel 1982, oltre a Il miele di Guerra era uscita anche la seconda raccolta di Baldini La naiva ad allungare il già nutrito elenco di opere ed autori pubblicati); e nemmeno sarà stato un caso se all’interno del gruppo dei santarcangiolesi abbia deciso di partire proprio da Giuliana “laureata poetessa senza licenza

elementare”, come recita il titolo: quale migliore esempio di “anima popolare” che ha saputo emergere in versi di grande valore poetico a fronte di una bassa scolarizzazione, in un contesto di fatica e privazioni. Sono i soliti temi, anche qui ripresi attraverso l’intervista all’autrice, raffigurata nella grande foto d’apertura nello stesso contesto umile e domestico in cui la ritraeva il documentario della Simoncelli. Con un ingrediente in più: un riferimento alle sfortunate vicende amorose, fin qui rimaste fuori dagli aspetti della sua vita trattati sui media: “sono zitella per motivi di ceto, sono rimasta fedele ad un uomo che non ha saputo sfidare la propria famiglia per sposarmi”. Una seconda foto la ritrae con in mano uno strofinaccio che porta incisa la poesia che lei ha scritto per quest’uomo, E’ ben dabòn[199]:

 

“Vede? Io mi asciugo le mani con le mie poesie’[…] Le sembrano infatti più a suo agio i suoi versi romagnoli impressi su un pezzo di tela tessuta a mano, secondo le antiche usanze romagnole, anziché sulle pagine di un libro.”[200]

 

 

Se gli ambienti femministi ed i loro giornali avevano messo in risalto il carattere impegnato della sua poesia ed il valore emblematico che la sua esperienza di vita rappresentava per il movimento delle donne, i media nazionali a carattere più popolare da un lato tendono a contestualizzare la figura di Giuliana all’interno della “scuola” santarcangiolese, parlando di lei insieme agli altri poeti locali, dall’altro vogliono fare emergere “il personaggio”, con la sua umiltà e semplicità, suscitando l’interesse e la simpatia di un pubblico non necessariamente colto o competente in fatto di poesia. Entrambe queste operazioni non valorizzano appieno la complessità della sua esperienza poetica, ma di certo contribuiscono al suo successo e,

questo va detto chiaramente, il successo di pubblico fa bene a Giuliana ed alla sua creatività. I primi anni ottanta saranno infatti per lei un periodo molto fecondo dal punto di vista creativo, tanto che nel giro di un paio d’anni dalla pubblicazione de La vóita d’una dòna, che ricordiamo ha avuto una gestazione molto lunga ed ha raccolto testi prodotti nell’arco di un ventennio, saranno già pronti i materiali per una seconda raccolta, che tuttavia uscirà solo nel 1986, ma solo per ritardi attribuibili all’editore, evidentemente non del tutto soddisfatto delle vendite della prima:

 

“Ho dato la caccia a Maggioli ma non sono riuscita a vederlo così che ho deciso di telefonare, ma non l’ho trovato neppure in editoria e ho lasciato il messaggio all’incaricata”[201]

 

 

“Finalmente ho visto Maggioli […] mi ha solo detto che deve guardare come sono andate le vendite dell’altro libro, ci sono rimasta male ma le cose stanno così […] Intanto ho scritto un’altra storiella. L’ultima notizia che ti mando è che ieri per andare a cogliere le erbe sono caduta in bicicletta e domattina vado a farmi i raggi.”[202]

 

 

Entrambe queste minute ci presentano una Giuliana molto attiva e determinata: mentre per quanto riguarda la prima raccolta aveva lasciato gestire tutto l’iter della pubblicazione all’amica Rina, la quale aveva dovuto faticare per metterle in testa l’idea stessa di creare un libro dalle sue poesie, ora è lei che chiama più volte l’editore Maggioli per sollecitare l’edizione di un secondo libro, e ci resta male quando questo parla di verificare le vendite del primo. Nonostante continui a ripetere di non considerarsi una poetessa,

comincia a preoccuparsi che il proprio lavoro poetico venga diffuso e che non sia valutato solo in termini brutalmente economici, in più continua a scrivere e a darsi da fare come sempre (davvero tenera l’immagine di questa donna ormai non più giovane che cade in bicicletta per andare a raccogliere le erbe!). In questo clima di crescente autostima si colloca l’iniziativa, davvero sui generis, di scrivere al Presidente Pertini, inviandogli una copia de La vòita d’una dòna. Da anni Giuliana aveva in sospeso una vertenza con l’Inps per la reversibilità della pensione di guerra del padre che non le veniva riconosciuta. Decide allora di prendere carta e penna e rivolgersi direttamente al Presidente della Repubblica perché perori la sua causa, e si propone a lui facendogli dono della sua opera pubblicata. Il contenuto esatto della lettera non è ricostruibile, perché non se ne trova la copia (ammesso esista, cioè che la mittente ne abbia fatta una di quella spedita). Fortunatamente tra le sue carte si trova però la risposta, dattiloscritta dalla segretaria personale di Pertini:

 

 

“Gentile Signora, il Presidente della Repubblica ha ricevuto la pubblicazione ‘La vòita d’una dòna’, che tanto cortesemente ha voluto fargli pervenire, e mi incarica di ringraziarla del gentile pensiero. Nel contempo desidero assicurarle che non si è mancato di svolgere ogni consentito interessamento nella sede competente per la sollecita definizione della Sua pratica.[203]

 

 

Al di là di questo episodio, sicuramente il successo e la relativa notorietà hanno fatto sì che gli orizzonti della frequentazioni di Giuliana si ampliassero: oltre ai rapporti con i poeti locali che si fanno sempre più stretti (ricordiamo le più frequenti occasioni d’incontro con Fucci e l’amicizia di vecchia data con Pedretti) ed i contatti mai interrotti con la Macrelli e le compagne femministe

a Roma, entrano nella sua cerchia di amicizie anche altri poeti contemporanei che hanno condiviso con lei le umili origini e l’appartenenza alle classi lavoratrici. Primo fra tutti Ignazio Buttitta, il noto poeta dialettale siciliano già presente a Santarcangelo in occasione del seminario del 1973, che le scriverà diverse lettere incoraggiandola a continuare a scrivere e pubblicare:

 

 

“Ho letto le tue poesie: sei una figlia autentica della tua Romagna. Come te io sono un autodidatta, ma tu sei giovane, io ho quasi 85 anni […] tu devi pubblicare subito subito [sottolineato nell’originale]”[204]

 

“La tua conoscenza mi ha arricchito […] Ti mando un altro libro, sono poesie che scrivevo da ragazzo […] Ti auguro buon lavoro e lunga vita”.[205]

 

 

Oltre a lui, si interessano al lavoro di Giuliana i poeti che orbitano attorno alla rivista “Abiti-lavoro”, pubblicata a Milano e definita dai sui stessi creatori come “quaderni di scrittura operaia”. Si tratta di un progetto editoriale nato dalla volontà di un gruppo di lavoratori che vivono in diverse parti d’Italia ma accomunati dalla passione per la poesia e dalla volontà di fare di questa uno strumento di lotta politica. I nomi sono quelli, tra gli altri, di Davide Argnani di Forlì, Benito La Mantia di Ravenna, Ferruccio Brugnaro operaio al petrolchimico di Porto Marghera, Francesco Cardinale di Napoli, Daniele Scioratto, piemontese. Quello che li avvicina sorprendentemente all’esperienza della poetessa santarcangiolese sono le modalità dell’esordio poetico: l’aver composto testi poi distribuiti sotto forma di volantini durante le lotte sindacali a metà degli anni sessanta. Ferruccio Brugnaro racconta così la nascita di quella esperienza politico-letteraria:

“Cominciai così ad impegnarmi col movimento sindacale di fabbrica su tutti i problemi e a battermi contro uno sfruttamento intollerabile. Iniziai a scrivere anche le mie prime poesie che definisco ancora oggi ‘spezzoni sanguinanti di vita’, ‘strumenti di lotta’.Verso la metà degli anni ‘60 alcuni miei compagni di lavoro mi suggerirono di ciclostilare le mie poesie come i volantini sindacali . Nacque così, a Porto Marghera nel 1963, la poesia al ciclostile, il volantino di poesia. La prima, contro la guerra nel Vietnam, venne affissa a tutte le bacheche dei reparti, nelle mense, a tutti gli ingressi della fabbrica […] A metà degli anni ‘70 ci fu tutto un crescendo di scritture, un movimento dal basso straordinario. Non ero più isolato, la mia voce non era più sola […] un fermento di riviste, fogli, fascicoli ciclostilati che rivelavano finalmente una forte determinazione di impossessarsi della parola. Agli inizi degli anni ’80 nascono a Milano i quaderni di scrittura operaia ‘Abiti-lavoro’ che diventano subito un riferimento concreto per chi, dalle aree più marginali ed emarginate della società, tenta di far sentire la propria voce anche con la scrittura.”[206]

 

Anche in questo caso si tratta di ambienti letterari politicizzati, dove l’attività di scrittura si affianca all’impegno militante (sia questo sindacale, pacifista o quant’altro) con l’obiettivo dichiarato di dare spazio alle voci provenienti dai settori emarginati della società, in questo paragonabile al programma culturale lanciato su “Tuttosantarcangelo” dall’amministrazione comunale negli anni settanta. L’appartenenza alla medesima classe sociale, la condivisione di un rapporto con l’esperienza poetica molto simile fanno sì che si instaurino relazioni di vera e propria amicizia tra Giuliana ed alcuni di questi colleghi, che a loro volta mostreranno grande apprezzamento nei confronti della sua opera. Il primo ad entrare in contatto con lei è Davide Argnani il quale, dirigendo un centro culturale a Forlì, aveva avuto modo di conoscere il lavoro della santarcangiolese attraverso i vari incontri promossi a livello locale. Argnani scrive e si occupa di poesia e, sebbene la sua produzione, in lingua italiana, tendenzialmente colta e sperimentale, sia molto lontana dal dialetto della Rocchi, subito la propone per la rivista curata a Milano da Benito La Mantia, che nel numero 7/8 del 1984 pubblica alcuni testi tratti da La vòita
d’una dòna. Gli altri poeti che scrivono sulla stessa rivista le inviano lettere per complimentarsi del suo lavoro:

 

“Cara Giuliana: sono Daniele Scioratto […] ti scrivo innanzitutto per complimentarmi a riguardo del tuo lavoro poetico. E’ tra ciò che di meglio io abbia letto in Italia negli ultimi anni (e ti assicuro che di poesia ne ho letta parecchia).”[207]

 

 

“Ti faccio i complimenti per le cose che scrivi. Se piacciono le traduzioni figurarsi che chicca in dialetto […] Vorrei fare i complimenti anche a Rina Macrelli, che ha creduto nelle tue ‘satre’ come le chiami tu. Io non ho pubblicato niente. Mi chiedono soldi e io non ne ho proprio […] In fabbrica, discutendo del n°7/8 di A/L sei stata quella che ha avuto più consensi.”[208]

 

 

Il mittente di quest’ultima lettera è di Francesco Cardinale, un artista davvero interessante, “operaio da 25 anni all’Aeritalia di Napoli” (come lui stesso dichiara in un’altra minuta)[209] che oltre a scrivere poesie impegnate disegna strisce satiriche per noti giornali di sinistra con al centro “Angelo”, una sorta di ingenuo commentatore della realtà che lo circonda. Giuliana, che come noto ama la satira e l’ironia, instaurerà con lui un rapporto epistolare duraturo, testimoniato dalle numerose lettere di lui conservate nel Fondo Rocchi, fatto anche di reciproci scambi di materiale poetico e vignette.

Oltre ad allargarne il giro di amicizie, i contatti con questo gruppo di artisti-lavoratori contribuirà anche ad ampliare gli orizzonti culturali di Giuliana: i testi da loro prodotti, che ha modo di conoscere dalla rivista A/L a cui diventa abbonata, o direttamente dai materiali che questi le inviano, sono generalmente lontani sul piano stilistico dalla poesia popolare dialettale su cui si è formata (strutturata sulla rima baciata, le ripetizioni, il lessico colloquiale) e che ha avuto un ruolo determinante nella sua prima produzione poetica. Si

tratta di autori che chiaramente hanno assorbito la lezione poetica novecentesca della liberazione del verso, lo scavo della parola, la destrutturazione della sintassi, come dimostrano questi pochi esempi:

 

 

da Alle caverne! di Davide Argnani: […] Sulle roccie degli hittiti

scudo gentilizio intrasegna blasone

 

 

la clava scalfita dalla roccia   […]

 

 

da Ruffiani della guerra di Ferruccio Brugnaro

 

 

Il fungo intanto sale. La morte intanto alza

la voce pesante

schiacciante […]

 

 

L’altruista di Francesco Cardinale

 

 

Frutto delle lotte

degli anni 80 riesco a mettermi nei panni

degli altri…

…specie della taglia 50[210]

 

 

Al di là del valore artistico dei singoli componimenti ed autori, si tratta del primo riscontro documentato del fatto che la Rocchi sia entrata in contatto anche con le forme poetiche più moderne. Sebbene la sua poesia resterà sempre molto lontana da questo tipo di produzione, alcuni tratti innovativi
della seconda raccolta rispetto alla prima, come la tendenza ad una maggiore brevità dei testi e dei versi che li compongono, l’abbandono graduale della rima, potrebbero essere messe in parte in relazione con queste nuove frequentazioni e nuove letture.

I contatti con il gruppo della rivista Abiti-Lavoro porterà la poesia di Giuliana ad apparire in una nuova pubblicazione: l’antologia I poeti del dissenso, edita nel 1987[211], che include testi degli autori che ruotavano intorno a quella esperienza. Curata da Benito La Mantia, la raccolta si presenta fin dal titolo come esperienza poetica “controcorrente”, di critica nei confronti dei modelli politico-culturali dominanti, tuttavia non steretotipata secondo il cliché dei poètes maudits di rifiuto del confronto con la realtà, come si legge nella Nota del curatore:

 

 

“Egli [La Mantia parla di sé in terza persona] ha inteso il dissenso non come culto banale, freddo ed artificioso del maledettismo’, non proclamazione volontaria o involontaria di autoemarginazione. Si è voluto accedere […] al significato di ‘altro senso’ […] un pensare ed un essere in modo diverso dal modello a cui l’orda si conforma […] tale ulteriore parametro non poteva essere che una volontà […] di voler legare indissolubilmente lo scrivere al vivere, l’arte alla sua realtà […] Un atteggiamento artistico ed etico, un voler chiamare ancora con il loro nome sopraffazione e violenza, sfruttamento e delitto,

pregiudizio e mistificazione.[212]

 

 

Si tratta di un programma assimilabile a quello delle avanguardie politicamente impegnate, alla ricerca di nuove forme e modalità poetiche per rappresentare il mondo esterno ed incidere sul piano socio-culturale. Da questo punto di vista la poesia della Rocchi appare come quanto di più appropriato: innovativa sul piano espressivo perché traspone nei suoi versi una lingua marginale dalle potenzialità poetiche già collaudate sì
(dall’esperienza di Guerra e degli altri santarcangiolesi) ma ancora ampiamente da scoprire, rivolta al reale e militante nei contenuti. Come dimostra la scelta dei componimenti inseriti, ascrivibili alla dimensione politica della sua produzione: E’ vlén, Te vièl di sgnèur a Réman, La guèra, Quand a sarò morta (cfr. I.2 e II.2). L’uscita dell’antologia ha una discreta risonanza, con presentazioni in varie località italiane, come del resto da diverse zone d’Italia provengono gli autori, e recensioni da parte dei giornali locali. Articoli compaiono su “Il Tirreno”[213], “Il Forlivese”[214], sulle pagine di “Napoli cronaca” all’interno di “Paese Sera”[215] e su “La Nuova Venezia”, in un pezzo a firma Marica Valeri, che sottolinea il carattere multiforme della raccolta:

 

“Un insieme caleidoscopico di contributi che  testimoniano l’estrema diversità di fare poesia ai nostri giorni. Contenuti, esperienze, ma soprattutto stili diversissimi tra loro catturano l’attenzione del lettore […] ‘Questo volume - dice Aldo Trivellato, uno degli autori- è già una forma di dissenso per il modo in cui è stato scritto, mettendo a confronto cioè le esperienze e le espressioni culturali più disparate. [216]

 

All’interno di questo “caleidoscopio” di forme e stili, i veri esperti di letteratura sanno riconoscere il valore superiore della produzione della Rocchi. Così Roberto Roversi, allinterno del supplemento “Bologna in Anteprima” allegato a “l’Unità”, nel recensire la raccolta, dopo una breve presentazione degli altri autori, si sofferma ad analizzare la peculiarità della sua poesia:

 

“Ma io vorrei indicare non su tutti, ma fra tutti, Giuliana Rocchi […] una vita durissima di lavoro e di stenti le fornisce temi e stimoli per la poesia scritta unicamente in dialetto romagnolo […] Risalta la straordinaria vitalità di una lingua gestita direttamente in modo intrepido, il solo veicolo di libertà integrale contro la sopraffazione del mondo..”[217]

 

 

 

In questo clima di riconoscimento ed apprezzamento per la sua produzione (che arriva ai massimi livelli, fino al Presidente della Repubblica!) e con una ben maggiore consapevolezza dei propri mezzi espressivi rispetto agli esordi, Giuliana produce i materiali per la sua seconda raccolta, che possiamo senz’altro definire l’opera della maturità poetica per la quantità e qualità dei componimenti, ma anche per la grande sollecitudine posta nel lavoro creativo, deducibile dall’analisi degli autografi. Laddove quelli riferibili ai testi poi inclusi nella prima raccolta mostrano una scrittura spontanea, quasi di getto e contengono come abbiamo visto poche correzioni o modifiche autografe (mentre per i numerosi interventi successivi era difficile stabilire con certezza se fossero dovuti alla volontà sua o della curatrice), i manoscritti alla base dei testi che andranno a comporre La madòna di garzèun presentano un’ intensa attività di correzione e riscrittura per mano della stessa autrice, tanto che è comune riscontrare due o più versioni di uno stesso componimento. Queste che venivano poi sottoposte alla valutazione di Rina, nei confronti della quale la poetessa continuava a nutrire la stessa fiducia di sempre, come testimoniano le annotazioni che accompagnano i manoscritti a lei inviati:

