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DIALETTIINTESI

Concorso per la premiazione delle migliori tesi dedicate alla tutela e alla valorizzazione dei dialetti emiliano-romagnoli

 

Vol. 3

 

 

 

Ida Zicari

 

 

 

LA POESIA DI RAFFAELLO BALDINI

 


Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emlia-Romagna

 

 

via Galliera, 21 Bologna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

pubblicato nel mese di marzo 2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Copyright

creative commons

 

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Dialetti·in·tesi

 

Concorso per la premiazione delle migliori tesi volte alla tutela e valorizzazione delle realtà dialettali emiliano-romagnole

 

Nel quadro del programma regionale annuale (2009) di attuazione degli interventi connessi alla L.R. 45 del 7 novembre 1994 “Tutela e valorizzazione dei dialetti dell’Emilia-Romagna”, l’Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna (IBACN) ha promosso un bando di concorso finalizzato alla premiazione delle migliori tesi, scritte in lingua italiana, dedicate alla dimensione dialettale emiliano-romagnola e discusse tra il 1994, anno di pubblicazione della legge succitata, e il 2009, anno in cui la Giunta della Regione Emilia-Romagna, con proprio atto rep. 2348 del 28 dicembre 2009, ha approvato il programma sopraindicato.

Le tesi, come previsto dal bando, potevano approcciare la materia vernacolare secondo molteplici prospettive: letterarie, storiche, storico-letterarie e linguistico-filologiche.

Le domande di partecipazione dovevano pervenire entro il 15 ottobre 2010. L’elevato numero di domande pervenute -in numero complessivo di quattordici- ha confermato l’attenzione profonda e tutt’altro che episodica per un tessuto linguistico che, oggi più che mai, abbisogna di un concorso di forze, provenienti tanto dalle istituzioni quanto dai singoli cittadini e da tutti i gruppi variamente costituiti sul territorio, orientato ad un’azione di tutela e rilancio dei dialetti, che rappresentano un segno imprescindibile della nostra identità.

Riportiamo di seguito le tesi presentate:

“Attraverso la cultura popolare e letteraria del dialetto reggiano: toni, generi, forme” di Maria Teresa Pantani;
“Bilinguismo e diglossia a Rimini. Un’indagine sul campo” di Fabrizio Colonna;
“Bilinguismo e dilalia a Sala Bolognese. Una ricerca sul campo” di Giacomo Govoni;
“Folklore e dialetto in Olindo Guerrini, Giovanni Pascoli, Tonino Guerra e Libero Riceputi” di Valentina Forlivesi;
“I dialetti di Santarcangelo e della vallata della Marecchia a monte di Santarcangelo” di Rino Molari;
“Il dialetto di Fiumalbo (MO): descrizione fonetica di una varietà linguistica di confine” di Michele Colò;
“Il lessico della canapicoltura nel territorio di San Cesario s/P (MO)” di Chiara Maccaferri;
“Italiano e dialetto a contatto: aspetti del mutamento del dialetto a Sassuolo” di Cristina Fiandri;
“L’esperienza poetica di Gianni Fucci e la tradizione della poesia romagnola” di Gabriele Della Balda;
“La poesia di Raffaello Baldini” di Ida Zicari;
“La variazione sociolinguistica: analisi degli usi linguistici a San Prospero (Modena)” di Alice Cavallini;
“La vicenda letteraria di Giuliana Rocchi” di Cinzia Lisi;
“Le Lettere di Lorenzo Foresti a Francesco Cherubini (1838-1843). Edizione, commento e studio” di Sara Rizzi;
“Tecniche e cultura materiale: tradizioni alimentari a Monterenzio” di Annalisa Marzaduri.

I lavori sono stati esaminati e valutati con parere insindacabile ed inappellabile da una commissione appositamente costituita. La commissione giudicatrice ha valutato gli elaborati sulla base dei seguenti criteri:

 

ü       rigore scientifico della ricerca e coerenza interna dell’elaborato;

ü       tutela e valorizzazione dei dialetti emiliano-romagnoli;

ü       attenzione allo stile e padronanza dei contenuti e del vocabolario tecnico.

Le tesi presentate hanno mostrato la copertura di ampie zone del territorio regionale: in particolare, si sono concentrate sulle province di Modena, Bologna, Forlì-Cesena e Rimini. Inoltre, le differenti angolature da cui gli autori hanno interrogato la realtà linguistica locale ci mostrano una ricchezza e un’originalità nei percorsi che gettano una luce vivida sulla complessità e sulle innumerevoli sfaccettature in cui si articola questa realtà.