“Cara Rina […] se è una boiata rompila pure, se invece è da rivedere e da correggere me lo dirai quando vieni”[218]

 

“Cara Rina […] penso sia una filastrocca troppo lunga, non mi è riuscito fare di meglio, se è da scartare fallo pure”[219]

“Scarta pure quello che credi non vada bene”[220]

“Rina cara, ti mando questa roba che può darsi sia da cestinare, ma lo faccio per farti vedere che la volontà ce l’ho ancora anche se mi manca il tempo. Sono le due di notte e continuerei fino all’alba per la grande passione.”[221]

 

 

Dunque Giuliana continua ad autorizzare l’amica a scartare quello che crede, e come sempre lamenta di non aver tempo per dedicarsi alla poesia e lo fa di notte perché la passione è grande. Eppure qualcosa sembra essere cambiato nelle dinamiche di creazione e modifica dei testi. Direttamente l’autrice produce di sua iniziativa più versioni di uno stesso componimento, alla ricerca della forma migliore, anche se poi il lavoro di valutazione e correzione è sempre affidato alla competenza di Rina. Un testo che ben si presta ad esemplificare quanto processo di elaborazione dei materiali è la poesia dedicata a Nino Pedretti nella dolorosa circostanza della sua morte. Non è da escludere che la redazione tormentata sia anche da mettere in relazione al grande affetto che la legava all’amico. Di questo testo sono conservate nell’archivio Macrelli ben quattro stesure differenti, tutte risalenti al giugno 1981[222] (ricordiamo che Pedretti era scomparso il 30 maggio di quell’anno). Di una di queste sappiamo, grazie ad una nota della curatrice, che si tratta della prima versione. Se ne trascrive il testo qui di seguito, comprese le indicazioni collocate dall’autrice fra parentesi a fianco di alcuni versi, per suggerire delle varianti da sottoporre a Rina. Una parte, espunta con un segno a croce sopra, è qui riportata sottolineata:

 

 

 


119
Nino

 

 

a ne saveva c’stivi moel

quand ta me scrett

 

at so avneu a truvoe

(a so vneu da te)

ta me strett fort

5

tla tu brazoeda

 

 

tan l’evi fat mai

(o mai fat)

e quant ta me mustroe

la tu feroida

a no pianzeu

10

ho sciupoe drointa

 

a n’eva vest un oenta

Pu da coesa

ta me scrett ancoura

an so puteu avnoi

15

e an tò vest piò

 

Ta t’ci inganoe

ta s’è inganoe ma tot.

Ta i la e fata

 

T’ci turnoe da la tu ma

(questo passo non mi piace)

20

la t’à slunghoe la moena

 

pr’insignet a camine

t’una voita nova

Adess che tan si piò

piò ad tè te las

25

perché an t’scurdema mai

 

At saleut Nino31

[223]

Questa prima versione è stata evidentemente scritta di getto, probabilmente sull’onda della commozione: un elenco confuso di gesti ed emozioni, con versi poco chiari (vv.23-25) o un po’ retorici (vv. 18-22). Subito però la poetessa pensa a delle varianti, propone dei tagli, riflette sul suo lavoro. Poi lo riscrive completamente e più volte. Circa le tre stesure successive, non è possibile stabilire un ordine certo di redazione, ma si è tentato di farlo tenendo conto di un criterio empirico come quello della maggiore o minore

vicinanza alla versione definitiva a stampa[224]. Ricordiamo che però questa, proprio come accadeva per la poesia E’ dè di murt analizzata sopra, non è identica a nessuna di quelle manoscritte, per cui le versioni attestate di questo componimento ammontano a così a cinque. La seconda stesura è più sintetica, taglia la parte meno significativa e più retorica (vv. 13-22) ed esplicita il senso oscuro dei versi finali della prima:

A ne saveva stivi moel

ta me scrett a so avneu

5              ta me abrazoe tan l’evi mai fat

e quant ta me mustroe la tu feroida

o strett i dint

10              ai n’eva vest un oenta.

Em ciacaroe ragiunoe e ta me dett

piò volti scroiv

15              admoen

la zenta i sa da lez ta m’evi za det tot. Te lutoe

ta ne le fata

20              e ades t’ci andoe a lazò dri li

dri la mi Nanda e intoent che aspet

25              av port un fiaur[225]

 

 


Anche questo manoscritto riporta segni di espunzioni in sede di stesura, qui indicati con la sottolineatura delle parti interessate. La vera novità è rappresentata dai vv. 11-17, che diventeranno il messaggio centrale di questa poesia, esplicitato fin dal titolo nella versione a stampa, Admoen ch’ilt: l’invito del poeta morente a Giuliana affinché continui a scrivere, perché domani gli altri possano leggere le loro opere e così ricordarsi di loro. Ecco qui chiarito il senso del passo decisamente poco chiaro nella prima stesura, piò ad tè te las/ perché an t’scurdema mai”: la poetessa voleva riferirsi all’opera che Nino aveva lasciato, quel “qualcosa di più oltre se stesso” che farà sì che non ci si dimentichi di lui. Nella parte conclusiva compare poi il riferimento alla sorella Nanda, morta anche lei di tumore, e si intuisce cosi, senza che venga esplicitato, il senso dei vv 8-10: “l’altra ferita” la cui vista aveva fatto soffrire la poetessa era evidentemente la sua. Ora queste due persone care riposano l’una accanto all’altra, accomunati in vita da uno stesso destino di sofferenza, ma anche dall’affetto che Giuliana aveva per loro, simboleggiato dal suo gesto di portare un fiore sulle tombe vicine. Sebbene già in questa stesura il messaggio poetico sia chiaro ed efficace, Giuliana non è soddisfatta e ne scrive una terza:

 

Ta me duvu ciamoe

a ne saveva t’stivi moel ta me brazoe fort

tan l’evi mai fat

5              e quant ta me mustroe la tu feroida

o strett i dint

ai n’eva vest un oenta. Pu em ciacaroe

10    e prioma c’andess vea ta me ciapoe al moeni e ta me dett

“scroiv, scrivema ancoura fin cu ié temp


15              admoen lau ià da lez admoen ch’ilt ià da lez quel ca lasem

An to vest piò

a ni l’avreb fata

20              e te ci andoe dri li dri la mi Nanda

e t’ evi una feroida cumé la su[226]

 

 

Di nuovo l’autrice è intervenuta per rendere meglio quelli che sono i due concetti chiave che intende comunicare: il senso dell’invito di Nino a scrivere ed il collegamento tra lui e la sorella morta attraverso il ricordo della “ferita”. Riguardo al primo punto (qui ai vv. 9-17) questa nuova versione aumenta l’intensità emotiva del messaggio: il semplice e reiterato invito a scrivere (“e ta me dett/ piò volti/ scroiv” ) viene caricato di maggior pathos, con il poeta morente che stringe le mani all’amica prima che si lascino per sempre (“e prioma c’andess vea /ta me ciapoe al moeni), mentre l’esortazione a continuare a scrivere è rivolta anche a se stesso, con l’urgenza di chi sa di non avere più tempo (e ta me dett/“scroiv, scrivema ancoura /fin cu ié temp”). Il verso successivo, già indicato come il “cuore” dell’intero componimento, è oggetto di più di un ripensamento: da “admoen/ la zenta/ i sa da lez” si passa prima a “admoen lau ià da lez”, poi cancellato e sostituito con il definitivo admoen ch’ilt ià da lez”. L’analisi di questa variante è un bell’esempio del peso che la modifica di una singola parola può avere in poesia: “la zenta” è termine generico ed abusato e rischia di banalizzare il messaggio, “lau” è troppo ermetico (“loro”, ma riferito a chi?), “ch’ilt” invece è perfetto, semanticamente molto denso. Individua i destinatari ultimi del lavoro poetico nel segno dell’alterità rispetto a chi scrive: è per gli altri si fa poesia, che si deve continuare a scrivere, non per se stessi. L’intero verso è di una densità
semantica straordinaria. La scelta del determinante temporale “admoen proietta i destinatari così individuati nella dimensione del futuro, evocando l’idea della poesia che sopravvive per le generazioni che verranno, mentre l’uso della locuzione “ià da” (“loro dovranno”) davanti al verbo “lez introduce il concetto della necessità: gli altri, i posteri, dovranno per forza leggere le opere che i due poeti lasceranno, nel senso che non ne potranno fare a meno, e dunque il loro messaggio resterà, qualcosa di loro continuerà a vivere dopo la morte. Questa capacità di produrre versi densi di significati e sottintesi non è nuova in Giuliana, qui già esemplificata in alcuni testi analizzati (cfr. “E’ vlen” o “La strèta de mi Ba”, par I.2) ed è certamente indice del suo talento naturale per la poesia, che spesso ha però bisogno di un lavoro di riscrittura e revisione per concretarsi. Riguardo a questo testo infatti, se il messaggio centrale ha finalmente trovato la sua formulazione più efficace, ancora insoddisfacente resta la resa poetica dell’accostamento tra Nino e la sorella Nanda tramite il simbolo della “ferita”. In questa stesura la poetessa sceglie di rendere esplicito nel finale il nesso tra la ferita dell’amico morente e quella della sorella già morta dello stesso male (vv. 22-23), introducendo un paragone diretto che tuttavia indebolisce il valore simbolico di questo accostamento, che nella versione precedente serviva ad evocare l’affetto che la poetessa nutriva per entrambi. Anche il riferimento al gesto del portare un fiore sulle tombe vicine è cancellato, sicché di fatto in questi versi il tema dell’amore della poetessa che unisce i due nella vita e nella morte è scomparso. Si arriva così alla quarta stesura, stavolta molto vicina a quella definitiva, che invece recupera anche questo tema:

 

Ta me ciamoe a ne saveva t’stivi moel

ta me brazoe fort


5              tan l’evi mai fat e quant

ta me mustroe
la tu feroida

o strett i dint

10              ai n’eva vest un oenta.

Em ragiunoe
pu ta me dett: “ scrivema

scroiv ancoura

15              fin cu ié tem
admoen ch’ilt
ià da lez

quel ca lasem

T’evi capoi

20              te lutoe

ta ni la e fata

Ades ci andoe dri li
dri la mi Nanda

e intoent che

25              aspet d’avnoi

av port un fiaur[227]


In pratica questa versione recupera quelle che sono le parti migliori delle precedenti. Dalla seconda riprende i versi finali (qui vv. 19-26), aggiungendo ancora qualcosa: il riferimento al fatto che il poeta ha vissuto la sua malattia consapevole della fine (“T’evi capoi”) e che l’aspettare della poetessa riguarda la morte (“intoent che/aspet” diventa “Intoent che/aspet d’avnoi”, molto più esplicito), attraverso la quale potrà ricongiungersi ai due che l’hanno lasciata. Riguardo al testo apparso a stampa, le modifiche rispetto a quest’ultima stesura sono poche. Oltre a correggere la grafia del dialetto ed introdurre la punteggiatura, esso ripristina due versi tagliati rispetto alla terza versione: “e prioma c’andess vea/ ta me ciapoe al moeni”, fondamentali per rendere tutta l’emozione della scena descritta, per il resto non si discosta dal
testo qui sopra riportato, se non per il non trascurabile cambio del titolo da Nino a Admoen ch’ilt. L’iter compositivo di questa poesia può essere cosi sintetizzato: probabilmente a ridosso della morte dell’amico e poeta Nino Pedretti, Giuliana ne scrive di getto una prima versione, insoddisfacente; poi ne elabora una seconda che esprime meglio e chiarisce i nuclei semantici del messaggio poetico; la terza stesura perfeziona dal punto di vista espressivo i versi relativi al tema centrale dell’intero componimento, mentre la quarta assembla le parti migliori delle due precedenti. Nella versione a stampa il testo è “rifinito”, presumibilmente ad opera della curatrice, mentre il cambio del titolo sposta il focus della poesia dall’amico morto al messaggio che questo ha voluto lasciare ai posteri. Questo testo rappresenta senz’altro una delle cose migliori scritte da Giuliana. La pensa così anche Benito La Mantia che dopo aver avuto modo di leggerlo all’interno della seconda raccolta le scrive:

 

“Cara e amata Giuliana, con autentico piacere ho letto, anzi abbiamo letto, i tuoi ultimi versi raccolti in ‘La madòna di Garzèun’. Senz’alcun dubbio ritengo che la poesia migliore di questo tuo lavoro sia ‘Admoen ch’ilt’ che riesce a trattare con dignità ed essenzialità, senza scadere nel sentimentalismo, un argomento difficile”[228]

 

La poetessa ha saputo rendere in un componimento relativamente breve una grande concentrazione di significati e combinare la dimensione narrativa (il racconto del suo ultimo incontro in ospedale con l’amico in fin di vita) a quella lirica (l’espressione dei propri sentimenti nella circostanza), sfruttando al meglio le possibilità espressive di una lingua “barbarica”, per usare la definizione che Contini[229] ha dato del dialetto di Santarcangelo. La sintassi paratattica tipica dell’oralità dà ai versi un ritmo serrato, rafforzato dall’uso di termini monosillabi che sono una peculiarità del dialetto e dal ricorso
all’anfora (“Ta me ciamoe”, “ta me brazoe fort”, “ta me dett”, “T’evi capoi/ te lutoe/ ta ni la e fata”), aumentando così il senso di pathos già veicolato dai contenuti. La densità semantica dei versi (caratterista questa che sempre dà pregio al linguaggio poetico) è stata ottenuta anche sfruttando al meglio alcune polisemie esclusive del dialetto. Ad esempio ai vv. 23-24 la locuzione andoè dri” ha il doppio senso di “andare accanto”, cioè ci dice che il poeta Pedretti è ora sepolto accanto alla sorella, e “seguire”, nel senso di “fare la stessa fine”, indicando che il poeta ha seguito la sorella di Giuliana nella modalità della morte. Qualsiasi traduzione italiana di questi versi non è in grado di rendere questa doppia lettura. Sebbene i problemi relativi alle traduzioni dei testi non sono oggetto di questa tesi, e per la loro complessità meritano una trattazione a parte, quello che mi preme qui sottolineare è che la capacità della poetessa di sfruttare al meglio le polisemie dialettali, già messa in evidenza nell’analisi de La strèta de mi ba’ (cfr. par. I.2) e sopra a proposito de E’ divorzi (cfr. par. II.1), fanno sì che la sua poesia possa essere apprezzata in tutta la sua ricchezza solo da chi abbia un’ottima dimestichezza con il dialetto. E non solo a causa delle polisemie intraducibili, ma pure per l’uso di un linguaggio preciso e concreto che spesso, facendo riferimento ad oggetti od usanze desuete resta ormai comprensibile solo ad un numero davvero ristretto di parlanti[230]. Se paragonato ad esempio al dialetto molto meno “puro”, più attuale e contaminato dall’italiano che usa un autore universalmente apprezzato come Baldini, la sua lingua è certamente meno accessibile. Questa caratteristica è ben individuabile pure in un altro componimento, Al mi moeni, inserito ne La madòna di garzèun e qui riportato in relazione ai numerosi interventi di correzione presenti sull’autografo della prima versione. Gli interventi consistono
prevalentemente in versi espunti, evidenziati nella trascrizione con la sottolineatura:

 

Al mi moèni

che par zinquent’an a m’arcord

c’andeva ancoura a scola

5              a gli à fat tot i laveur al mi moèni

che a gli à garavloe legna e erbi

zo ma l’eus-

10              che a gli à spighè bateu vandmoe spanucè

Al mi moeni broti

che a gli à alzoe poinz poinz e fass ad canva

15              piò gross dal mi forzi e neud miera ad neud e dè per voint an

Al mi moeni rovdi

che a gli à gramloe e loin

20              ad quel Viserba fasend e sangv

(e al feva sangv)

Al mi moeni mochi tuzoti che a gli à strisce suloer

25              fat bughedi

sbateu lanzul ad chilt fat spoi pida

che a gli à fat tot

Al mi moeni strachi

30              che la matoina al né piò boni

ad cieud e pogn.[231]

 

Oltre a versi cancellati, l’autografo riporta pure un verso autografo inserito a fianco, dopo il v.30: “quand cam svegg”. Le modifiche, indicate con la stessa
penna e la stessa calligrafia del corpo del testo, sono una ulteriore dimostrazione di come la poetessa fosse sempre più incline a riflettere sul proprio lavoro, cercando essa stessa di migliorarne la qualità già in sede di stesura. Le espunzioni mirano infatti ad alleggerire il testo eliminando le ripetizioni (v.14, 29) o a fare spazio a varianti ritenute migliori (vv. 21-22, v. 23). Esiste poi una seconda versione autografa, consistente in una sorta di bella copia della prima, in cui il testo è trascritto con le espunzioni ed aggiunte segnalate, e con l’inserzione di alcuni versi del tutto nuovi, forse in qualche modo suggeriti da un confronto con Rina, come segnala una nota a margine del manoscritto: “i tuoi suggerimenti mi sono stati preziosi”. I versi sono quattro, collocati dopo il v. 27 della versione sopra riportata, per cui la parte finale del componimento così appare in questa seconda stesura:

 

 

[…] Al mi moeni tuzoti che a gli à strisce suloer sbateu lanzul ad chilt

fat spoi pida

5              che a gli à enca e che par loss

a gli à enca ricamoe

e ancaura al spuntecia calzett di mi burdell

10              Al mi moeni strachi che la matoina quand am svegg

al né piò boni

ad cieud e pogn.[232]

 

Ancora un piccolo ripensamento accompagna il v.5, concellato e poi riformulato nel v. 7. I nuovi versi fanno riferimento ad un utilizzo delle mani trascurato nella prima stesura: il “lusso” del lavoro con l’ago, decisamente meno duro rispetto agli altri impieghi descritti. La versione a stampa non si
discosta da questa, se non per un interessante particolare, il recupero di due versi espunti dall’autrice già nella prima stesura: “neud miera ad neud e dè/ per voint an”. Ecco come l’intero componimento appare nella versione definitiva:

 

 

 

 

Al mi moèni

 

 

 

 

 

 

 

 

5

che par zinquoènt’an

(a m’arcórd

ca’ndéva ancàura a scòla)

agli à fat tót i lavéur al mi moèni

che a gli à garavloè lègna e érbi

zò ma l’Eus

 

 

10

che agli à spighé batéu vandmoè spanucè

al mi moèni bróti

 

 

 

 

 

15

che par vòint’ an a gli à alzoè

póinz e fass ad canva piò gróss dal su fórzi e fat mièra

ad neud e dè

al mi moèni róvdi

 

 

20

che agli à gramloè e lóin ad quel Viserba

e al féva sangv

al mi moèni tuzoti

che a gli à strisé suloèr sbatéu lanzùl ad chilt

25

fat spoia pida tót e che par loss

a gli à enca ricamoè

e ancàura al spuntécia calzétt di mi burdéll


30              al mi moeni strachi che la matoina quand am svegg

al né piò boni

ad cieud e pogn.[233]

 

 

Un po’ come si era evidenziato per la complicata genesi della poesia in morte di Nino Pedretti, anche qui la versione finale cerca in qualche modo di recuperare tutti i temi delle differenti stesure, scegliendo la forma ritenuta migliore, secondo una modalità “inclusiva” diversa dalla generalizzata tendenza “a tagliare” riscontrata nella preparazione della prima raccolta. Questa dinamica ha a che fare con il fatto che, come si è accennato in apertura del paragrafo, la poesia stessa della Rocchi ha subito una lenta e graduale evoluzione: da una netta preponderanza della vena narrativa e popolareggiante nei primi componimenti, poi messa in quanche modo in ombra al momento della revisione dei materiali per la pubblicazione (cfr. II.1) proprio attraverso il metodo della “riduzione” del testo (cfr. a quanto evidenziato a proposito de La zitèla, E’ divorzi, E’ mi viaz a Roma), prevalgono ora forme poetiche più moderne, che fanno della concentrazione dei significati il loro punto di forza. La loro modernità è prima di tutto strutturale. Facendo riferimento ai due testi analizzati, notiamo che è assente le rima, primo elemento a dare alla poesia un sapore più antico e popolare, mentre la ritmicità dei versi è costruita su anafore (a, al, agli), assonanze (Lavèur/Eus/batèu;bróti/fórzi/róvdi; garavloè/gramloè/ricamoè) e rime interne (gróss/lóss). I versi poi sono mediamente più brevi, dal quinario al settenario, mentre come si è visto nelle prime satre si andava dal settenario all’endecasillabo, fino ad arrivare a tre sole sillabe (il famoso “admoèn ch’ilt”), con la funzione di mettere in risalto e dare maggior peso alle singole
parole.[234] A questo proposito si è già detto come la Rocchi sappia sfruttare al meglio le potenzialità del dialetto, le sue polisemie, ed ami usare termini molto precisi, spesso desueti, che impreziosiscono i suoi testi ma pure li rendono ostici per i lettori, caratteristica pure questa che avvicina la sua opera alla produzione dei grandi maestri del novecento. In “Al mi moèni” abbiamo numerosi esempi di questo tipo: i verbi “garavloè”, “spanucè”, “gramloè”, spuntecia” risaltano per la loro “rarità” , così come il termine “pòinz” , preciso al punto da indicare una parte del sacco, quella che si afferra per poterlo sollevare. Si tratta, come si era già evidenziato per il lessico relativo ai pezzi del telaio, di vocaboli riferiti ad attività tipiche del mondo contadino e preindustriale, divenuti rari in quanto riguardanti pratiche ormai del tutto abbandonate. Accade così che uno dei principali elementi di “modernità” della sua poesia, e cioè appunto la grande attenzione nelle scelte terminologiche alla ricerca della massima precisione espressiva, poggi proprio sulla sapienza antica che la poetessa ha maturato nel corso della sua vita di donna umile ed operosa, trascorsa per gran parte a contatto con una realtà povera e preindustrale. Uno degli esempi più significativi di questo apparente paradosso è la poesia E’ bioigh, dove l’arcaismo prezioso è già nel titolo, tanto che sul retro dell’autografo inviato alla curatrice, Giuliana si sente in dovere di spiegare:

 

“e biogh o e bioic (mi informerò) era il ragazzo che guidava le vacche o i buoi quando aravano”[235]

 

In questo caso il vocabolo è così desueto che nemmeno lei è sicura della pronuncia. Seguendo un iter compositivo già individuato come tipico per i
testi di questa seconda raccolta, la poetessa ne redige due differenti stesure, poi ulteriormente riviste per la versione definitiva, che qui di seguito si riporta:

 

E’ bioigh quéngg àn u s’éra manói se su scarminèl ben lichéd

l’era pràunt pr’andoè a la fira u i l’éva prumèss l’azdàur.

5              L’azdàura la l’éva impruntè:- D’ét d’andoè um  poèr cu t’apa liché la vaca manzòina smanti smanti u iè al bès-ci da guarnoè

bsògna andoè a zarloè, l’è àura ad sèmna, e e’ temp

u s’inscuréss.[236]

 

Il v.5 in particolare appare in tre redazioni diverse. Nella prima versione, identificata come tale da una nota posta a margine dell’autografo dalla curatrice, appare così formulato: “la padràuna la l’éva farmoè”; nella seconda è poi modificato in “la su moi la l’éva impruntoè” prima di arrivare la definitivo “L’azdàura la l’éva impruntè”. In questi passaggi si vede proprio come la poetessa sia andata deliberatamente in cerca dei termini dialettali più tipici ed arcaici, anche laddove lei stessa di primo acchito era stata propensa all’uso delle forme correnti nel dialetto contemporaneo come “padràuna invece di “azdàura” o “farmoè” al posto del raro “imprunté”. Naturalmente la scelta linguistica incide sulla pregnanza semantica: il termine azdàura evoca la padrona di casa delle grandi famiglie patriarcali contadine, una figura sociologicamente e storicamente ben definita, nonché spesso connotata nell’immaginario popolare come particolarmente dura e potente, durezza perfettamente espressa dal verbo che indica il suo gesto in questo passo: imprunté” non significa semplicemente fermare, ma fermare con mani,
lasciando la propria impronta, cioè mettendo le mani addosso e mostrando così tutta la propria autorità. Il discorso della temibile azdaura è infatti mirato all’umiliazione del povero ragazzo, che viene deriso, costretto a svestirsi (“smanti smanti”) ed a riprendere il suo lavoro. Nelle parole che la donna usa per umiliare il garzone di nuovo la Rocchi sfrutta molto abilmente la polisemia, in questo caso il doppio significato del verbo “liché”. Al v.2 compare usato nel senso traslato e un po’ ironico di “curare in maniera scrupolosa il proprio l’aspetto”, per cui lo “scarminèl” del garzone era “ben lichèd”; al v. 6 l’azdàura lo usa nel senso letterale di “leccare”, “um poèr cu t’apa liché la vaca manzòina: dal suo punto di vista il ragazzo non è affatto ben curato, ma sembra leccato da una vacca e per di più “mancina”, cioè maldestra al massimo. Più avanti nel testo compare un altro verbo desueto e tecnico, “zarloè” sulla cui appropriatezza la stessa poetessa ha dei dubbi, espressi sempre in forma di nota autografa a margine del testo manoscritto:

 

Zarloè, non so se è il termine esatto (chiederò) voleva dire raffinare la terra dopo che in agosto era stata arata prima di seminare”[237].

 

 

Come prima a proposito del “biogh” Giuliana esprime dubbi sui termini che ha scelto di usare, segno che anche per lei sono arcaici, non facili ed immediati. Tuttavia li ricerca, verifica la loro precisione, evidentemente ben consapevole che il loro uso impreziosisce ed eleva i suoi testi. Ed in effetti anche quest’ultimo componimento considerato, sebbene si richiami a vicende del mondo contadino, usando al meglio, come abbiamo visto, la lingua del popolo, è ben lontano nella forma e nei toni dalle satre popolari. Si consideri anche la posizione grafica del verso di chiusura, volutamente distanziato dal resto per farlo risaltare, secondo un espediente della più tipica poesia novecentesca, cosicchè appaia più evidente il nesso implicito tra il cielo che si
rannuvola e lo stato d’animo del povero garzone, divenuto cupo come il tempo che “u s’insuress”.

L’analisi di questi testi evidenzia chiaramente come la Rocchi abbia maturato negli anni la capacità e la determinazione di produrre poesia attraverso un lavoro consapevole sul testo poetico, alla ricerca della forma più appropriata, del termine più pregnate, della variante migliore. Fermo restando il carattere “occasionale” della sua ispirazione, nel senso che è da vicende vissute o di cui è stata testimone che la poetessa trova gli argomenti di cui scrivere, la sua non può essere definita poesia “spontanea” nell’accezione che comunemente si dà a questa definizione (cioè prodotta direttamente, senza mediazioni e senza successive riflessioni od elaborazioni). Può darsi che fosse così in una prima fase, all’epoca delle satre apparse su “Tuttosantarcangelo”. Di certo lo studio degli autografi dimostra che non è più così nel momento in cui Giuliana raggiunge la maturità artistica. Che in questa evoluzione l’amica e mentore Rina Macrelli abbia avuto un ruolo io credo sia fuori di dubbio e la sua influenza si è realizzata in due direzioni: sul piano strettamante poetico, valorizzando i suoi componimenti più moderni ed impegnati (cfr. par II.1), l’ha indotta a privilegiare questo genere di poesia nella produzione successiva; ma soprattutto sul piano umano l’ha resa consapevole del proprio valore in quanto poetessa battendosi per la pubblicazione della prima raccolta. Nel momento in cui il mondo esterno, grazie al successo de La vòita d’una dòna, l’ha pienamente riconosciuta in questo ruolo, Giuliana stessa ha cominciato a credere fino in fondo nel proprio lavoro e dunque ad impegnarsi al massimo per miglioralo.

A fronte di un raffinamento degli strumenti espressivi sul piano linguistico-formale, anche dal punto di vista dei contenuti la seconda raccolta si presenta più articolata e strutturata. La dimensione autobiografica che attraversa La vóita d’una dòna diventa qui la base per la scansione del libro in sezioni: Ròbi da burdèli (infanzia), Un bulèva e’ sangv (giovinezza), La
saléuta dla zitèla (maturità), Al svégli móti (vecchiaia). Laddove nella prima raccolta la rievocazione dell’infanzia era legata alla figura del padre, qui è recuperata la memoria della madre, morta quando la poetessa era ancora molto piccola. A cominciare da Tra i sas, un componimento carico di ascendenze guerriane:

 

 

 

 

Du c’l’éra la mi coèsa

da burdèla

l’è crisèu l’érba

adès l’è dvént un òrt.

5

Tra i sas di méur

che l’à lasoè la guèra

do tre  lumèghi

a s’éra andè a zarcoè

e sòta un cop d’imbòc

10

ardòta un pògn ad ròzna

ò tròv la cèva granda

c’a n’éva zarcoè piò.

U m’è vnu in mènt

e’ béus dla sradèura […]

15

cla pòrta vècia

senza piò culàur.

Ma quel che piò di tòt

am so arcurdoè

ca i simi tòt

20

e u ièra la mi ma. [238]

 

 

I primi quattro versi richiamano la quartina iniziale della Cantèda dis de E’ mèl, con il tema della vita che rinasce tra le rovine (“Adès u n i sta piò niséun/tla chèsa ròsa davènti e’ prè […]/Al persièni al cèula e al casca a pézz/e dróinta l’è criséu l’élbar d’un pésgh […][239]), i versi seguenti riprendono il topos del cercare tra i sassi e le macerie, dove spesso capita di
trovare qualcosa di prezioso ed inaspettato (cfr. Zarché[240]). L’oggetto ritrovato è una chiave, altro simbolo caro a Guerra (cfr. La cèva[241] ), che riporta alla memoria della poetessa la vecchia porta di casa, la famiglia riunita e la madre ancora presente. La tragica circostanza della sua morte è invece rievocata ne La bumbòza, un altro testo su cui Giuliana deve aver lavorato a lungo. Ne esistono infatti tre stesure: oltre a quella riportata nella raccolta in oggetto, una versione significativamente differente è pubblicata con il titolo La mi bumbòza in quella postuma curata da Rita Giannini, cui è da aggiungere una terza ancora diversa (ed inedita), reperibile tra gli autografi conservati nell’archivio Macrelli. Il testo così come appare nella raccolta postuma rappresenta verosimilmente la prima stesura[242], l’autografo inedito una redazione intermedia, ma già molto vicina a quella definitiva, qui di seguito riportata:

Al l’éva fata mè

aveva snò nóv àn

la iéra tóta ad pèza

s’un bel stói ròss ad pàn.

5

Um paréva una burdlina

e lam piséva che mai

ma pu a la dasétt véa

per càulpa d’un gran guai

ma la mi Nanda znina

10

c’ la n pianzéss

c’la s’foss doè poèsa

quand che da la colonia

la iera tàurna a coèsa.

A n’i panséva piò

15

cridóil ma la bumbòza

la mòrta dla mi mà

la iéra stè piò gròsa.[243]


Il tema della perdita della madre si intreccia a quello della solidarietà verso la sorella più piccola, che si concretizza nel dono della bambola tanto amata.

La differenza più significativa riscontrabile nell’autografo è la presenza di un verso che esplicitava prima del finale la notizia della morte della madre, collocato tra il v.11 e il v.13: “c’la s’foss doe poesa/la mi ma la n iera piò/quand l’era taurna a coesa.[244] La sua eliminazione nel passaggio alla redazione definitiva rende molto più efficace l’intera poesia: il tragico annuncio è ritardato il più possibile, accentuando l’effetto-sorpresa per il lettore e moltiplicando la drammaticità della notizia. Si tratta di un ulteriore esempio della perizia poetica della Rocchi che si realizza attraverso la ripetuta riscrittura e revisione dei propri testi. Il motivo della solidarietà ritorna nel componimento dedicato alla matrigna, figura reale e positiva, a fronte della madre che resterà niente di più che un ricordo evanescente:

 

 

da La mi matrègna

 

 

[…La s’éva ciap ma tre surèli e

la s’à vléu un gran bèn.

La è mórta c’l’avéva utoènt’an.

Tótt i burdéll dla cuntroèda

i l’ éva ciamoè nòna

e i burdéll

il sa parché.[245]

 

 

Se queste prime poesie ne mostrano il lato più umano ed edificante, a dire il vero il mondo dell’infanzia e della realtà contadina come rappresentato in questa seconda raccolta è fatto soprattutto di sfruttamento e duro lavoro. Già
si è vista la triste esperienza del garzone maltrattato da l’azdàura ne E’ bioigh[246]. La tematica del lavoro minorile ritorna in altri componimenti della prima sezione: Lavandoèra, in cui una madre trascina la figlia (il testo dice: La Palmira/la su burdèla znina” a rimarcarene la tenera età) in piena notte a fare il bucato al fiume; I òt verboèl dlà Marina dove il maresciallo dei carabinieri ferma due ragazzine che per sfamare la famiglia se ne andavano all’alba a vendere abusivamente il pesce; L’urzìn con al centro una bambina di sette anni alle prese con un grosso topo mentre dalla fonte doveva portare l’acqua a casa; infine la poesia che dà il titolo alla raccolta

 

La Madòna di Garzèun

 

 

Ma la Madòna di garzèun

i i à fat la fugaròina

però i témp i n’è cmè próima

quand i vinzòic ad moèrz

ormai tótt i andéva scoèlz

a sapoè éulta i cantir.

L’éra e’ dè, quèll, di cuntràt:

oènca s’i rugèva cumè i màt

i purtéva chi burdéll

sa chi du straz pin ad brandéll

bèn dalòng da du ch’i stéva

ch’i n’avéss da turnoè indrì.

E quant pient là sòta i tétt

at chi paiàz si cavalétt.

E’ dè sal pigri véa in campagna

s’un pez ‘d poèn tla su gavagna.[247]

 

Si tratta di un testo di una durezza estrema, che la Rocchi sceglie di veicolare attraverso una struttura poetica semplice e tradizionale: sedici versi a rima baciata (con poche eccezioni) di novenari e settenari alternati. Niente più
solidarietà né compassione: il mondo contadino è qui raffigurato in una delle sue manifestazioni più abberranti, la crudeltà degli adulti, dei “padroni” verso i ragazzini, i garzèun, letteralmente rapiti come agnelli sacrificali tra i pianti inascoltati (“oènca s’i rugèva cumè i màt”), allontanati volutamente il più possibile da casa (“ch’i n’avéss da turnoè indrì” ) e spediti tra le pecore con il minimo per sopravvivere. In tanto “buio” delle coscienze resta solo la luce dei falò (le facorine) che ancora si accendono in quel periodo dell’anno in onore della Madonna, a rischiarare a tener viva la memoria di quel passato terribile.

E così la Madòna di garzèun diventa una metafora della poesia stessa che si fa carico del compito, del dovere morale di ricordare, di far rivere nei suoi versi il pianto disperato dei garzoni-bambini, le storie di tutti i poveri e gli sfruttati che la moderna opulenza rischia di lasciar cadere nell’oblio.

Con lo stesso intento alcuni componimenti della seconda e terza sezione denunciano le ingiustizie tipiche del mondo contadino nei confronti delle donne in quanto tali: il tema del pregiudizio e della libertà sessuale negata appare ne La malediziàun dla su ma, un testo anche questo durissimo in cui una madre maledice in punto di morte la figlia zoppa per aver voluto vivere l’amore nonostante la sua infermità:

 

 

Una famèia ad purétt clu’d Dio u iéva mand par zàunta

una fiòla sgrazièda una bèla burdèla ma zòpa.