I tre lavori più meritevoli sono stati premiati secondo la seguente graduatoria:

ü       1° posto: Euro 1.000,00;

ü       2° posto: Euro 500,00;

ü       3° posto: Euro 250,00.

 

La commissione ha esaminato i lavori e alla fine ha deciso per le seguenti premiazioni:

 

·         1° posto: tesi “Italiano e dialetto a contatto: aspetti del mutamento del dialetto a Sassuolo” di Cristina Fiandri: l’autrice ha compiuto una ricerca approfondita e pressoché esaustiva, coniugando l’acribia e il rigore scientifico dello studioso nell'individuazione e nell'esame dei materiali con la qualità della forma linguistica e stilistica;

 

·         2° posto: tesi “Bilinguismo e dilalia a Sala Bolognese. Una ricerca sul campo” di Giacomo Govoni: l'autore ha dimostrato di saper utilizzare le più aggiornate metodologie offerte dalla sociolinguistica per tracciare un profilo preciso della situazione linguistica attuale nel territorio di Sala Bolognese, offrendo al tempo stesso un esempio di ricerca che può essere esteso ad altri territori;

 

·         3° posto: tesi “La poesia di Raffaello Baldini” di Ida Zicari: l'autrice ha illustrato dettagliatamente l'opera di uno dei più importanti poeti italiani del secondo Novecento, evidenziando il rapporto tra il dialetto e lo stile orale che caratterizzano l'opera di Baldini e le tematiche da lui trattate.  

 

 

Inoltre, come recita il verbale della commissione “Due delle tesi succitate -quella di Cinzia Lisi e quella di Rino Molari- sono state escluse dal concorso rispettivamente per l’arrivo in IBACN oltre la scadenza indicata dal bando, e per la discussione all’università al di fuori dell’arco temporale menzionato nel bando. Tuttavia meritano di essere segnalate, la prima (quella di Cinzia Lisi) per aver affrontato lo studio di un'autrice dialettale di estrazione popolare di singolare originalità, la seconda (quella di Rino Molari) in quanto si tratta di una tesi di interesse "storico", che illustra la situazione dialettale nell'area santarcangiolese negli anni Trenta del Novecento.”

 

              Con la speranza che l’attenzione verso l’universo dialettale della nostra regione possa continuamente rigenerarsi secondo nuove forme stimoli ed indirizzi, vi invitiamo alla lettura delle tesi vincitrici.

 

 

Alessandro Zucchini

          Direttore dell’IBACN



UNIVERSITA’ DI STUDI DELLA CALABRIA

 

 

FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

 

 

Corso di laurea in: Lettere Moderne

 

 

 

 

 

 

Tesi di laurea

 

LA POESIA DI RAFFAELLO BALDINI

 

 

 

 

 

 

 

Relatore                                                                                                  Candidato

Prof.Nicola Merola                                                                      Ida Zicari

 

 

 

 

 

 

 

 

Anno accademico 1997/98


 


INTRODUZIONE

 

Sullo sfondo del miglioramento delle condizioni economiche e delle trasformazioni del tessuto socio-culturale che hanno investito l'Italia nel corso del nostro secolo, un imponente cambiamento della situazione sociolinguistica ha capovolto i termini dello storico rapporto lingua - dialetto. Solo a distanza di un secolo dall'unificazione politica in Italia si compie il processo di unificazione linguistica tanto sospirato e discusso in astratto nei secoli passati. A cominciare dagli anni '60 si riscontra, infatti, il diffondersi di una vera e propria lingua italiana media, unitaria e comune, scritta e parlata, cioè usata con duttilità in relazione a ogni esigenza a livello diamesico, diastratico, diafasico e diatopico. Proprio in concomitanza con questa diffusione dell'italofonia media, che, se da una parte ha italianizzato i dialetti resistenti nell'uso, dall'altra ne ha sanzionato il regresso decisivo, matura paradossalmente la stagione poetica "neodialettale". Negli anni '70, durante cioè l'emblematico silenzio poetico di Tonino Guerra (durato dal 1972 al 1981), si suole fare iniziare la seconda fase della poesia in dialetto del nostro secolo, eccezionalmente feconda di una pluralità di esperienze estremamente varie e presenti in tutto il territorio nazionale. L'utilizzo del dialetto come lingua della poesia, offrendo ora altre vie all'inestinguibile universo della letteratura, si fonda quanto mai prima sulla particolarità di ciascuna esperienza biografica e sull'esclusività individuale delle ragioni di una scelta. Codice linguistico sentito fortemente dotato di una sorta di superiorità affettiva e connotativa, il dialetto continua ad essere carico degli spessori storici e antropologici del mondo a cui appartiene e che sta per scomparire, smantellato e travolto dall'espansione neotecnologica della civiltà postindustriale, ma insieme si piega alle pressioni delle più soggettive inquietudini dell'uomo contemporaneo.