Da zòvna

scartoèda da i raghézz

la s’éra mèsa s’èun cl’éra maridèd.


[…] Pianzénd lam racuntéva

e’ su calvoeri:

par sérva tót la vòita

la zènta la i vultéva al spali

e la su mà

murénd

la ièva làss

è pètan se camòin.[248]

 

Il senso oscuro di questa maledizione è spiegato dalle parole stesse della Rocchi che accompagnano l’autografo del testo, ed indirizzate alla curatrice:

“Sta mamma morendo aveva maledetto sta figlia che non aveva avuto più pace. Il pettine sul camino voleva dire: sarai pettinata con il pettine che hai pettinato noi.”[249]

 

L’italiano è un po’ sgrammaticato ma il senso appare chiaro: la madre augurava alla figlia di soffrire le stesse pene che il suo comportamento “libero” aveva inflitto alla famiglia gettandola nel disonore. Il malinteso senso dell’onore è pure al centro della poesia omonima (Unàur), dove la violenza sessuale diventa vergogna per chi la subisce: un neonato viene abbandonato dal nonno perché non apparisse “la vargògna d’una fióla” e per la pavéura/che e’ padràun e’ foss zcvért[250]. Nella poesia Dòni l’elenco delle fatiche delle donne di tre generazioni (la nonna, la madre malata, la poetessa) è chiuso da amarissima considerazione:

 

[…] Am so alvoè una vóita intìra la matòina te schéur

per lavuroè

ma cmè la mi nòna e la mi ma

l’è l’istess ca n’apa fat gnènt –

a sém dòni..[251]

 

 


La denuncia delle ingiustizie sociali diventa polemica antipadronale aspra ne E’ sangv di purétt: “S’i n foss stoè schìv/cio’, sti mescóin,/i t’avrébb bèu e’ sangv/cmè foss vóin[252]. Sebbene l’ipotesi sia posta al negativo, l’accostamento del sangue al vino associa l’immagine dei poveri a quella del Cristo sacrificale (è propriamente nella Messa che “il sangue si fa vino”) e fa dei padroni una razza spietata, quasi ferale e sacrilega.

In un mondo così duro, l’amore resta un sentimento difficile da esprimere e da vivere. La giovinezza pulsava nelle vene (“um buléva e sangv/avéva vóint an” dice la poesia che dà il titolo alla seconda sezione) ma tutto quello che potevano fare le ragazze era prepararsi alla meglio un corredo per il matrimonio: “Quand e’ furmantàun / e’ cminzéva a sgrigné i dìnt/al dòni al stéva alèrta – al le rubèva ad nòta/per to’ e’ corèdo […][253] , ed intanto vivere di nascosto i primi turbamenti:

 

 

da A m’arcòrd

 

 

[…] E’ pu lì, l’arvura.

Sòta la su ombra granda

sa lèu i pròim inchéuntar

al pròim prumèssi

al pianzèudi […][254]

 

 

Dai testi presi fin qui in esame risulta evidente come in questa seconda raccolta si sia molto affievolita la vena ironica e giocosa tipica delle prime satre, poi messa un po’ in secondo piano (cfr. par. II.1) ma ancora ben presente ne La vòita d’una dòna. Non a caso l’unico testo davvero leggero ed ironico, I mi du viàz in zità par truvoè maroid, inserito nella sezione La salèuta dla zitèla, riporta parti di due satre composte molti anni prima (nel
142 1972) sul tema della ricerca del marito, pubblicate su “Tuttosantarcangelo” ma scartate per la prima raccolta. Oltre che più seria e consapevole dal punto di vista dell’impegno nella scrittura e revisione della propria poesia, la Rocchi sembra divenuta decisamente più malinconica, a tratti cupa nella propria ispirazione. Anche quando l’ironia è presente, o sfiora il sarcasmo, come nei testi politici dedicati all’attualità (cfr. Tribéuna polética, in cui i politicanti sono come i ladri di Pesaro che di giorno litigano mentre di notte “ i va a foè bisbòcia/si bòc di pataca[255]), o si colora di humor nero, come nel componimento dedicato a La Ròsa ad Camaroèn che “per quaiunoè la mòrta/la tnéva la casa/sòta e’ lèt;/e ogni toènt/la la pruvéva.[256] . I lutti personali che nel giro di pochi anni l’hanno colpita, ricordiamo la morte dell’amico Pedretti, quello della sorella Nanda e poco dopo la perdita dell’altra sorella Ida, possono aver pesato in questo senso. Non a caso l’ultima sezione della raccolta, quella dedicata alla sua terza età, è attraversata dal tema della morte, che non assume più, come accadeva ne La vóita d’una dòna, i tratti asettici dell’estrema dispensatrice di giustizia (“La mórta […]/la to’ so tót/vécc, zovan, burdéll/ ènca i padrèun[257]), ma diventa esperienza dolorosa di perdita, attraverso la sofferenza e la malattia. Senza risparmiare nemmeno gli animali:

 

da La mi gatina

 

 

[…]Stamatòina i l’à mazoèda

slònga, tla stroèda, dri un canzèl. […]

Slè vargògna un m’arimpòrta

ò pianzèu

la mi gatina lan gnè piò

u m’è arvoenz

e’ su litìn
sl’arvólt

e i rasp me còl.[258]

 

Giuliana, che ha sempre amato dare di sé, attraverso la sua poesia, una immagine di donna forte ed autoironica, non teme qui di sfiorare il patetico pur di dare voce alla commozione sincera che la pervade, e sfida il giudizio del lettore (Slè vargògna un m’arimpòrta ò pianzèu) consapevole di questo rischio. La morte che ha duramente colpito il mondo dei suoi affetti richiama l’idea del tempo che passa per tutti inesorabile, nonostante ormai la civiltà moderna faccia di tutto per negarlo a se stessa. A questo proposito Giuliana inventa un simbolo molto efficace, davvero degno di un grande poeta, quello delle “svégli móti”, che diventa il titolo dell’intera sezione: “I li à ormai/strulgoè tòti/i à invantoè/al svegli mòti[259], di modo che lo scorrere del tempo non faccia più rumore, non sia più avvertibile. Ma il fatto è che il tempo passato tra le fatiche e il duro lavoro, ha lascitato impronte indelebili sul suo corpo, che lei stessa non può più ignorare: le mani sono cosi grosse e callose che non riesce più a chiuderle (cfr. Al mi moèni), i piedi invece “i è vécc/pìn ad durèun e ad càl,/chi sténta a tnàim in pì[260], e i denti sono caduti proprio ora che non manca il pane (“adèss e’ poèn us bòta vèa/ e i dint/i m’è casc tòtt.”[261]). Il corpo logoro, i lutti, gli anni che passano sembrano aver fiaccato Giuliana anche nella sua più grande passione, che in questa raccolta ha assunto anche il valore di un vero e proprio dovere morale (cfr. a quanto detto a proposito di Admoèn ch’ilt e La Madòna di garzèun), quello di continuare a scrivere:


Um la las dètt Nino

in fòin d’vòita

c’mè par testamènt

scroiv Giuliana

5              La Rina

lam da t’nessa

par la stessa stòria

e se un bastess

ènca Buttitta

10              un doi

da doem da foe

che neun a s’nandoem

e i scret i resta

ma pr’ades

15              l’è svoita la mi testa

              ho veu trop da pansoe

              m’un po ‘d niquel[262]

 

Sono i versi dell’autografo da cui è stato estratto il componimento che chiude la raccolta, intitolato E scròiv. La versione pubblicata è molto più breve, taglia tutta la parte iniziale (fino al v.9), secondo il criterio della decontestalizzazione che era già stato applicato nella revisione dei testi per la prima raccolta (cfr pag. II.1). Mi è sembrato qui opportuno riproporre il testo nella sua interezza perchè Giuliana aveva scelto di citare per nome le persone che continuavano a spronarla a scrivere: il vecchio amico Nino in punto di morte, l’amica Rina che lo ha fatto da sempre e il nuovo amico, il celebre poeta Buttitta, i compagni di una vita tutti uniti e concordi. Ma la testa della poetessa è ormai vuota (proprio come scrisse a Rina dopo la morte di Nanda: “non ho scritto più niente, ho la testa vuota”[263] ) troppi i pensieri, troppe le preoccupazioni. Così la raccolta che per molti aspetti rappresenta l’apice della sua maturità artistica e della sua carriera poetica, si chiude con una dichiarazione di resa della Giuliana poetessa. Le ultime energie che le restano saranno spese ad onorare fino in fondo quel ruolo di donna e lavoratrice che
in lei ha sempre e comunque avuto la priorità su qualsiasi velleità letteraria. In un intervista rilascita al giornale della sezione locale del PCI nel 1990 alla domanda dell’intervistatore sul perché non scriva più, risponde:

“Perché non ho più tempo, visto che sono tutto il giorno a Gambettola ad aiutare i miei ragazzi e torno a casa stanca ammazzata”[264]

 

Anche questa in fondo è una scelta morale. Giuliana non riuscirà a mettere insieme il terzo libro che da più parti le chiedono, lo faranno altri per lei dopo la sua morte. E così quell’ “Admoèn ch’ilt “ assumera ancora un altro significato.

 

 

 

I dieci anni che vanno dall’uscita de La Madòna di garzèun nel 1986 alla scomparsa di Giuliana avvenuta nel 1996 si caratterizzano da un lato per il persistere dell’interesse nei suoi confronti sia da parte dei media e delle istituzioni locali che degli ambienti culturali con cui era venuta in contatto (i gruppi femministi, gli esperti di poesia dialettale e folklore, il gruppo della rivista “Abiti-Lavoro), dall’altro per una crescente stanchezza e difficoltà da parte sua a continuare a scrivere e presenziare agli incontri pubblici.

Nel frattempo il nome della Rocchi viene conosciuto anche all’estero. Nel 1988 una casa editrice femminista tedesca (il nome è già tutto un programma: Frauenoffensive) inserisce alcune sue poesie, riportate nell’originale dialettale con traduzione a fianco, in un’antologia che raccoglie scritti sia in prosa che in versi di autrici italiane contemporanee tra cui la poetessa e romanziera Dacia Maraini, l’antropologa saggista Ida Magli, la stessa Rina Macrelli, la giornalista Adele Cambria, per citare solo qualche nome tra i più
illustri. Il volume si intitola Italien der frauen[265] ed è stato curato da Monika Savier e dall’italiana Rosanna Fiocchetto, un’attivista femminista amica della Macrelli, alla cui iniziativa naturalmente si deve questa ulteriore divulgazione dell’opera di Giuliana. Le poesie scelte sono quelle già individuate come le più “impegnate” nel descrivere la fatica delle donne (cfr. par. II.2 e par. III.2): Te viél di sgnèur a Reman, E’ Lavadéur vèc, Al mi moèni, E’ coredo. La circostanza sembra aver accresciuto la gratitudine già grande che legava la poetessa all’amica Rina, al punto che le dedica una poesia, disarmante per la semplicità del messaggio e la sincerità dei toni:

 

Te pòst de monument ch’i vò cavoè

a t n’un faz éun ma tè, mai avrébb pasoè próima’d murói

d’andoè a finói in Germania [266].

 

L’espressione iperbolica di riconoscenza tipica del registro colloquiale “a t faz un monument” viene qui riproposta con un’allusione polemica alla discussione in corso a Santarcangelo in quel periodo se spostare o meno il monumento ai Caduti dalla piazza principale (e così in tre brevi versi si fondono due messaggi distinti), mentre la parte finale esprime tutto lo stupore, e la sottesa umiltà, a fronte di una notorietà del tutto impensabile (“mai avrébb pasoè”) prima dell’incontro con la destinataria dei versi. L’autografo di questo testo, insieme a quelli di altri due brevi componimenti (Pensir e La moda) è stato inviato dalla Rocchi a Rina il 10 ottobre del 1988, come indica
la minuta[267] che li accompagna. Le tre poesie costituiscono un primo nucleo di quella che avrebbe dovuto essere la sua terza raccolta, e che non fu mai completata. Il menabò di questa ipotesi di nuova opera è conservato nell’archivio Macrelli, datato maggio 1990, e reca il titolo di Coèrti persi, un riferimento ai foglietti volanti su cui ancora a quell’epoca, dopo due raccolte pubblicate, il successo ed i riconoscimenti a vari livelli, Giuliana continuava a scrivere la sua poesia. “O pérs i dint /ta t’imàzin al coèrti?” recitano i due soli versi del componimento così intitolato, tutto giocato su di un doppio senso che genera un’amara autoironia: “perdere” nel significato di “essere privati di qualcosa”, come nel caso dei denti è ben diverso dallo “smarrire” per disattenzione! L’indice contiene ventidue titoli, i testi sono dattiloscritti e presentati in quella che doveva esserne la versione definitiva, anche in questo caso evidentemente ricavata dopo un accurato lavoro di riflessione e revisione degli autografi[268]. Questi infatti mostrano in più parti una redazione tormentata, con doppie stesure, come nel caso della poesia dedicata alla sorella scomparsa L’eultum arcord dla mi Nanda[269], cancellature, aggiunte e proposte di varianti, secondo le modalità già descritte a proposito della preparazione della seconda raccolta. I componimenti si caratterizzano per la loro brevità, sia nel numero che nella lunghezza dei versi, e per il prevalere di toni malinconici come in questa poesia dedicata al mare:

 

E’ moèr

 

 

E’ moèr e’ sta murénd

i fiómm i l’à invlenoè

e’ zil u i guoèrda e e’ pianz

ma léu i ne vaid piò.[270]


Il tema centrale è quello della memoria, collegato al ricordo di persone care scomparse, a cui è sottesa l’idea della morte: la sorella Nanda, il padre (E’ dvanadèur de mi ba’, Uraziòun de mi ba’), le vecchie amiche in poesie come Doni ch’ò cnusèu e La Tóina, qui di seguito riportata ad ulteriore esemplificazione del tono generale di questi testi:

 

O pianzèu

l’è mórt la Tóina sultoènt lì

la éva lavoè i pan

ma la mi mà tuberculòusa

perché

i su fiùl

i éva foèma.[271]

 

Il dolore per la morte della donna è l’occasione per rievocare antiche sofferenze legate alla malattia della madre ed alla miseria nera che portava alla fame. Si accentua insomma la tendenza delineata nell’ultima sezione de La Madòna di garzèun: un senso di resa e di sconforto per i tanti lutti ed il tempo che passa sta prendendo il posto dell’ironia bonaria e della forza vitale tipiche della sua prima produzione. Per nostra fortuna queste ultime carte di Giuliana non sono andate perse: le ha recuperate ed edite dopo la sua morte Rita Giannini, nuova amica e mentore della poetessa negli ultimi anni della sua vita[272]. La Giannini aveva conosciuto la Rocchi nel 1985, quando si occupava di gestire e promuovere le attività culturali per il comune di Santarcangelo. Questo suo incarico l’aveva portata a frequentare gli intellettuali e poeti locali, compresa Giuliana, con cui
era presto nata una sincera amicizia. Si incontravano settimanalmente, Rita la andava a trovare a casa sua nelle contrade e si tratteneva con lei per la cena (pare che amasse molto cucinare per gli ospiti) e la descrive come una persona molto affabile ed estroversa, che nutriva nei suoi confronti un affetto quasi filiale. Nei loro incontri Giuliana parlava molto di sé e della sua vita presente e passata, ma anche del “terzo libro” che da più parti le veniva richiesto, e che non riusciva a mettere insieme. Anche Rita tentava di spronarla in questo senso, ma i suoi sforzi sembravano vani. In una sua minuta alla Macrelli dell’ottobre 1990 scrive:

 

“In quanto al fatto di stimolarla a scrivere, comincio a dubitare di essere in grado di riuscire. Forse la colpa è tutta mia, non la seguo abbastanza e non sono certamente brava come lo sei stata tu.”[273]

 

In realtà, come traspare dalla sua produzione poetica di questo periodo, in Giuliana la stanchezza aveva preso il sopravvento, anche se nelle occasioni pubbliche importanti cercava ancora di apparire vitale ed ironica come sempre. Tra gli incarichi della Giannini, era anche quello di accompagnarla agli incontri pubblici a cui continuava ad essere invitata. Il 26 novembre del 1990 una nota emittente locale, Tele Romagna, organizza una serata dedicata alla città di Santarcangelo e la Rocchi diventa la star dell’evento mediatico. Sulla Gazzetta di Rimini del giorno seguente si legge:

“Moltissime le persone che hanno assistito allo spettacolo. Tutta la città ne ha parlato e non pochi complimenti sono andati a Giuliana Rocchi, che ha recitato alcune delle sue straordinarie rime […] Il suo verismo, misto ad una fantasia ed a una sensibilità particolarissima, ha strappato gli applausi dell’intero studio. E non sono mancate, come sempre accade, le sue battute dense di ironia e di spirito.”[274]


La circostanza è riferita da Rita in una minuta alla Macrelli, che da Roma non poteva aver visto la trasmissione:

 

“Tra tutti i presenti è quella che se l’è cavata meglio. Tanta la sua disinvoltura e la carica di simpatia […] avresti dovuto vederla! Ho vissuto questo fatto come fosse un richiamo ad una rinnovata vitalità che temevo Giuliana avesse messo da parte. Certo non dovrei nemmeno pensarle certe cose, è che troppo spesso lo constato. La vedo stanca, molto stanca e non solo fisicamente. Io ne soffro molto e non sono capace di fare nulla.”[275]

 

Dunque il vero stato d’animo di Giuliana non era sfuggito all’amica, che sentiva di non poter far molto per lei e se ne dispiaceva. Negli anni seguenti sopraggiungeranno anche disturbi fisici, legati all’età ma certamente favoriti dal fatto che la poetessa avesse passato l’intera esistenza a lavorare duramente, con episodi anche gravi, come nel caso di una trombosi che l’aveva portata vicina alla morte. Per quanto stanca e malata, sopravvivere ad un simile evento non poteva non ispirarle una piccola satra:

 

A so arvata se cavdoèl

e par andoè bsògna avài moèl.