Nel copioso panorama letterario neodialettale la figura poetica di Raffaello Baldini si staglia con l'eccezionalità e l'eccentricità di una grande personalità. Infatti da qualunque parte si osservi, la poesia di Baldini rivela un'inaudita originalità, scoprendo la profondità e la complessità delle sue ascendenze culturali: dalla tradizione letteraria romagnola fino alle più moderne esperienze del pensiero d'Oltralpe (la filosofia dell'esistenzialismo, Kafka, Beckett). In questo scritto ho inteso analizzare l'intera opera poetica di Raffaello Baldini partendo da una precisa collocazione dell'autore nel contesto letterario e sociolinguistico d'esordio, e recuperandone una coerente filiazione storica. Attraverso le quattro raccolte di versi nel dialetto romagnolo di Santarcangelo, E' solitèri, La Nàiva, Furistír, Ad nòta, la poesia baldiniana si svolge lungo un itinerario evolutivo endogeno e profondo di cui ho mirato a evidenziare i passaggi, le varianti e le invarianti a livello tematico, stilistico, formale e metrico. Con un interessante quanto insolito atteggiamento antilirico, antiretorico, antintellettualistico, insomma "anticlassico", Baldini offre al lettore un eccezionale ritratto dell'uomo contemporaneo in tutta la sua profonda e attuale problematicità. E, poiché ogni elemento testuale (semantico, formale, ritmico, fonico, ecc.) nella sua essenzialtà è dosato con estrema precisione e abilità, la poesia di Baldini raggiunge, senza dispersioni né cedimenti, risultati artistici di non comune efficacia espressiva. E' stato autorevolmente affermato che «se non restasse ancora vivo il pregiudizio pigro per il quale un poeta in dialetto è un "minore", anche quando è maggiore, Raffaello Baldini sarebbe considerato da tutti quello che è, uno dei tre o quattro poeti più importanti d'Italia» [Mengaldo 1995 : IX].

Questa tesi si propone di essere un modesto contributo alla conoscenza di un poeta destinato a segnare con la sua impronta questa fine millennio.


Capitolo I

 

 

 

Agli inizi del XIV sec. Dante, alla ricerca del volgare “illustre”, il più adatto alla scrittura d’arte, registra l’esistenza in Italia di una serie di diverse parlate distribuite in tutta la penisola, riconoscendo e classificando «una varietà di almeno 14 volgari» [Alighieri 1990 : 37-41] contenenti altre differenziazioni interne. Non pochi secoli dopo, osservando la situazione linguistica italiana dei suoi anni, Foscolo scrive: «che la lingua italiana non sia parlata neppur oggi apparisce a chiunque abita, e chiunque traversa quella penisola. Le persone educate negli altri paesi d’Europa si giovano della lingua nazionale, e lasciano i dialetti alla plebe. Or questo in Italia è privilegio solo di chi, viaggiando nelle provincie circonvicine, si giova d’un linguaggio comune tal quale tanto da farsi intendere, e che potrebbe chiamarsi mercantile ed itinerario» [Foscolo 1958 : 153]. La lingua italiana, diversamente da quanto era successo alle lingue nazionali d’Europa, aveva avuto per secoli esistenza quasi esclusivamente letteraria, vivendo, scritta e non parlata, paradossalmente come uno straniero in patria, cristallizzata in canoni ben poco rinnovati nei secoli. Di contro tutta la penisola parlante continuava da secoli ad essere divisa in variegate aree di monoglossia dialettale; e i tentativi di italianizzazione degli usi idiomatici al fine di una comprensione reciproca su più ampia estensione spaziale, sebbene non mancassero, rimanevano comunque dei compromessi senza importanti conseguenze dal punto di vista della formazione di una lingua d’uso comune e unitaria [De Mauro 1995 : 369-375]. Tale particolarissima conformazione linguistica di Italia, non intaccata in alcun modo nel trascorrere del tempo, aveva origini remote e ragioni profonde. Dallo sfaldamento dell’Impero Romano, fino al 1860, erano mancate in Italia spinte centripete riconducibili ad una concentrazione unitaria di tutte le funzioni amministrative e politiche. Insieme a un ristagno plurisecolare della vita economica sociale ed intellettuale, si erano verificate invece una serie di eventi che, favorendo la conservazione della divisione della nostra penisola in unità politiche diverse e profondamente differenziate dal punto di vista della struttura demografica e sociale, operarono come forze centrifughe. Le ragioni storiche che hanno determinato la fisionomia linguistica d’Italia fino al 1860 sono state oggetto di varie ricerche da parte dei linguisti a cominciare dall’Ascoli fino a tempi a noi più prossimi. Sulla base di «una realtà geografica discontinua» [De Mauro 1995 : 293-294] tale da opporre ostacoli naturali alla libera circolazione linguistica, si suole far risalire l’origine prima della differenziazione dialettale alla frammentazione etnico-linguistica preromana, con posizioni teoriche più o meno fervide [1]. Prima della conquista romana, l’Italia era occupata da una congerie di popoli, le cui rispettive lingue costituiscono il “sostrato”[2] rispetto al latino. Tra le forze centrifughe che agirono in funzione del persistere della originaria frammentazione etnico-linguistica, si annoverano in ordine cronologico: il particolare carattere della dominazione romana, all’insegna del “divide et impera”, e insieme la differenziazione cronologica del processo di romanizzazione linguistica, e la «reazione etnica naturale» [Merlo 1959 : 6], che hanno indotto a considerare il periodo dell’accentramento politico della penisola sotto il dominio di Roma, una fase di parziale «convergenza sociolinguistica»[3]. Un’altra frattura decisiva è inflitta dalla riforma con cui Diocleziano (imperatore dal 284 al 305 d.C.) divide l’Italia in due circoscrizioni, di Milano e di Roma, lungo la linea appenninica La Spezia-Rimini[4]. All’indomani dello sfaldamento dell’Impero Romano, intervenne da una parte la Chiesa ad irrobustire particolarismi e divisioni, sostituendo le “christianae dioeceses” alle “romanae civitates” [Merlo 1959 : 7]; istituendo cioè circoscrizioni ecclesiastiche e creando il Patrimonium Sancti Petri. Dall’altra subentrarono, in maniera non trascurabile dal nostro punto di vista, le invasioni straniere alto-medievali, le cui lingue costituiscono i cosiddetti “superstrati”[5]. A questi presupposti storici si aggiunga il successivo fiorire di quelle unità politiche (comuni, signorie, stati-regione), dai confini territoriali variabili, che fino al 1860 hanno conservato piena autonomia linguistica negli usi comunicativi orali e scritti informali.