Par un dàid tla fétatrice

pu un oènt tla roccatrice

i à vést che a stéva in pì

e i m mandéva sémpra indrì

mo stavólta, par la miséria,

la fazènda la è stoè séria

a dégh sémpra ch’a sò mata

mo un’oènta bòta e la éra fata.

L’è stoè própria la trombosi

un insén ad toènti cósi.[276]

 


Il tono scherzoso dei primi versi lascia il posto ad una riflessione più seria nel finale, che richiama da vicino la chiusura della poesia E’ scroiv ne La Madòna di garzèun (cfr. pag. 147): come lì ammetteva di avere la testa vuota per aver sempre dovuto pensare a un po’ di tutto, qui la trombosi diventa la conseguenza di “un insieme di tante cose”, i dolori, gli affanni, i pensieri di questa ultima stagione della sua vita. Tra cui certamente deve esserci stato il rimpianto per non aver potuto sposare l’uomo che tanto aveva amato (cfr. par. III.1). La Giannini riferisce di come spesso Giuliana ne parlasse, convinta che il suo amore fosse sempre stato ricambiato e che lui l’avesse abbandonata solo per ragioni di opportunità. Si chiamava Aroldo Sancisi, un avvocato rampollo di una famiglia santarcangiolese molto in vista, che per vari motivi osteggiava la sua relazione con la Rocchi, compreso lo scandalo generato dal fatto che sua sorella Ida avesse avuto un figlio senza marito. L’uomo si era poi sposato ed era andato a vivere a Milano, forse con l’intento di allontanarsi fisicamente da lei, ma la poetessa raccontava di come avessero trascorso insieme anche la notte precedente le nozze[277]. Molti anni dopo, nel 1990 in occasione della costruzione della fontana in Piazza Ganganelli, la moglie aveva elargito una certa somma per contribuire alla sua realizzazione e fare apporre una targa a memoria del marito nel frattempo scomparso[278]. Toccata da questa circostanza, Giuliana scrive una poesia che testimonia tutta la sua sofferenza repressa:

 

 

 

I à sempra détt

che i baiócc

i manda l’aqua d’in so.

U i è e’ progèt d’una vasca alimèntoèda sl’acquedótt.

 

 


 

La vasca ch’la dórma invéci

te mi cór da zinquènt’an

la è stoèda impóida ad loègrimi

che  è temp u n à mai

putéu sughé..[279]

 

Anche questa è in fondo una dichiarazione di sconfitta: laddove i soldi, che lei non ha mai avuto, hanno avuto la forza di invertire il corso naturale delle cose, nel senso che proprio le valutazioni di opportunità sociale ed economica hanno spinto l’uomo che l’amava lontano da lei, niente, nemmeno il tempo ha potuto asciugare le lacrime versate per quella che la poetessa sembra aver percepito come una forma estrema di ingiustizia sociale. Ai rimpianti ed ai dispiaceri personali si aggiunge la tristezza di vedere il “paese vecchio”[280] snaturato ed abbruttito dall’incuria e dalla smania modernizzatrice:

 

I à mèss i lampiéun zàl

chi sa ad teróizia […]

al nòst capàni

agli è tótti crepoèdi

e quèst l’è stoè

la sórta dal Cuntroèdi

 

 

un sach ‘d tumbóin

i è tótt éun dri ma ch’ èlt

pruvé immazinoè

u m poèr d’ès própi

te camposoènt

si mèur chi è pin ‘d spurtéll.[281]

 

Un componimento questo che evoca dal primo all’ultimo verso immagini di malattia e morte, fino all’identificazione delle Contrade, che vale la pena
ricordarlo sono sempre state la casa di Giuliana, con il cimitero. La vitalità, l’ironia delle satre, ma pure la vis polemica dei testi di denuncia sociale ha ormai lascito il posto a questa poesia malinconica, su cui aleggia costante l’idea della morte.

I critici che in quel periodo hanno scritto della Rocchi non hanno avuto modo di conoscere questi testi, che sono stati tutti pubblicati postumi, e continuano a fare riferimento alle caratteristiche più tipiche della sua poesia, come individuabili nella prima raccolta. Così Davide Argnani, in un lungo ed appassionato articolo apparso nel 1989 sulla rivista culturale da lui creata e diretta, “L’ortica”, ne esalta il vitalismo che traspare nella forza espressiva delle satre e la naturalezza, l’assoluta mancanza di artificiosità del suo linguaggio poetico:

 

“Giuliana Rocchi: una donna eccezionale che senza strumenti linguistici sovrastrutturali ha la capacità di comunicare il ribollire del proprio esistere in modo efficace, diretto, saettante e luminoso da sapersi trasformare in canto autentico e in una poesia colma di energia inusitata […] E non è diminuire la qualità della sua arte il dire che Giuliana scrive come parla, perché lei parla solo la propria lingua madre, il dialetto di Santarcangelo, come

l’acqua sgorga dalla roccia. [282]

 

Un giudizio simile è quello espresso da Flavio Nicolini, nelle sue Lettere per un’antologia di poeti in dialetto romagnolo apparse sulla rivista “Il lettore di provincia” nel dicembre 1990, secondo Rina Macrelli “uno dei contributi critici più importanti mai usciti sulla poesia della Rocchi”[283]. Lo scrittore concentra la sua attenzione sulle peculiarità del rapporto tra Giuliana ed il dialetto, che per lei è e resterà lingua viva, diversamente dagli altri poeti santarcangiolesi che cercano di tenerlo artificialmente in vita attraverso la letteratura:

 


“La Rocchi racconta in purezza dialettale la  sua vita; e pensa, grida, piange, ride dall’interno di un dialetto che non ha il minimo sospetto di essere anche letteratura […] Lei non sa che il dialetto sta morendo fra le labbra e la macchina da scrivere di alcuni poeti colti i quali cercano di tenerlo in vita. Per Giuliana la lingua della madre e del padre non morirà mai […] E’ tuttora vivissima.[284]

 

Piromalli invece, durante la sua relazione al Convegno sulla poesia dialettale romagnola del Novecento, tenutosi a Santarcangelo nel dicembre 1991, pone l’accento sulla dimensione politica dei suoi versi:

 

“La sua è una storia personal-politica di liberazione nei modi ereditati dal padre che recitava le satre nelle stalle, in un dialetto vigoroso che è la sua prima lingua e che è usato con fierezza […] Il cerchio del lavoro di carattere manuale è sentito come una necessità; su di esso gravano padroni e ‘pidocchi rifatti’: nel lavoro tra eguali - ricco di solidarietà, di aggregazione, di vitalità- è il progetto etico della Rocchi[285]

 

Sebbene questi contributi siano tutti posteriori al 1986, anno in cui ricordiamo era uscita La Madòna di garzèun, nessuno di loro fa riferimento all’incupirsi della vena poetica, al senso di stanchezza che già appare evidente nell’ultima sezione di quella raccolta (cfr. pag 136). La verità è che ancora manca uno studio critico organico sulla poesia della Rocchi, che ne individui ed analizzi anche le linee evolutive, oltre ai caratteri generali che in molti[286] hanno invece saputo cogliere. E questo accade perché, nonostante le opere pubblicate, il successo di pubblico a livello locale e l’interesse manifestato da autori e studiosi anche importanti, il suo lavoro è rimasto sottovalutato rispetto alla produzione degli altri grandi santarcangiolesi. Di questa situazione è ben consapevole Gualtiero De Santi, grande estimatore della poetessa, che proprio
lo scorso anno le ha dedicato un intero numero della rivista di studi dialettali da lui diretta, “Il parlar franco” , e che nel suo intervento afferma:

 

“L’ascrizione della contradaiola e dell’operaia Giuliana Rocchi al filone della lirica popolare di Romagna è probabilmente la marcatura su cui quasi sempre si sono venute incanalando le analisi intorno alla sua poesia. Analisi e rivelazioni per la verità non numerose e non sempre concretamente approfondite: così da autorizzare un sospetto di emarginazione, o quantomeno di separatezza e relativa sottovalutazione, nel quadro per altro ricco dei santarcagiolesi tentati da una poesia alta e da una scrittura elaborata[287]

 

L’emarginazione e la sottovalutazione certamente ci sono state se il nome della Rocchi è stato escluso da tutte le più importanti raccolte di poesia dialettale edite in Italia dopo gli anni ottanta[288], a cominciare proprio da quella di Franco Brevini, nonostante questi, come con una punta di malizia ha osservato Argnani “in Romagna dice di essere di casa”[289]. Le ragioni di questo mancato riconoscimento non sono facili da individuare. Certamente deve aver pesato negativamente il suo essere sempre stata di fatto lontana dai centri dell’establishment culturale del nostro paese, cosa che non può dirsi ad esempio degli altri santarcangiolesi, in particolare Guerra e Baldini. In fondo gli ambienti che si sono attivamente interessati al suo lavoro sono caratterizzati essi stessi da una certa marginalità: i gruppi femministi, i poetioperai, gli studiosi di folklore romagnolo raramente hanno trovato spazio nelle pubblicazioni delle grandi case editrici. La sua popolarità è stata grande a livello locale, mantenuta viva come si è visto dalle apparizioni sui media ed agli incontri pubblici, dove fino all’ultimo la poetessa ha cercato di trasmettere un’ironia ed una verve che forse in fondo a se stessa aveva
perduto. Venuta a mancare lei, e conseguentemente il contatto diretto con il pubblico, anche la sua poesia rischiava di essere presto dimenticata.

Se questo non è avvenuto lo si deve soprattutto a Rita Giannini, che con l’amicizia e la dedizione che l’hanno legata a Giuliana negli ultimi anni, ha deciso di mettere insieme il “terzo libro” che la poetessa non era riuscita a completare in vita. Nel farlo ha compiuto una operazione molto utile ed interessante sul piano filologico: ha recuperato gran parte delle versioni originali delle poesie già pubblicate, permettendo così da un lato di far conoscere ed apprezzare fino in fondo la vena popolareggiante ed ironica delle sue satre, volutamente ridimensionata dalle scelte operate sui testi nelle due raccolte precedenti, dall’altro di mettere in evidenza il laborioso lavoro di scrittura e riscrittura che ha caratterizzato molti componimenti, e che si è avuto modo di analizzare ampiamente, anche con esempi inediti, all’interno del presente lavoro. Sono state poi inserite le poesie del menabò di Coèrti pérsi ed infine raccolte le sue ultime fatiche poetiche, tra cui i testi sopra citati. In questo modo la raccolta, intitolata La parole nel cartoccio sempre in riferimento ai supporti cartacei occasionali su cui Giuliana ha scritto, presenta opere composte nelle varie epoche della sua vita, e rappresenta una sorta di summa poetica all’interno della quale il lettore può farsi un’idea completa della varietà e della ricchezza di una poesia che meriterebbe una diffusione ed un’attenzione ben maggiori di quelle fin qui avute. In questo senso, con il mio lavoro, spero di aver dato un piccolo contributo.
Si riportano in copia fotostatica alcuni significativi documenti relativi alla vicenda letteraria di Giuliana Rocchi:

 

i due racconti in prosa scritti e publicati nel volume E Viaz. Racconti e fiabe di Romagna”, a cura di G. Quondamatteo, uscito nel 1974 e ormai reperibile solo in alcune biblioteche romagnole;

 

gli autografi di alcuni componimenti analizzati nella tesi, nell’ordine: E’

lavadèur vèc, E’ di murt, La diferenza;

 

la lettera inviata a Giuliana dalla segretaria particolare del Presidente Pertini.

 

 

 

 

 

NB: i soli documenti trasmissibili per via digitale sono i due racconti i prosa; gli autografi e la lettera sono stati allegati alla tesi in copia fotostatica e non sono stati digitalizzati. Sono visibili solo nella copia cartacea.


 

 

 

 


LA SANTOINA DE  ROSS

 

Un ricordo di Giuliana Roccbi. Dialetto di Santarcangelo di R.

 

 

 

 

 

 

 

 

M'una  famea  i i geva Tricheul, mun'enta Fighin,  pu era Bamzoin,  Falanàna, Gardela, Piadoina, Brancalet, Luda,  Panòé, Bisoin, la Marmora,  Rost,  Scarplein,  Gurir, Pn acin,  Bucein,  Siviomàt:   l'era   soranom   cunieus  dal casedi d'una  volta a Santarcanzal.

Sti nom i calzoeva acsè ben che i stèss chi i purteva

i scurdeva  parfìna  su  ver  nom  ad  batesmi,  quand

qualcheun  e muroiva, si ni miteva e soranom  se pregadli, l'era  l'istess  ch'un  foss  mort.

Me mi ba i i geva Galinaun, e me - la su :fìola - av racount sta storia ad rrjseria, una miseria nira cume ]a nota.

Danqua  me a sv noeda  te temp che i fascesta i deva oli e manganel ma la  pora zenta, no mi sgnur. A simi quatar fiul sla ma maleda, e e' mi ba l'eva da pansoe a sfamoes ma tot se lavaur  deur  d1a furnoesa,  e l'era  una furteuna ch'u l'avéss.

Me a sera vneu ma st'mond guasi per dispet: gracilina, ma1atecia e par zanta  enea  rachetica,  toent  che a du  an ancaura  an  camineva,  sbandunoeda da  tot  chent.  Um cr.iseva sno la testa.

An muroiva  e an campoeva e i mi in savaiva ma che soent  arvolsi.  D'inverni im tnaiva  t'na  zvira 1 dri la rola

e quant .l 'arveva la stasaun bona im stug loeva 2 tla cunt:roeda e im ciutoeva s'un strazaz,  no perchè ch'in num guardèss, ma perchè al moschi al num magnèss. Um badoeva la San-

toina de Ross, una vcina taenta bona ch'la patoiva al pene de purgatori avdaim  taent  moel ardota.

Li, i fiu l l'an gn'avaiva e e' su ben l'era  tot per me.

« Vin, Angiulaia, at togh so:  a vlem provoe ad caminè ».

Ma al  mi gambi l'in  muvaiva  e la  testa  la pandaiva.

« Mo guirda là, porca mastela! Cum s'farai sa sta burdela! »,

e la prigoiva ch'am guaréss.

Un l'avnet  ciaura rasajeda da la mi ma e la igét:

«  Fina, sta burdela la sta sempra pez! Chi j apa fat al ma­

legni? Csa giresvi ad purtoela  sota al radghi d'un'arvura? A temp mi i guaroiva  acsè ma la zenta ». « Incù a sint sa Richìn - la i gét la mi ma - e pu avdrem ».


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TAV. I

 

 

 

 

Basta, e dop im porta zo tl'Eus 5 , i fa ste beus sota st'arvura, e par tre mato1ni in fet foe la ziravolta sota stai radghi: Pu im cavet chi du curset ch'avaiva ma dos, e i splétt at sta beusa. Quand che i straz era froid, me a duvaiva caminè.

E la fott propria acsè. A m'aviet d'ingataun pien pianln

e dop un poeta ad mois a m'arapoeva so mal scoeli dla Santoina che da ciaura l'am ciamoeva. « Vin, vin so! Michel un gn'è:   at  parpor  l'imbrenda »,  e l'am  standaiva  s'un pez ad pida zala un cucet d'cunsetva ch'la staiva saura

un'asa seta è let, perchè un gn'andèss al moschi e la porbia.

Intoent  ch'a magneva disdoi sla rola l'am rnitaiva al

gameli ad furmantaun  ne fug e quant al s-ciupoeva al sa:J.­ toeva par tot la cusoina. Li la  li racuioiva e l'am li deva saura e' querc de caldir, perchè di piat la i n'avaiva soul deu e l'eva paveura ch'al rumpèss.

Quant eva finoi l'am deva da bai t'un  biciarot l'aqua sa do gozli ad  aida e par che l'era  cuntent perchè aveva magnè.

A m'arcord  ancaura la su coesa:              t'na gran cusoina u

j era tot:  soela, salot e cambra da let;  una gran  rola, i


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TAV. II

sarmint e i gambareun 10


te cantaun un bel parol so ma la

cadoina, una tavlaza meza rota, una boenca, do scarani sla speula 11  sfranzoeda. Se suloer i segn nir  de caldir ch'la puzoeva quant la tireva zo la pulenta da e' fug e pu la

la standaiva se tulir. Piò in e' pajaz si cavalet 12              e i

lanzul nir pizghed dal polsi. Mo per pasqua la miteva soura una bela querta zela ad bavela 13 perchè e' pdt  u la

benedés.

Michel, e' su maroid, e' feva e' sprangoin e icuntadoin

i i deva furmantaun,  ova, pimidor, che li liacoeva so mi trov par l'1inve11na.

Un brot Miche!e' muret, e poc dop la su Santoina

l'al seguet. Te post dia su coesa, ch'l'era chesca, j avaiva

fat l'ort ad guera 14 •  Ades u j è un bel zardoin. Ma me un poer da vdai ancaura la Santoina ch'l'am slonga la su pida

sla cunserva.

 

 

 

LA CAMOISA AD PANòC

 

Raccolta da Giuliana Rocchi. Dialetto di Santarcangelo di R.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma Panòé i i geva acsè perchè l'era znin e ross. L'era solit che quant ·us vuleva cambiè  la camoisa, l'andoeva  te canfìré 1   duè che al lavanderi a gl'avaiva al tirati dla bian­ cheria staJsa. Te scheur, sona un oelbar, e' laseva zo la su camoisa sporca e pina ad bdocc, e da la corda un cireva zo ona pu loida, e via ad cheursa perchè ch'u n l'avdéss. Tent vol lli, quant l'era ma coesa, u s'incurzoiva che te scheur magari l'eva  tolt una camoisa da dona;  alau ra u i rim­ bucheva e' culet, u sia infileva ti calzeun e via.