La lingua italiana, tanto sospirata e discussa in astratto, si avvia a diventare d’uso comune e nazionale, solo all’indomani dell’unificazione politica. Organizzandosi come entità politica e territoriale unitaria e moderna, il nuovo stato innesca determinanti dinamiche sociali ed economiche che destabilizzano i secolari equilibri linguistici e scardinano gli statici confini dialettali. Ma l’espansione dell’italiano in direzione orizzontale, cioè lungo tutto il territorio della penisola, e verticale, cioè attraverso la stratificazione sociale, non si prospetta facile a compiersi né rapida, come si sperava. Solo negli anni ’60 infatti, cioè dopo un secolo dall’unità, una vera e propria lingua italiana media, unitaria e comune, scritta e parlata, si riscontra ormai esistente e in diffusa circolazione[6]. Sebbene con la letteratura la lingua italiana abbia costituito per secoli uno dei principali, se non il principale fattore unificante d’Italia, l’elevatissimo numero di analfabeti, pari al 78% [De Mauro 1995 : 36], rivelato nel 1861 dal primo censimento della popolazione del nuovo regno, preannuncia le difficoltà presenti al compimento dell’ormai maturo processo di unificazione linguistica. E se a questo si aggiunge che in quegli stessi anni gli italofoni, lungi dal rappresentare la totalità dei cittadini italiani, erano invece circa il 2,5% della popolazione [De Mauro 1995 : 43], si evidenzia da una parte l’incidenza culturale del plurisecolare policentrismo politico a base prevalentemente rurale, dall’altra la problematica situazione di partenza del nuovo stato. In quegli anni, più dei programmi teorici che si formularono con l’intenzione di risolvere il problema linguistico, come la nota proposta del Manzoni interpellato dal ministro della pubblica istruzione Broglio, intervenne con forza rivoluzionaria lo sviluppo della società in tutti i suoi aspetti. Una prima regressione dell’analfabetismo e quindi della dialettofonia, è provocata dalle emigrazioni esterne che dal 1871 al 1951 hanno interessato soprattutto i ceti rurali meridionali, analfabeti dialettofoni. La sollecitazione venne dallo sfoltimento delle masse di dialettofoni emigrati, dall’incremento delle entrate nazionali con denaro proveniente dal loro lavoro, e dall’accrescimento della qualificazione professionale e intellettuale dell’immigrato che, al ritorno appunto, si reinserisce come elemento di progresso nelle statiche comunità rurali. Effetti di natura più rilevante e di intensità crescente negli anni, ha avuto il progresso dell’industrializzazione che, con il conseguente urbanesimo, ha inciso sulle condizioni economico-sociali non meno che su quelle linguistiche del paese intero. Gli spostamenti demografici, dalle campagne alle città, hanno avuto effetti di osmosi degli idiomi e di conseguente espansione del repertorio linguistico italiano, e di concentrazione delle forze propalatrici della lingua comune: organi statali, scuole, istituti culturali, a cui il miglioramento delle condizioni economiche ha consentito l’accesso ad un numero sempre maggiore di popolazione. Lo studio scolastico, che prima assurgeva a contrassegno di classe in quanto privilegio di una minoranza di benestanti, con l’istituzione della scuola pubblica obbligatoria elementare, offre per la prima volta alle masse la possibilità di riscatto sociale attraverso l’alfabetizzazione. Anche in questo caso, però, i tempi non sono rapidi; gli ostacoli soprattutto nelle zone periferiche non sono pochi: le disagevoli strutture scolastiche e le indigenti condizioni economiche si uniscono alle resistenze opposte dai ben radicati pregiudizi contro la novità dell’acculturazione e della quotidiana frequenza scolastica necessaria. Solo nel corso dei decenni infatti si riuscirà a combattere la massiccia evasione dall’obbligo scolastico. Con la scuola, altri organi statali hanno concorso alla diffusione della lingua comune: la creazione degli apparati burocratici e l’istituzione di un esercito nazionale con servizio militare obbligatorio, infatti costituiscono altre importanti ragioni di contatti sociali e mescolanze linguistiche. Un altro apporto è dato dallo sviluppo della stampa nazionale quotidiana e periodica. Ma, dove  si riuscì solo parzialmente, fu compiuto dai mezzi di trasmissione audiovisiva: il cinema e la radio, e dopo il 1954 soprattutto la televisione. Quest’ultima ha introdotto definitivamente nelle abitazioni un italiano comune, riuscendo a rendere normale e quasi quotidiana la presenza di modelli linguistici italiani in ambienti regionali e sociali in cui il dialetto aveva prima dominato incontrastato [De Mauro 1995 : 51-147]. Alla luce di questi avvenimenti emerge quale caratteristica nuova del nostro secolo un’espansione del repertorio linguistico italiano verso un “settore mediano”: una sorta di mescidanza linguistica tra le opposte varietà di italiano e di dialetto, costituita da quegli aspetti linguistici ricchi di «infinite sfumature e gradazioni individuali» e individuati, da G.B.Pellegrini nel 1959, nell’ ”italiano regionale” e nelle “koinái dialettali” o “dialetti regionali”[7]. La riduzione dell’uso parlato dei dialetti tradizionali e l’aumento dell’italofonia, insieme ad un progressivo processo di italianizzazione dei dialetti e di dialettizzazione dell’italiano, sono alla base dell’estensione delle possibilità espressive fondamentali per un locutore italiano del nostro secolo nei quattro registri di italiano, italiano regionale, dialetto regionale, dialetto locale. In coincidenza di questa vera e propria “svolta” linguistica, tutto il movimento di pensiero è percorso da un’ondata di rinnovamento e di modernizzazione.

 

 


Capitolo II

 

 

 

In concomitanza con le trasformazioni del tessuto socioeconomico avviatesi nel nuovo stato italiano, tutto il complesso della cultura nazionale vive una stagione di rinnovamento. Il passaggio dal XIX al XX secolo è un momento nodale anche per la poesia in dialetto che, risentendo delle incipienti modificazioni dello storico rapporto lingua - dialetto, si rinvigorisce sotto l’impulso e le sollecitazioni provenienti dalle tensioni culturali più moderne. Ma l’uso riflesso del dialetto in poesia aveva esistenza già longeva e polimorfica proprio in virtù di quel singolare policentrismo politico, che poi si traduceva in policentrismo culturale. Nel Rinascimento infatti matura il concetto moderno di “dialetto” che, diversamente da quello originale greco, assume il nuovo e ancora attuale significato di norma linguistica inferiore e subordinata in opposizione a quello di “lingua” che nasce in seno alla questione della lingua. La vincente proposta linguistica di Pietro Bembo nel risolvere la cinquecentesca questione della lingua, pone fine definitivamente a quella «polivalenza linguistica a fini letterari» [Dionisotti 1967 : 25-54][8] caratteristica dalle Origini fino a quasi tutto il Quattrocento. Con la diffusione letteraria del volgare illustre fiorentino, arcaico ma letterario, esemplato sugli autorevoli modelli Dante, Petrarca, e Boccaccio, ed elevato a superiore e prestigiosa “lingua” di tutti gli intellettuali della nazione, che Bembo aveva codificato nelle Prose della volgar lingua (1525),  per conseguenza gli altri “volgari” subirono il declassamento a  “dialetti”[9]. L’uso in scritture d’arte del dialetto consapevolmente scelto come codice linguistico altro, connotato negativamente, evitando invece   quello con cui il Sannazaro rivedeva e rivestiva l’Arcadia, o l’Ariosto l’Orlando furioso, segna la nascita della «letteratura dialettale riflessa o d’arte» [Croce 1926]. Con la sua nota definizione Croce ebbe il merito, se non proprio dell’originalità come ha dimostrato lo Stussi [10], certamente di aver risvegliato negli intellettuali gli assopiti interessi verso l’altro polo di una letteratura che è l’unica «la cui produzione dialettale faccia visceralmente, inscindibilmente corpo col restante patrimonio» [Contini 1970 : 601-619], in cui cioè «il bilinguismo di poesia illustre e poesia dialettale è assolutamente originario, costitutivo» [Contini 1970 : 611]. Egli infatti dissipa i dubbi intorno all’intera mole di produzione letteraria dialettale distinguendo quella «spontanea o popolare» da quella «riflessa o d’arte»: quest’ultima, diversamente dalla spontanea «elementarmente umana» [Croce 1967 : 7], «suppone come antecedente e punto di partenza la letteratura nazionale» e utilizza il dialetto scelto in quanto strumento espressivo naturale, immediato, nativo, non per sostituirsi ad essa ma per completarla, per integrarla. Fin dal suo esordio, con il Ruzzante, il dialetto in letteratura è stato investito di diversi e vari uffici espressivi: dalla polemica sociale alla polemica linguistica, dalla parodia al mimetismo, dall’espressionismo al realismo. La prevalenza del tratto di parodia, satira o caricatura nella rappresentazione popolare ha distinto una prima fase della produzione letteraria in dialetto che cronologicamente va dal XV al XVIII secolo, a cui ha seguito, segnando «una prima svolta significativa che interviene nelle tradizioni dialettali» [Brevini 1990 : 20], una seconda fase caratterizzata invece dalla «rivendicazione del dialetto come lingua della realtà, della moralità, della verità» [Brevini 1990 : 21][11], che, in coincidenza con la nascita del realismo moderno, occupa il periodo intercorso tra il XVIII e il XIX secolo. Nel primo periodo postunitario, il dialetto, forte del nuovo diverso e più esteso concetto di lingua che si sviluppa perché finalmente accettata come organismo dinamico in perenne trasformazione, come sistema aperto e sempre pronto ad accogliere novità, si presenta ora ai poeti come codice linguistico composito e polivalente, dotato di potenzialità espressive inedite prima d’allora.