Una volta Panòé, Bisoin, Luda, Gnenti e la Marmora j'andasèt a Roma a pi par zarcoe e' lavaur 2 •  E' v.iaz l'era long e fadigaus, e lujelt i camneva . al scarpazi tal moeni, perchè a tnaili tJi  pi, una volta arivat in ].i avrèbb vu piò.

I travarsè la Mareda, perchè alaura e' paunt un gn'era, e ogni toent is vulteva indrì par guardoe me su Santarcanzal che pianoin pianoin ipardeva ad vesta fina a no  avdail piò. Tla ligaza j avoiva du straz e quale quadret ad pida.

L'era la  proima volta che is miteva in viaz e j andeva

cantarlend  ma s'un  magheun   te cor, par la  fameja e j amoigh chi duveva lasoe. Ogni taent par s roeda iscapuzeva at qualch frot o qualch grap ad ova, e la sarebb stoe da pataca a lasel alè.

La nota i dmandeva aloz mi cuntadoin, e i durmoiva tal stali o ti fnil. T'una  stmanoeda j arivet a Roma. Un f6t cosa da poc a putois adatoe ma l'ambient  e a truvae

lavaur, pu, un is sistemet fasend i muradeur.

I mais i paseva e ormai u s'avsineva e' Nadel, e Bisoin un  dé e' get : « Burdell, a que l aura ad cambiès; ormai

l'aroiva al festi e bsogna cambiè pèla ».

Che pori Panòé che ma coesa u n'aveva niseun, u n'eva

gnenc port gnent da ligaza, tot mortifìcoed e' gèt:  « Me

um toca andoe a coesa s'am voi cambiè! ». E e' dapet   so,

a pi la su stroeda. Ma quant al lavandoeri al savet ch'l'era

artoran, alle badeva. E' por Panòé è gèt: «Viva ]a faza dia

pulizea! », us arvultoe la camoisa ch'l'avoiva ma dos, e vea a Roma d'arnov  a pi.

Quant i su amoigh i l'avdet a turnoe sla  camoisa, i i det un la loca 3:   « Vovè vovè! U j era bsogn, pataca, d'andoe a Santarcanzal par arvultoe la camoisa? ».

Berò e dè dop, pantoid ad quel ch'i eva det, i i fet una culeta e la matoina   ad Nadel i i fet  truvoe  da pi dla branda una bela camoisa nova. Panòé, quant ch'u l'avdet us mitet a pianz e un f6t bon ad piò gnent.

Dop taent an, quant ul racunteva, e' pianzaiva ancaura.

 

 

 

 

 

TAV. III


 

 

 

 

 

 

 

 

Argnani Davide (1989):

A proposito di Giuliana Rocchi,

in “L’ortica”, numero di settembre/ottobre, pagg. 2-5.

 

 

 

Argnani Davide (2007):

Giuliana Rocchi, la linfa schetta della poesia,

in “Il parlar franco. Rivista di cultura dialettale e critica letteraria” (n° 7), Villa Verucchio, Pazzini editore, pagg. 15-20.

 

 

 

AA VV (1973):

Lingua Poesia Dialetto.

Atti del seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola,

Ravenna, Edizioni del Girasole.

 

 

 

Baldini Raffaello (1976):

E solitèri.Versi in dialetto romagnolo,

Imola, Grafiche Galeati.

 

 

 

 

 

Baldini Raffaello (1982):

La naiva.Versi in dialetto romagnolo,

Torino, Einaudi.

 

 

 

Bellosi Giuseppe (1994):

I poeti di piazza in Romagna nel Novecento: tra oralità e scrittura,

in Gualtiero De Santi (a cura di) La poesia dialettale romagnola del ‘900,

Dogana (Repubblica di San Marino), Maggioli Editore, pagg. 57-69.

 

 

 

Bettini Maurizio (a cura di) (2005): Cultura e letteratura a Roma, Milano, La Nuova Italia.

 

 

Bravetti Grazia (a cura di) (2000): Le zirudèle di Giustiniano Villa, Riccione, Tipografia Maestri.

 

 

 

Brevini Franco (1994):

La linea romagnola nella poesia dialettale del Novecento,

in Gualtiero De Santi (a cura di), La poesia dialettale romagnola del ‘900,

Dogana (Repubblica di San Marino), Maggioli Editore, pagg. 15-23.

 

 

 

Brevini Franco (a cura di) (1999):

La poesia in dialetto,

Milano, Arnoldo Mondadori Editore.

 

 

 

Codognotto Piera, Moccagatta Francesca (1997):

L’editoria femminista in Italia,

Roma, AIB.

 

 

 

D’Elia Gianni (1994):

Il comune poetico. Appunti sulla poesia di Gianni Fucci,

in Gualtiero De Santi (a cura di), La poesia dialettale romagnola del ‘900,

Dogana (Repubblica di San Marino), Maggioli Editore, pagg. 163-171.

 

 

 

Dell’Arco M. e Pasolini P.P.(a cura di) (1995-ristampa):

Poesia dialettale del Novecento,

Torino, Einaudi

 

 

 

De Santi G. (a cura di) (1994):

La poesia dialettale romagnola del Novecento,

Dogana (Repubblica di San Marino), Maggioli Editore.

 

 

 

De Santi G. (2007):

L’epica in versi di una vita,

in “Il parlar franco. Rivista di cultura dialettale e critica letteraria” (n° 7), Villa Verucchio, Pazzini editore, pagg. 7-14.

 

 

 

 

Fucci Gianni (1981):

La morta e e' cazadour : poesie romagnole, Introduzione di Rina Macrelli,

Rimini, Maggioli Editore.

 

 

 

Fucci Gianni (1996):

La balêda de vént : poesie in dialetto romagnolo,

Introduzione di Gualtiero De Santi,

Verucchio, P. G. Pazzini.

 

 

 

Fucci Gianni (2007):

Vita e poesia: un ricordo di Giuliana Rocchi,

in “Il parlar franco. Rivista di cultura dialettale e critica letteraria” (n° 7), Villa Verucchio, Pazzini editore, pagg.25-26.

 

 

 

Giannini Rita (2007):

L’eredità di Giuliana Rocchi,

in “Il parlar franco. Rivista di cultura dialettale e critica letteraria” (n° 7), Villa Verucchio, Pazzini editore, pagg. 21-24.

 

 

 

Guerra Tonino (1950): La schioppettata, Faenza-Edizioni Lega.

 

 

 

Guerra Tonino (1946):

I scarabócc,

Faenza-Edizioni Lega.

 

 

 

Guerra Tonino (1993-ristampa):

I bu,

Rimini, Maggioli Editore.

 

 

 

Guerra Tonino (1982):

Il miele,

Rimini, Maggioli Editore.

 

 

 

 

 

La Mantia Benito (a cura di) (1997):

Poeti del dissenso,

Piombino, TraccEdizioni.

 

 

 

Luperini Romano (1991):

Il Novecento. Apparati ideologici, ceto intellettuale, sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea,

Torino, Loecher.

 

 

 

Luperini Romano (2005):

La scrittura e l’interpretazione.Gli autori italiani, il canone europeo,

Firenze-G.B. Palumbo Editore.

 

 

 

Macrelli Rina (1981):

L' indegna schiavitù: Anna Maria Mozzoni e la lotta contro la prostituzione di Stato,

Roma, Editori Riuniti.

 

 

 

Marchi Donatella (2007):

Voci dalle aie romagnole,

in “Il parlar franco. Rivista di cultura dialettale e critica letteraria” (n° 7), Villa Verucchio, Pazzini editore, pagg. 29-34.

 

 

 

Nicolini Flavio (1990):

Lettere per un’antologia di poeti in dialetto romagnolo, in “Il lettore di provincia”, numero 79, pagg. 127-137.

 

 

 

Pasolini P.P. (1954): La meglio gioventù, Sansoni, Firenze.

 

 

 

Pedretti Nino (1975):

Al Voùsi. Poesia romagnole,

Ravenna, Edizioni del Girasole.

 

 

 

 

 

Pedretti Nino (1973):

Poesia Romagnola del dopoguerra,

negli Atti del seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola,

Ravenna, Edizioni del Girasole, pagg. 119-134.

 

 

 

Piromalli Antonio (1972): Letteratura e cultura popolare, Firenze, Olschki.

 

 

 

Piromalli Antonio (1994):

La poesia dialettale in Romagna nel Novecento,

in De Santi G. (a cura di),

La poesia dialettale romagnola del Novecento, pagg. 29-57.

 

 

 

Quondamatteo Gianni (1973): Tremila modi di dire dialettali, Imola, Grafiche Galeati.

 

 

 

Quondamatteo Gianni (a cura di) (1974): E’ viaz. Racconti e fiabe di Romagna, Imola, Galeati.

 

 

 

Quondamatteo Gianni, Bellosi Giuseppe (a cura di) (1976):

Cento anni di poesia dialettale romagnola,

Imola, Grafiche Galeati.

 

 

 

Ricci Manuela (a cura di) (2000):

E’ circal de giudéizi.

Santarcangelo nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra,

Bologna, CLUEB.

 

 

 

Rocchi Giuliana (1980-1° edizione):

La vóita d’una dòna, a cura di Rina Macrelli,

 

 

Roma, Editrice Amanda.

Rocchi Giuliana (1981-2° edizione):

La vóita d’una dòna, a cura di Rina Macrelli, Rimini, Maggioli Editore.

 

 

 

Rocchi Giuliana (1986):

La Madòna di Garzéun, a cura di Rina Macrelli, Rimini, Maggioli Editore.

 

 

 

Rocchi Giuliana (1998):

Le parole nel cartoccio, a cura di Rita Giannini, Rimini, Maggioli Editore.

 

 

 

Savier Monika, Fiocchetto Rosanna (a cura di) (1987):

Italien der frauen,

Munchen, Frauenoffensive.

 

 

 

Teodorani Annalisa (2007):

“E’ bén babon”: il mio ricordo di Giuliana,

in “Il parlar franco. Rivista di cultura dialettale e critica letteraria” (n° 7) Villa Verucchio, Pazzini editore, 27-28.

 

 

 

Villa Giustiniano (1979):

Zirudeli, a cura di G. Bravetti e A. Piromalli, Ravenna, Edizioni del Girasole.

 


[1] Cfr. Manuela Ricci (a cura di), E’ circal de giudéizi. Santarcangelo nell’esperienza culturale del secondodopoguerra, Bologna, CLUEB, 2000. Si tratta del catalogo che accompagna la mostra allestita dal comune di Santarcangelo per ricordare l’esperienza del circolo. L’introduzione è di Renzo Cremante.

 

[2] Ivi, pag. XII.

[3] Ivi, pag. XI.

[4] Ivi, pag. X

[5] Ibidem.

[6] Si veda a questo proposito l’introduzione di Contini a Tonino Guerra, I Bu, Rimini, Maggioli Editore, 1993 e le opinioni di Franco Brevini e Pasolini nelle opere citate più avanti.

[7] Cfr. Franco Brevini, La linea romagnola nella poesia dialettale del Novecento, in Gualtiero De Santi (a cura di), La poesia dialettale romagnola del ‘900, Dogana (Repubblica di San Marino), Maggioli Editore, 1994.

[8] Ivi, pag. 16.

[9] Cfr. Tonino Guerra, La schioppettata, Faenza, Edizioni Lega, 1950, pag. III.

[10] Cfr. Manuela Ricci (a cura di), E’ circal de giudéizi. Santarcangelo nell’esperienza culturale del secondo

dopoguerra, cit., pag. 4.

[11] Ivi, pag. XI.

[12] Cfr. Dell’Arco e Pasolini (a cura di), Poesia dialettale del Novecento, Torino, Einaudi, 1995 (ristampa).

[13] Ivi, pag. CV.

[14] Ricordiamo la trasmissione televisiva Non è mai troppo tardi con il maestro Manzi, rivolta ad alfabetizzare gli adulti.

[15]Ivi, pag. CVI

[16] Cfr. Tonino Guerra, I scarabócc, Faenza, Edizioni Lega, 1946, pag. IV.

[17] Cfr. Franco Brevini, La linea romagnola nella poesia dialettale del Novecento, cit., pag. 18.

[18] Si veda tra gli altri Contini, nell’introduzione a Tonino Guerra, I bu, Rimini, Maggioli Editore, 1993 (ristampa).

[19] Cfr. Gianni D’Elia, Il comune poetico. Appunti sulla poesia di Gianni Fucci, in Gualtiero De Santi (a cura di), La poesia dialettale romagnola del ‘900,cit., pag.166.

[20] Ivi, pag 169

[21] Cfr. Franco Brevini, La linea romagnola nella poesia dialettale del Novecento, cit, pag. 19

[22] Sono parole di Rina Macrelli, riportate nell’Introduzione di Cremante in Manuela Ricci (a cura di), E’circal de giudéizi. Santarcangelo nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra, cit., pag. XIII.

[23] Cfr. Manuela Ricci (a cura di), E’ circal de giudéizi. Santarcangelo nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra, cit.

[24] Cfr. Franco Brevini, La linea romagnola nella poesia dialettale del Novecento, cit. , pag. 18.

[25] Cfr. Romano Luperini , La scrittura e l’interpretazione, Firenze, G.B. Palumbo Editore, 2005. Vol. 3, pag.613.

[26] Pubblicato con cadenza mensile dal 1967 al 1980, vi collaboravano stabilmente o scrivevano saltuariamente molti degli amici del Circolo del Giudizio: Rina Macrelli, Flavio Nicolini, Nino Pedretti, lo stesso Tonino Guerra.

[27] Cfr. Livio Vannoni, in “Tuttosantarcangelo”, numero gennaio 1972, pag. 3.

[28] Si tratta della prima edizione, pubblicata da Rizzoli nel giugno 1972.

[29] Cfr. Rina Macrelli, Andate a dire ai buoi che vadano via, in “Tuttosantarcangelo”, numero di luglio 1972, pag. 3.

[30] Il riferimento è alle due poesie riguardanti i viaggi che Giuliana fece a Roma “in cerca di marito” e pubblicate nei numeri precedenti di “Tuttosantarcangelo”

[31] Nel 1970 in Italia furono istituite le regioni come entità politico-istituzionale.

[32] Cfr. Rina Macrelli, Proposta di un concorso Tuttipoeti, in“Tuttosantarcangelo”, numero di agosto 1972, pag. 2.

[33] Cfr. Ignazio Buttitta, lettera a“Tuttosantarcangelo”, numero di ottobre 1972, pag.4.

[34] Cfr. Rina Macrelli, lettera a “Tuttosantarcangelo”, numero di marzo-aprile 1973, pag. 2.

[35] Si veda sopra, paragrafo. 1.

[36] Cfr. Nino Pedretti, Se la lengua la mor e La lengua dla mi ma in “Tuttosantarcangelo, numero di marzo-aprile 1973, pag. 5, poi ripubblicate nella raccolta Al vousi, Ravenna, Edizioni del Girasole, 1975.

[37] Cfr. Poesia, lingua e dialetto. Atti del seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola, Ravenna, Edizioni del Girasole, 1976, pagg. 85 e segg.

[38] 38 Ivi, pagg. 89 e segg. Le testimonianze riportate sono nell’ordine di Tiziana Nicolini, Annamiaria Rossi e Fausta Magnani.

[39] Vedi sopra, paragrafo I, pag. 8.

[40] 40 Cfr. Poesia, lingua e dialetto. Atti del seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola, cit., pag. 19.

[41] Ivi, pag. 34

[42] Ivi, pag. 108.

[43] Ivi, pagg. 112 e segg.

[44] Cfr. Romano Luperini, La scrittura e l’interpretazione, cit., pag.614.

[45] Dei poeti di Santarcangelo si sono occupati i più noti italianisti e critici letterari contemporanei: da Mengaldo a De Santi, Beccaria, Brevini, Cremante, Stussi, Piromalli solo per citarne alcuni.

[46] Cfr. Andrea Costa, lettera a “Tuttosantarcangelo”, numero di ottobre 1973, pag. 4.

[47] Questo termine, usato per indicare la nuova poesia dialettale postbellica, è caro a Gualtiero de Santi. Si veda in proposito la sua Introduzione al volume da lui curato La poesia dialettale romagnola del ‘900, cit.

[48] Cfr.Giuseppe Bellosi, I poeti di piazza in Romagna nel Novecento: tra oralità e scrittura, in Gualtiero De Santi (a cura di) La poesia dialettale romagnola del ‘900, cit., pag. 57-69.

[49] La satura era, nel teatro romano arcaico, una forma di spettacolo che univa la recitazione di versi improvvisati alla danza. Il termine traeva origine dal verbo satur che significava riempire, farcire con gli alimenti più vari (lanx satura era il termine per indicare un piatto offerto annulamente alla dea Cerere, farcito di frutta di ogni sorta). Modificato in Satira, il termine passerà poi ad indicare un genere tipico della poesia latina, caratterizzato dalla varietà e mescolanza di motivi contenutistici e forme metriche e stilistiche: cfr. Maurizio Bettini (a cura di), Cultura e letteratura a Roma, Milano, La Nuova Italia, 2005, pagg 35 e segg.

[50] Cfr. Gianni Quondamatteo, Tremila modi di dire dialettali, Imola, Grafiche Galeati, 1973.

[51] Cfr. A.Piromalli, Letteratura e cultura popolare, Firenze, Olschki, 1972.

 

[52] Cfr. Grazia Bravetti Magnoni (a cura di), Le zirudèle di Giustiniano Villa, Riccione – Tipografia Maestri, 2000, pag. 9.

[53] Cfr.Giuseppe Bellosi, I poeti di piazza in Romagna nel Novecento: tra oralità e scrittura, op.cit., pag.62.

[54] Cfr. Giustiniano Villa, Zirudeli, a cura di G. Bravetti e A. Piromalli, Ravenna, Edizioni del Girasole, 1979, pag. 119.