Con la produzione poetica di Salvatore Di Giacomo, la poesia in dialetto inizia il suo nuovo corso novecentesco. Si attribuisce infatti all’originalità dei caratteri della poesia di Di Giacomo, rispetto alla tradizione poetica dialettale ottocentesca, nel cui filone egli peraltro si inserisce per poi superarla, l’esordio del nuovo modo di fare poesia in dialetto nel Novecento. In piena stagione verista appare la prima pubblicazione di poesie di Di Giacomo: i Sonetti, nel 1884; e nel 1886, in una pagina autobiografica dell’« Occhialetto » di Napoli scriverà, con lucidità autocritica e quasi con intenzioni programmatiche: «In quanto a quello che scrivo "per me", voi potete trovarlo ne’ miei libri. L’ "io" ho cercato di sempre accamparvelo: esso vibra per nevrotica necessità in tutte le cose mie, e, per quanto io m’adoperi a tenerlo a bada, quello riesce in mezzo, come si dice, pel rotto della cuffia» [Di Giacomo 1991 : 13-15]. Insomma un’esplicita dichiarazione, e giustificazione, del suo soggettivismo poetico “per nevrotica necessità”. Non che manchi in Di Giacomo il realismo, la tendenza alla rappresentazione oggettiva, come insegnavano i precedenti letterari Porta e Belli, e come sembrava dover dettare l’uso in poesia del dialetto, lingua della realtà, della concretezza, del quotidiano. Infatti la Napoli colorata di folclore, quella che ospita «mmiez’ ’a strata, / stuorte, struppie, cecate, / giuvene e bicchiarelle, / guagliune senza scarpe, / vicchiarelle appuiate a ‘e bastuncielle, / scartellate, malate, / e ciert’uocchie arrussute / chine ‘e lacreme» (Lassammo fa' Dio…, in Vierze nuove) è tutta ritratta. Soprattutto un maggior indulgere alla descrizione bozzettistica e al quadretto popolare o alla scena folclorica è riscontrabile nella prima fase compositiva del poeta: quella intorno a ‘O fúnneco verde, 1886, quasi come un transito obbligato per chi, come lui, si trovasse a scrivere versi in dialetto negli ultimi anni dell’Ottocento. Ma si fa sempre più scoperta, nel corso degli anni, la spontanea vocazione di Di Giacomo, volta al lirismo piuttosto che al realismo, come dimostrano gli stessi titoli delle nuove raccolte Ariette e sunette del 1898, e Canzone e ariette nuove del 1916, l’ultima. A proposito di questa bivalenza poetica, risolta in una netta prevalenza di ispirazione lirica, Pasolini ha riconosciuto nella «contraddizione tra un realismo che sembrerebbe d’obbligo a un dialettale e una sostanziale inettitudine al realismo» [Pasolini 1952 : XXVIII], la caratteristica «sensualità» [Pasolini 1952 : XXVIII] di Di Giacomo. Guardando alla tradizione lirica italiana della canzonetta settecentesca e dell’idillio leopardiano, la sua voce, nel liberare la sua natura più autentica, si fa canto: «Cardillo, / ca strille, / si siente ca i’canto / screvenno» (Mutivo 'e primmavera, in Ariette e canzone nove). L’io poetico, dispiegando la sua monodia, avvolge di sè tutte le cose su cui si posa lo sguardo; rendendo la realtà «semplice scenario dell’io» [Brevini 1990 : 186], tinge il paesaggio dei colori dell’animo: «O pure simmo nuie, ca ce fingimmo /tutte ‘e n’ata manera sti staggione./[...]/E nun sapimmo di’ ca nuie, nuie simmo /ca cagnammo stu cielo e sti ghiurnate» (Primmavera, in Vierze nuove). Allontanandosi dalla cultura ottocentesca, Di Giacomo ottiene dal suo dialetto, quella sua «lingua di gusto borghese ritagliata nel napoletano, un codice poetico assai personale costruito con l’orecchio ai valori fonetici» [Brevini 1990 : 176], una lingua poetica assoluta; che si plasma sul fraseggio melico e che, dissolvendo le parole in musica, tende all’eufonia. «E solo con lui la poesia dialettale torna a conoscere una piena sincronia con le esperienze in lingua» [Brevini 1990 : 176].