 

[55] Ivi, pag 153.

[56] I testi di Giustiniano Villa sono giunti fino a noi proprio su questo supporto: i fogli volanti che il poeta

aveva distribuito al pubblico durante le feste. Cfr. Grazia Bravetti (a cura di), Le zirudèli di Giustiniano Villa,

cit., pag 31, 32.

[57] Cfr.Giuseppe Bellosi, I poeti di piazza in Romagna nel Novecento: tra oralità e scrittura, cit., pag.64.

[58] Cfr. Luciano Simoncelli, Laureata poetessa senza licenza elementare, in “La domenica del Corriere”, 17 marzo 1984.

[59] Cfr. Manuela Ricci (a cura di) , E’ circal de giudéizi. Santarcangelo nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra, cit., pag.175

[60] Cfr. Giuliana Rocchi, E’ mi ba, in La vóita d’una dona, a cura di Rina Macrelli, Rimini, Maggioli editore1981, pag.25-26.

[61] Cfr. Rita Giannini nella Presentazione a Giuliana Rocchi, Le parole nel cartoccio, a cura di Rita Giannini, Rimini, Maggioli editore, 1999, pagg. 3 e segg.

[62] Cfr. Gianni Quondamatteo, Tremila modi di dire dialettali, cit., vol. III pagg.114 e segg.

[63] Ivi, pag 78

[64] Cfr. Giuliana Rocchi Ninna nanna, E’ bagoin, in Le parole nel cartoccio, cit., pagg.145-149

[65] Cfr. Giuliana Rocchi, La madóna di garzéun, Rimini, Maggioli Editore, 1986, pag. 7. Sono le parole che

Giuliana scrive nella presentazione del libro.

 

[66] Cfr. Franco Brevini (a cura di), La poesia in dialetto, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1999, vol III, pag. 3172. Con questo appellativo il critico definisce la produzione postbellica degli autori della generazione di Pasolini e Guerra, intenti a trasportare nella poesia dialettale le modalità espressive della poesia italiana coeva: cfr. par.I.I del presente lavoro.

[67] Alla prima dimensione possone essere ascritti testi Da par me o Nadèl de querentaquàtar, alla seconda I

madéun o S’a vinzém néun, in Tonino Guerra, I bu, cit.

[68] Scrive a questo proposito Ernesto Calzavara, citato da Brevini nell’introduzione al vol.III de La poesia in dialetto, cit., pag 3214: “l’uomo di cultura, e specialmente il poeta distaccato dal proprio ambiente originario, rivivendo il proprio dialetto nel colore e nel calore del ricordo e della nostalgia, può in una comune accettazione, rinnovarlo e reinventarlo”.

[69] Cfr. Giuliana Rocchi, La vóita d’una dona, cit., Introduzione di Rina Macrelli, pag 16.

[70] Cfr. nota 19.

[71] Cfr. nota 20.

[72] Cfr. Franco Brevini (a cura di), La poesia in dialetto, cit., vol III, pag. 3172.

[73] Cfr. Cfr. Giuliana Rocchi, La vóita d’una dona, cit., Introduzione di Rina Macrelli, pag. 12.

[74] Cfr. nota 19.

[75] Cfr. Giuliana Rocchi, La bataia dla corderèa, in Le parole nel cartoccio, cit, pag. 84. Il testo riportato

nella raccolta curata da Rita Giannini corrisponde a quello distribuito in occasione dell’occupazione della

fabbrica. Una versione abbreviata era stata pubblicata con il titolo E’ paradois, in Giuliana Rocchi, La vóita

d’una dona, cit., pag. 61.

[76] Cfr. Giustiniano Villa, Zirudèli, cit., pag. 156.

[77] Cfr. AM: 1 f. ms. recto su 2 facciate. Pubblicata in Manuela Ricci (a cura di), E’ circal de giudéizi. Santarcangelo nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra, cit., pag.175.

[78] Cfr. Introduzione, pag. 13.

[79] Cfr. Giuliana Rocchi, La vóita d’una dona, cit, Introduzione di Rina Macrelli, pag. 8.

[80] Cfr. AM, minuta autografa di Giuliana Rocchi, 1 f. ms. recto e verso, datata “Santarcangelo 5-11-78”, (inedita).

[81] Cfr. Rina Macrelli, lettera a “Tuttosantarcangelo”, numero febbraio-marzo 1973.

[82] Rina aveva risposto a Costa menzionando il fatto di essere stata la sua professoressa delle medie.

 

[83] 37 Cfr. Giuliana Rocchi “U m dispis”, in“Tuttosantarcangelo”, numero di febbraio-marzo 1973, pag.2. Il testo sarà poi ripubblicato in Giuliana Rocchi, Le parole nel cartoccio, cit.

[84] Cfr. Rina Macrelli, lettera a “Tuttosantarcangelo”, numero di febbraio-marzo 1973, pag. 2.

[85] Cfr. Giuliana Rocchi, La vóita d’una dona, cit., Introduzione di Rina Macrelli, pag. 13.

[86] Cfr. AM: dattiloscritto di Rina Macrelli su 3 ff . recto. Allegato a minuta autografa di Maurizio Pallante, 1 f. ms. recto su carta intestata, datata 11-09-84 (entrambi inediti). La circostanza è riferita anche da Davide Argnani in Giuliana Rocchi: la ninfa schietta della poesia, in “Il parlar franco. Rivista di cultura dialettale e critica letteraria”, n° 7 -2007, pag.17: “fu Rina Macrelli nel lontano 1973, in occasione del seminario dedicato a Tonino Guerra […] a parlare della Rocchi e a divulgare le sue poesie.”

[87] Cfr. Poesia, lingua e dialetto. Atti del seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola, cit.

[88] Il testo della minuta, datata 8 giugno 1973, è pubblicato in Manuela Ricci (a cura di), E’ circal de giudéizi, cit., pag. 176.

[89] Si cita il testo nella versione che compare in Nino Pedretti, Poesia Romagnola del dopoguerra, negli Atti del seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola, cit., pag. 133. Lo stesso è pubblicato, con una scansione strofica leggermente diversa, anche in Giuliana Rocchi, La vóita d’una dona, cit., pag. 72.

[90] L’articolo, comparso sul Corriere della Sera del 1° febbraio 1975, parla della scomparsa delle lucciole come conseguenza dell’inquinamento e ne fa una metafora della fine delle identità contadine in Italia, sostituite dall’omologazione della civiltà industriale e dei consumi. Celebre la chiusa: “darei l’intera Montedison per una lucciola”

[91] Il testo di questa poesia è stato pubblicato in Giuliana Rocchi, Le parole del cartoccio, cit., pagg. 44, 45.

[92] Cfr. Gianni Quondamatteo (a cura di), E’ viaz. Racconti e fiabe di Romagna, Imola, Galeati, 1974.

[93] Si veda a questo proposito il par. I.3 del presente lavoro.

[94] I due racconti, intitolati La Santóina de Ross e La camóisa ad Panòc non compaiono in nessuna altra sede.

[95] Cfr. Giuseppe Bellosi, Gianni Quondamatteo (a cura di), Cent’anni di poesia dialettale romagnola, Imola, Edizioni Galeati, 1976.

[96] Ivi, pag. 580

[97] Ibidem. Tutti e tre i componimenti citati sono poi stati pubblicati, con leggere variazioni nella resa grafica del dialetto in Giuliana Rocchi, La vòita d’una dòna, cit.

[98] L’uscita della raccolta Al Vousi di Nino Pedretti è avvenuta nel marzo del 1975.

[99] Cfr. AM: minuta autografa di Giuliana Rocchi su carta da lettere piegata, recto e verso su 3 facciate, (inedita).

[100] Cfr. AM: minuta di Rina Macrelli, 1 f. ds. recto e verso.

[101] Cfr. lettera di Rina Macrelli, 2 ff. ds. recto, datata 23 novembre 2008. (inviata alla sottoscritta).

[102] Cfr. P.Codognotto, F. Moccagatta, L’editoria femminista in Italia, Roma, AIB, 1997, pag 13 e segg.

[103] Cfr. par. 1. dell’Introduzione.

[104] Per la rarità del volume ed il fatto che i due racconti costituiscono le uniche prose della poetessa, si è ritenuto opportuno allegarli in Appendice al presente lavoro.

[105] Cfr. G. Quondamatteo (a cura di), E’ viaz. Racconti e Fiabe di Romagna, cit., pag. 1.

[106] Ivi, nota sulla quarta di copertina

[107] Ivi, pag. 2.

[108] Ibidem.

[109] Si vedano a questo proposito le opinioni di Pasolini e Brevini riportate nel par. 1. dell’Introduzione.

[110] Ivi, pag. IX. Citazione dalla Presentazione di Tullio de Mauro.

[111] Ivi, pag. 119.

[112] Ibidem.

[113] Ivi, pag. 120.

[114] Ibidem.

[115] Ivi, pag. 112.

[116] Ivi, pag. 113.

[117] Ivi, pag. 113.

[118] L’ immagine sarà ripresa dalla Rocchi anni dopo nella poesia Tra i sas ( pubblicata in Giuliana Rocchi, La Madòna di garzèun, Rimini, Maggioli Editore, 1986): la poetessa ritrova tra i sassi dell’orto costruito sulle rovine della sua vecchia casa la chiave arrugginita del portone d’ingresso, spunto per ricordare la madre morta. Poiché il racconto ci dice che la Santoina abitava sopra di lei, probabilmente si tratta della stessa casa e dello stesso orto.

[119] I problemi relativi alla redazione e successiva revisione di Cum e’ fótt ch’am sò salvoè da la fòsa saranno oggetto di una trattazione specifica nel par II.1 del presente lavoro, cui si rimanda per maggiori dettagli circa il contenuto della minuta e dell’autografo.

[120] Cfr. Giuliana Rocchi, Cum e’ fótt ch’am sò salvoè da la fòsa, in La vòita d’una dòna, cit., pag. 33.

[121] Ivi, pag. 35.

[122] Anche per l’analisi più approfondita di questo aspetto si rimanda al Capitolo II del presente lavoro.

[123] Cfr. AM: minuta autografa di Giuliana Rocchi datata “Santarcangelo 7-9-‘74”, 1 f. ms. recto e verso (inedita).

[124] Cfr. AM: minuta autografa di Giuliana Rocchi, 1 f. recto e verso, datata “Santarcangelo 20 ottobre ’74” (parzialmente pubblicata su “Noi donne”, numero di aprile 1980)

[125]Cfr.AM: minuta autografa di Giuliana Rocchi, 1 f. recto e verso, datata “Santarcangelo 26/1/’75” (parzialmente pubblicata su “Noi donne”, numero di aprile 1980)

[126] Cfr. AM: minuta autografa di Giuliana Rocchi, 1 f. recto e verso, datata “Santarcangelo 31/12/’75” (parzialmente pubblicata su “Noi donne”, numero di aprile 1980)

[127] Cfr.AM: manoscritto autografo di Giuliana Rocchi, su 5ff. di quaderno a quadretti, recto e verso (inedito in questa versione). Si precisa che i cinque fogli conservati non contengono tutto il testo del poemetto, ma solo la parte finale, a partire esattamente dal verso “U i dèva l’òli mineroèl”: cfr. Giuliana Rocchi, La vòita d’una dòna, cit., pagg.42 e segg. Il manoscritto è evidentemente incompleto. I fogli di quaderno erano uniti con una graffetta da puntatrice e quelli iniziali probabilmente si sono staccati e poi perduti.

[128] Cfr. par. I.3

[129] Cfr.AM: manoscritto autografo di Giuliana Rocchi, 1 f. recto e verso (inedito in questa versione).

[130] Cfr.AM: minuta autografa di Giuliana Rocchi, 2 ff. ms. recto e verso, datata Santarcangelo 31-12-75 (parzialmente pubblicata su “Noi donne”, numero di aprile 1980). Nonostante questo espediente, i materiali manoscritti relativi alla prima raccolta e conservati nel Fondo Rocchi sono relativamente pochi e riguardano i seguenti componimenti: E mi ba, L’onica verità, La voita d’una dòna, L’an de nivaun, E’ ben dabòn, E’ lavadeur vec, U s’è incauntar e saul sla leuna. Dove siano finiti i manoscritti mancanti è presto detto. Per quanto riguarda le copie spedite a Rina, queste le conserva lei, come mi dice espressamente nella lettera inviatami in data 23 novenmbre 2008. Gli originali rimasti a Giuliana sono in gran parte stati poi utilizzati da Rita Giannini per l’ultima raccolta e sono tuttora in suo possesso, in quanto donati dall’autrice. Che in tutto questo passare di mano in mano, su fogli volanti e supporti improvvisati, qualcosa si sia perso è certamente plausibile, anche se non mi è data la possibilità di verifica. Per i manoscritti dei materiali che andranno a comporre la seconda raccolta la situazione è un po’ diversa: sono tutti conservati nel Fondo Rocchi, in una busta dedicata: del resto come si dirà poi, la seconda raccolta ha avuto gestazione ben diversa dalla prima, che include componimenti scritti in un lungo arco di tempo, ma è stata redatta in un paio d’anni, sull’onda del successo de La vóita d’una dòna.

 

[131] Si vede a questo proposito l’analisi degli interventi sulla poesia E’ lavadaur vèc, effettuata nelle pagine seguenti.

[132] Cfr.AM: manoscritto autografo di Giuliana Rocchi, su 5ff. di quaderno a quadretti, recto e verso (inedito in questa versione)

[133] Cfr. FR: dattiloscritto contenente la trascrizione dell’autografo de Cum fótt ch’a m so salvoè da la fòsa, 3 ff. recto.

[134] Infatti il dattiloscritto è conservato tra le carte del Fondo Rocchi alla biblioteca di Santarcangelo.

[135] Cfr. Giuliana Rocchi, La vóita d’una dòna, cit., pag. 43.

[136] Cfr. Giustiniano Villa, Zirudèli, poesie in dialetto romagnolo, a cura di Antonio Piromalli e Grazia Bravetti, cit, pag 14.

[137] Cfr. lettera di Rina Macrelli, 2 ff. ds. recto, datata 23 novembre 2008 (inviata alla sottoscritta, inedita).

[138] Cfr.FR: autografo di Giuliana Rocchi, 1 f. ms. recto e verso (inedito in questa versione).

[139] Cfr. Giuliana Rocchi, La vóita d’una dòna, cit., pag. 55

[140] Cfr.AM: manoscritto autografo di Giuliana Rocchi, 1 f. recto e verso (inedito in questa versione).

[141] Questo testo viene trascritto a mano dalla Macrelli, non dattiloscritto. E’ conservato nel Fondo Rocchi, 1 f. ms. recto e verso.

[142] Cfr. Giuliana Rocchi, La vòita d’una dòna, cit., Introduzione di Rina Macrelli, pag 11. Anna Maria Mozzoni apparteneva all’alta borghesia milanese che a fine ottocento divenne una antesignana delle battaglie per i diritti delle donne (a cominciare da quello di voto) e la Macrelli le aveva dedicato un saggio dal titolo L' indegna schiavitù : Anna Maria Mozzoni e la lotta contro la prostituzione di Stato, Roma, Editori Riuniti, 1981.

[143] Cfr. Nino Pedretti, Al vòusi, cit., pag 228.

[144] Cfr. FR: dattiloscritto, 3 ff. ds. recto (vedi nota 10).

[145] Cfr. AM: minuta autografa di Giuliana Rocchi, 1 f. recto datata Santarcangelo 31/12/’75 (Citata nell’Introduzione a La vòita d’una dòna, pag. 8)

[146] Cfr. Giuliana Rocchi, La vòita d’una dòna, cit., pag 42.

[147] Cfr. AM: minuta di Rina Macrelli, 1 f. ds. recto datata “Roma, 26 gennaio 1975”.

[148] Cfr. FR: manoscritto autografo di Giuliana Rocchi, 1 f. recto (inedito in questa versione).

[149] Cfr. FR: dattiloscritto. Il testo è attribuibile a Giuliana Rocchi, 1 f. recto (inedito in questa versione).

[150] Cfr. FR: dattiloscritto. Il testo è attribuibile a Giuliana Rocchi, 1 f. recto (inedito in questa versione).

[151] Cfr. Giuliana Rocchi, La vòita d’una dòna, cit., pag 105.

[152] Cfr. Giuliana Rocchi, La parole nel cartoccio, cit, pag. 180.

[153] Cfr. Giuliana Rocchi, La vòita d’una dòna, cit., pag 64.

[154] Cfr. Giuliana Rocchi, La parole nel cartoccio, cit., pag. 84.

[155] Cfr.FR: 1 f. ds. recto e verso (inedita in questa variante). La stesura dattiloscritta, la presenza di punteggiatura e la buona resa grafica del dialetto fanno pensare che la trascrizione sia opera della Macrelli.

[156] Le motivazioni di questa scelta restano oscure. Il dattiloscritto che la riporta è contenuto nella busta che raccoglie alcuni testi della seconda raccolta, non in quella che contiene gli scarti della prima. Eppure, come si è visto,circa la sua data di composizione non vi possono essere dubbi. La mia ipotesi è che anche questo testo facesse inizialmente parte di quelli scartati, cui come avrò modo di dire si avvicina per molti aspetti, e successivamente sia stato recuperato.

[157] Cfr. Giuliana Rocchi, La Madòna di garzèun, a cura di Rina Macrelli, Rimini – Maggioli Editore, 1986, pag. 47.

[158] Cfr. FR: nota autografa di Giuliana Rocchi, apposta ad una busta contenente dattiloscritti di sue poesie.

[159] Cfr. par. I.2, pag. 43.

[160] Giulio Faini fu un noto musicista santarcangiolese, suonatore di corno.

[161] Cfr. “Tuttosantarcangelo”, numero di gennaio-febbraio 1973, pag.4. Il testo è poi stato pubblicato in Giuliana Rocchi, La parole nel cartoccio, cit., pag. 183.