La predilezione per le forme metriche chiuse, e soprattutto per la canzonetta settecentesca, che caratterizza quasi tutta la produzione poetica di Virgilio Giotti, avvicina il poeta triestino al più anziano Di Giacomo. Egli, da Napoli, si presentava come l’unico precedente autorevole di una poesia in cui il dialetto non fosse strumento di rappresentazione realistica. E si può dire anzi che, «con il suo impiego intellettualistico del triestino, Giotti conduce a termine la rivoluzione inaugurata da Di Giacomo a cavallo tra Otto e Novecento» [Brevini 1996 : 436] congedando le tradizionali forme epico - realistiche e satiriche dalla poesia in dialetto, e compiendo il definitivo approdo al registro lirico - elegiaco. Lo stesso Giotti, in una lettera a Giuseppe Raimondi del 23 luglio 1957[12], parlando “degli autori che poi furono i miei maestri”, fa il nome di Di Giacomo e, insieme, di Pascoli. L’affiancare Di Giacomo a Pascoli non è casuale né solo esplicativo di personale simpatia culturale. Quale fosse infatti l’influsso esercitato dal poeta napoletano e da quello di San Mauro sulla poesia in dialetto composta in Italia in quella prima fase novecentesca che va da Di Giacomo, con cui si assiste al trapasso dal vecchio al nuovo, e Giotti che ne è il vero e proprio iniziatore, fino al Pasolini del félibrige friulano e compilatore dell’antologia della poesia dialettale del Novecento, l’ha messo in evidenza proprio Pasolini. Egli, considerando i due poeti l’ascissa e l’ordinata su cui individuare la produzione poetica dialettale novecentesca, attribuisce in particolare a Pascoli un ruolo innovativo egemonico sull’istituzione delle forme poetiche novecentesche: dal suo sperimentalismo plurilinguistico deriverebbero non solo la maggior parte dei poeti dialettali, ma anche i crepuscolari, le ricerche impressionistiche, le invenzioni analogiche ungarettiane, le crudezze autobiografiche di Saba, «tutto il vocabolario della metafisica regionale o terrigena del Montale» [Pasolini 1960 : 231-238]; per citarne solo alcuni dell’elenco pasoliniano. Ma prescindendo dalla pasoliniana dilatazione totalizzante della funzione Pascoli, per cui si rimanda alle pagine che Brevini dedica a tale questione [Brevini 1990 : 199 sgg.], è fuori di ogni dubbio che il Pascoli delle cose umili, delle minime nappine della pimpinella, realizzando quella «rivoluzione romantica», quella «democrazia poetica» [Contini 1970 : 234] con l’estensione del diritto di cittadinanza poetica a tutti gli elementi della realtà, ha dato ai dialettali, soprattutto con Myricae, «un autorevole avallo, non tanto della loro lingua, quanto del loro mondo minore. Il Pascoli rappresentò il prestigioso modello di una lirica programmaticamente impegnata nell’abbassamento del tono e dei temi della poesia» [Brevini 1990 : 204]. Sulle orme di quel dialettale in potenza che era Pascoli, si muove Giotti che pubblica nel 1914 la sua prima raccolta di poesie, Piccolo Canzoniere in dialetto triestino, e si dedicherà alla versificazione in dialetto e alla pittura fino alla morte avvenuta nel 1957. Estranei alla poesia di Giotti