[162] Cfr. “Tuttosantarcangelo”, numero di maggio 1972, pag 4. Il testo è poi stato pubblicato in Giuliana Rocchi, La parole nel cartoccio, cit., pag 26-27.

[163] “Con l’uscita del ciclostilato nel 1974 i nostri rapporti si fecero più stretti” dirà la Macrelli nell’Introduzione a La vóita d’una dona, cit., pag. 8.

[164] Fodata in clandestinità durante la guerra, negli anni settanta fu uno dei principali strumenti delle battaglie storiche del femminismo italiano: cfr. P.Codognotto, F. Moccagatta, L’editoria femminista in Italia, Roma, cit, pag 10.

[165] L’articolo è conservato come ritaglio di giornale nella sezione Periodici, libri e riviste del Fondo Giuliana Rocchi presso la biblioteca di Santarcangelo.

[166] Cfr. P.Codognotto, F. Moccagatta, L’editoria femminista in Italia, cit., pagg. 16 e segg.

[167] Ivi, pag.22.

[168] Cfr. lettera di Rina Macrelli, 2 ff. ds. recto, datata 23 novembre 2008 (inviata alla sottoscritta, inedita).

[169] Cfr. AM: minuta di Rina Macrelli, 2 ff. ds. recto, datata 21/1/80 , pubblicata parzialmente in Manuela Ricci (a cura di), E’ circal de giudéizi. Santarcangelo nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra, cit., pag. 176.

[170] Cfr. FR: minuta di Vania Chiurlotto, 1 f. ds, recto su carta intestata datata “Roma, 24 ottobre 1979” (inedita).

[171] In effetti svariati numeri della rivista sono conservati tra le carte del Fondo Giuliana Rocchi.

[172] Cfr. AM: nota autografa di Rina Macrelli, 1 f. ms. recto.

[173] Vedi nota 54.

[174] Ricordiamo che il Comune di Santarcangelo all’epoca, fino alla creazione della Provincia di Rimini, apparteneva alla Provincia di Forlì.

[175] Cfr. AM: nota autografa di Rina Macrelli, 1 f. ms recto (inedita).

[176] Cfr. Giuliana Rocchi, La vóita d’una dòna, a cura di Rina Macrelli, Roma – Editrice Amanda, 1980 (1° edizione): nota conclusiva di Vania Chiurlotto, pag. 133.

[177] Ivi: nota conclusiva di Alearda Trantini, pag. 134.

[178] Cfr AM: minuta autografa di Giuliana Rocchi, data “Santarcangelo 5-11-78”.

[179] Cfr. Paolo Paganelli, Racconti di vita vissuta, in “Il segno. Periodico di informazione del PCI di Santarcangelo di R.”, numero di febbraio 1990

[180] La poetessa ne parla nell’intervista rilascita alla Domenica del Corriere: si veda nota 12, par. I.1. e par. III.1 del presente lavoro.

[181] Cfr. Giuliana Rocchi, La vóita d’una dòna, cit., pag. 69.

[182] La poesia era apparsa per la prima volta su “Tuttosantarcangelo” nel numero di giugno 1972. E’ stata poi ripubblicata in versione integrale in Giuliana Rocchi, Le parole nel cartoccio, cit, pag.29-30.

[183] Cfr. Stefania Giorgi, “La vóita d’una dòna: la vita e i ricordi di una donna di Santarcangelo”, in “Noi Donne” numero di aprile 1980.

[184] Cfr. nota 57

[185] Cfr. Adele Faccio, “La vita di una donna”, trafiletto apparso su “Quotidiano donna” del 5 maggio 1980.

[186] Cfr. “Quotidiano Donna” del 23 aprile 1980.

[187] Cfr. AM: minuta manoscritta autografa, 1 f. recto e verso, data “Santarcangelo 13 maggio 1980” .

[188] Cfr. Ileana Montini,“Versi comperati al mercato”, ne “Il manifesto” di sabato 14 febbraio 1981.

[189] Ibidem.

[190] Ibidem.

[191] Cfr. Giuliana Rocchi, La vóita d’una dòna, cit., Introduzione di Rina Macrelli, pag. 15.

[192] Cfr. Ileana Montini, Versi comperati al mercato”, ne “Il manifesto” di sabato 14 febbraio 1981.

[193] Nel Fondo Rocchi si trova un fascicoletto di appunti dattiloscritti (6 ff. recto) a firma Rina Macrelli che ricostruisce in maniera piuttosto dettagliata la cronologia della vicenda letteraria della poetessa santarcangiolese, con riferimenti alle molte recensioni, apparizioni televisive, attestati di stima di letterati famosi. Gran parte delle informazioni riportate nel presente paragrafo sono desunte da questo fascicolo.

[194] Cfr. AM: minuta di Rina Macrelli, 1 f. ds. recto, datata Roma, 7 febbraio 1986 (inedita). Indirizzata all’amico Stefano Pivato, parla della strutturazione di questo nuovo libro di Giuliana: “Ho inserito, per amore del suo pubblico popolare, un frammento di quella lunga satra fatta una quindicina di anni fa e mai pubblicata (se non per qualche piccola parte in La voita) nota come E’ mi viaz a Roma e che qui ho titolato diversamente, dato che si tratta appunto di un frammento”. Il “frammento” compare con il titolo I mi du viaz in zità par truvoè maroid ed in realtà combina i versi di due satre distinte: E’ mi viaz a Roma e L’artòunar a Roma, comunque entrambe significativamente ridotte.

[195] Cfr.AM: minuta autografa di G. Rocchi, 3 ff. ms. recto e verso, datata Santarcangelo 16/3/1981.

[196] Cfr. P.Codognotto, F. Moccagatta, L’editoria femminista in Italia, cit., pag. 22.

[197] Cfr AM: la circostanza è menzionata in una nota autografa attribuibile alla Macrelli, posta a margine della minuta sopra citata (nota 3)

[198] Cfr. Michele Dzieduszycki, Sant’Arcangelo dei poeti , ne “L’Europeo” del 3 maggio 1982.

[199] 7Cfr. par. I.1.

[200] Cfr. Lorenzo Simoncelli, Laureata poetessa senza licenza elementare, in “La domenica del corriere” 17 maggio 1984.

[201] Cfr. AM: minuta autografa di Giuliana Rocchi, 1 f. ms. recto e verso, datata “Santarcangelo 17 aprile 1983”.

[202] Cfr. AM: minuta autografa di Giuliana Rocchi, 1 f. ms. recto e verso, datata “Santarcangelo 24 aprile 1983”.

[203] Cfr.FR: lettera di Diana Ruggi, segretaria personale del Presidente Pertini, 1 f. ds. recto, datata “Roma, 10 marzo 1983” (inedita).

[204] Cfr. FR: minuta autografa di Ignazio Buttitta, 1 f. ms. recto e verso, datata “Aspra 19 maggio 1984” (inedita).

[205] Cfr. FR: minuta autografa di Ignazio Buttitta, 1 f. ms recto, datata “Aspra 2 luglio 1984” (inedita).

[206] Questo intervento di Francesco Brugnano è pubblicato sul sito www.correnti.org dedicato alla poesia contemporanea emergente.

 

[207] Cfr. FR: minuta autografa di Daniele Scioratto, 1 f. ms recto, non datata (inedita)

[208] Cfr. FR: minuta autografa di Francesco Cardinale, datata “Napoli 5/3/85” (inedita).

[209] Cfr. FR: minuta autografa di Francesco Cardinale, non datata (inedita).

[210] Tutti e tre i brani sono citati da Benito La Mantia (a cura di), Poeti del dissenso, Piombino – TraccEdizioni, 1997.

[211] L’antologia è pubblicata quindi un anno dopo l’uscita della seconda raccolta della Rocchi, La Madòna di garzèun, avvenuta nel 1986. Si è preferito parlarne prima perché la pubblicazione come si è visto è strettamante collegata al rapporto che la poetessa ha avuto con i poeti della rivista “Abiti-Lavoro”, risalente al 1984.

[212] Cfr. Benito La Mantia (a cura di), Poeti del dissenso, cit., pag. 9.

[213] Cfr. “Il Tirreno” del 7 luglio 1987.

[214] Cfr. “il Forlivese” del 29 ottobre 1987

[215] Cfr. “Paese Sera” del 7 luglio 1987.

[216] Cfr. Marica Valeri, “Poeti del dissenso in abiti da lavoro”, ne “La Nuova Venezia” del 15 ottobre 1987.

[217] Cfr. Roberto Roversi, Un libro, un libretto, una rivistina”, in “Bologna in anteprima” ne “l’Unità” del 23 gennaio 1988.

 

[218] Cfr. AM: annotazione autografa di Giuliana Rocchi, a margine della prima stesura autografa della poesia Nino, 1 f ms recto e verso.

[219] Cfr. AM: minuta di Giuliana Rocchi, sul recto dell’autografo de La malediziaun dla su ma, 1 f. ms recto e verso, non datata.

[220] Cfr. AM: annotazione autografa di Giuliana Rocchi a margine dell’autografo de Tra i sas, 1 f. ms. recto.

[221] Cfr. AM: minuta di Giuliana Rocchi, 1 f. ms. recto, non datata, allegata agli autografi de La foin dl’instoeda, La Teresa ad biogal secc, E moel de secal.

[222] Cfr. AM: questa indicazione temporale è segnata a matita (verosimilmente per mano della stessa Macrelli)

sul plico che raccoglie i manoscritti in questione.

 

[223] Cfr. AM: autografo di Giuliana Rocchi, 1 f. ms. recto e verso (inedito).

[224] Lo stesso criterio è già stato seguito nell’analisi della poesia E’ dè di murt (cfr. par. II.1): l’ipotesi è che le versioni più vicine a quella definitiva siano posteriori a quelle che se ne differenziano maggiormente. E’ evidente che si tratta solo di un ipotesi di lavoro, utilizzata per poter portare avanti in maniera sequenziale l’analisi delle varianti.

[225] Cfr. AM: autografo di Giuliana Rocchi, 1 f. ms. recto (inedito).

[226] Cfr. AM: autografo di Giuliana Rocchi, 1 f. ms. recto (inedito).

[227] Cfr. AM: autografo di Giuliana Rocchi, 1 f. ms. recto (inedito).

[228] Cfr. FR: minuta di Benito La Mantia, 1 f. ds. recto, datata “12 settembre ’86”.

[229] Cfr. G. Contini nell’Introduzione a Tonino Guerra, I bu, cit., pag. 10.

[230] Si pensi ai termini utilizzati nella poesia dedicata ai pezzi del telaio della nonna. Ricordo inoltre che la stessa Macrelli aveva talvolta difficoltà a capire qualche termine e chiedeva chiarimenti a Giuliana.

[231] Cfr. AM: autografo di Giuliana Rocchi, 1 f. ms recto (versione inedita de Al mi moèni).

[232] Cfr. AM: autografo di Giuliana Rocchi, 1 f. ms recto (versione inedita de Al mi moèni).

[233] Cfr. Giuliana Rocchi, La Madòna di garzèun, cit., pag. 108.

[234] Riguardo alla modernità di questo modalità poetica, si ricorda il suo utilizzo costante da parte di Ungaretti, che spesso proponeva versi di una sola parola.

[235] Cfr. AM: nota autografa di Giuliana Rocchi, a margine di una delle due versioni autografe de E’ bioigh, 1 f. ms. recto e verso.

[236] Cfr. Giuliana Rocchi, La Madòna di garzèun, cit., pag. 35.

[237] Cfr. AM: nota autografa di Giuliana Rocchi, a margine dell’autografo de E’ bioigh (prima stesura inedita).

[238] Cfr. Giuliana Rocchi, La Madona di Garzèun, cit., pag. 13.

[239] Cfr. Tonino Guerra, Il miele, Rimini, Maggioli Editore, 1982, pag. 46.

 

[240] Cfr. Tonino Guerra, I bu, cit., pag. 36

[241] Ivi, pag. 48.

[242] Cfr. Giuliana Rocchi Le parole nel cartoccio, Rimini, Maggioli Editore, 1999, pag. 78. L’affermazione si basa sul fatto che uno degli obiettivi di questa raccolta è proprio il recupero delle versioni originarie di testi scartati o pubblicati con molte modifiche nelle raccolte precedenti.

[243] Cfr. Giuliana Rocchi, La Madona di Garzèun, cit., pag. 25.

[244] Cfr. AM: autografo di Giuliana Rocchi, 1 f. ms., recto (versione inedita de La bumboza).

[245] Cfr. Giuliana Rocchi, La Madona di Garzèun, cit., pag. 34.

[246] Una nota a margine dell’autografo chiarisce che E’ biogh della poesia altri non è se non il padre di Giuliana.

[247] Cfr. Giuliana Rocchi, La Madona di Garzèun, cit., pag. 27.

[248] Ivi, pag. 45.

[249] Cfr. AM: nota autografa di Giuliana Rocchi, sul verso del manoscritto de La malediziaun dla su ma, 1 f. ms., recto e verso.

[250] Cfr. Giuliana Rocchi, La Madona di Garzèun, cit., pag. 53.

[251] Ivi, pag. 76.

[252] Ivi, pag. 68.

[253] Ivi, pag. 42.

[254] Ivi, pag. 54.

[255] Ivi, pag. 72. I ladri di Pesaro che di giorno litigano e di notte vanno a rubare insieme sono i protagonisti di un noto detto popolare romagnolo.

[256] Ivi, pag. 81.

[257] Cfr. Giuliana Rocchi, La vóita d’una dòna, cit., pag. 30.

[258]Cfr. Giuliana Rocchi, La Madona di Garzèun, cit., pag. 83.

[259]Ivi, pag. 107.

[260] Ivi, pag. 85

[261] Ivi, pag. 92.

[262]Cfr. AM: autografo di Giuliana Rocchi, 1 f. ms recto (versione inedita de E’ scróiv).

[263] Cfr. AM: minuta autografa di Giuliana Rocchi, datata “Santarcangelo 5-11-78”

[264] Cfr. nota 60, par. II.3.

[265] Cfr. Monika Savier e Rosanna Fiocchetto (a cura di), Italien der frauen, Munchen, Frauenoffensive, 1987.

[266] Il testo è pubblicato con la dedica anteposta dalla Rocchi: “Ma la Rina, par e’ viaz dal mi stóri in Germania in Giuliana Rocchi, Le parole nel cartoccio, cit., pag.100.

[267] Cfr. AM: autografi di Giuliana Rocchi, 1 f. ms. recto e verso. Sul recto compare la minuta, sul verso i testi menzionati.

[268]Stranamente la maggior parte degli autografi dei testi che vanno a comporre il menabò sono doppi, nel senso che se ne trovano versioni identiche nei due archivi.

[269] Cfr. AM: un autografo di Giuliana Rocchi, 1 f ms. recto, ne riporta una di segnito all’altra due differenti versioni, a loro volta diverse da quella dattiloscritta del menabò.

[270] Cfr. Giuliana Rocchi, , Le parole nel cartoccio, cit., pag. 95.

[271]Ivi, pag. 110.

[272]I dettagli relativi ai rapporti tra la Rocchi e Rita Giannini mi sono stati forniti direttamente da quest’ultima.

 

[273] Cfr. AM: minuta autografa di Rita Giannini, 1f. ms. recto, datata “Santarcangelo, 26/10/90”.

[274] Cfr. Rita Giannini, Tutta una città in diretta tv, sulla “Gazzetta di Rimini” del 28/11/90.

[275] Cfr. AM: minuta autografa di Rita Giannini, 1f. ms. recto, datata “dicembre 1990”

[276] Giuliana Rocchi, Le parole nel cartoccio, cit., pag. 127.

[277] La circostanza è riferita da Rita Giannini nella nota alla poesia La diferénza,in Giuliana Rocchi, Le parole nel cartoccio, cit., pag. 63.

[278] La targa è effettivamente apposta su bordo della fontana e vi si legge: “Questa festa d’acqua a ricordare per sempre Sauro Aroldo Sancisi. La moglie”.

[279] Cfr. Giuliana Rocchi, Le parole nel cartoccio, cit., pag. 63.

[280] Con questa espressione i santarcagiolesi ancora oggi si riferiscono alle contrade della parte alta della loro città.

[281] Cfr. Giuliana Rocchi, Le parole nel cartoccio, cit., pag. 158.

 

[282] Cfr. Davide Argnani, A proposito di Giuliana Rocchi, ne “L’ortica”, numero di settembre/ottobre 1989, pag.3.

[283] Cfr. nota 1 par. III.1.

[284] Cfr. Flavio Nicolini, Lettere per un’antologia di poeti in dialetto romagnolo, in “Il lettore di provincia” numero di dicembre 1990.

[285] Cfr. A. Piromalli, La poesia dialettale in Romagna nel Novecento, in Gualtiero de Santi (a cura di), La poesia dialettale romagnola del Novecento, cit., pag. 45.

[286] Oltre ai tre appena citati, ricordiamo tra gli altri i contributi critici di Raffaello Baldini, Ileana Montini, Adele Cambria, Tullio de Mauro, Nino Pedretti, Roberto Roversi, Luciano Simoncelli, Michele Dzieduszycki: (cfr. par. II.3e III.1).

[287] Cfr. Gualtiero De Santi, L’epica in versi di una vita, in “Il parlar franco”, numero 7 del 2007, pag.7.

[288] Le raccolte in questione sono sotanzialmente tre: quella curata da mario Chiesa e Giovanni Tesio per Mandadori nel 1984, uscita con il titolo Le parole di legno; Poeti dialettali del Novecento, uscita per Einaudi nel 1987 a cura di Franco Brevini ed infine, sempre a cura dello stesso Brevini quella che resta ad oggi la silloge più completa della poesia dialettale italiana dalle origini ai giorni nostri: La poesia in dialetto, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1999, 3 voll.

[289] Cfr. Davide Argnani, A proposito di Giuliana Rocchi, ne “L’ortica”, numero di settembre/ottobre 1989, pag 3.