sono non solo i soggetti eccezionali, ma tutto quello che può sapere di esperienza fuori dal comune; il suo sguardo si ferma invece su oggetti e fatti della più semplice vita quotidiana. Ma viva è la potenza espressiva che risiede nel contrasto tra un tessuto formale consapevolmente letterario, indice di un atteggiamento classicistico volto alla ricerca della compostezza della perfezione formale attraverso l’uso di metri chiusi, l’ordine inverso, enjambements, e il trattamento intellettualistico, non - vernacolare, del dialetto triestino; e una materia poetica semplice, disadorna, ingenua, alla stregua della pittura naïve. Le fisionomie e i dettagli sono raffigurati con lo scrupolo di un realista, ma la fissità delle immagini, l’immobilità della loro evidenza, ricreano un mondo che più che reale è incantato: «Bolàffio, / in ‘sta su piazza bela, / noi, poeti e pitori, / stemo ben. La xe fata / pròpio pai nostri cuori, / caro Bolàffio.» ( Con Bolàffio, da Colori ). Dietro l’apparente semplicità vibra la fede di Giotti nella poesia come unica possibilità di cogliere l’essenza delle cose e percepirne la vitalità prima che tutto scompaia: «Prinzìpia e po’ ga un fin / tutto» (La casa ). Nelle immagini nitide e lineari, nei colori tenui ma non sfumati, il poeta, consapevole di usare il cromatismo pittorico, le maciete, come materia poetica, ripone il desiderio di fermare il trascorrere inesorabile del tempo in un'immaginaria eternità degli affetti domestici, delle cose care, ricongiungendo il passato il presente e il futuro, la Vita, nella fissità dell’immaginario poetico, dell’eterno: el paradiso. Il mondo di Giotti poggia su un terreno “sacro”, dove tutto può essere importante o può cessare di esserlo, e dove la meditazione sul dolore dell’esistenza, sulla precarietà del vivere minacciato senza requie dalla sorte nascosta dietro la porta scura (La porta serada, da Sera), ne costituiscono il «perpetuo contrappunto grave» [Mengaldo (a cura di) 1978 : 298]. Intorno alla ragione, in Giotti, della scelta del dialetto triestino per la sua versificazione, Pasolini ha divulgato un aneddoto ormai celeberrimo, così dicendo: «Siccome Giotti, parlando, usa la koinè italiana, un amico gli chiese un giorno perché non parlasse il suo dialetto. “Ma come, - rispose Giotti, - vuole che usi, per i rapporti di ogni giorno la lingua della poesia?”» [Pasolini 1960 : 243]. Il poeta si rivolge al dialetto non come fosse una lingua minore rispetto a quella maggiore della tradizione letteraria italiana, ma ad una lingua di pari livello dell’italiano, però reale e viva e nello stesso tempo assoluta, «quasi inventata» [Pasolini 1960 : 243]. Una lingua che non sia compromessa semanticamente e foneticamente con la prosaicità e l’aridità degli usi quotidiani, ma sia insieme antiretorica, umile, personale. Nella recensione del ‘53 all’antologia pasoliniana, menzionando accanto a Giotti il milanese Delio Tessa come «due poeti coltissimi, i primi veri decadenti dialettali» (La musa dialettale) [Montale 1996 : 1495], Montale sottolinea la piena sincronia delle loro esperienze poetiche in dialetto con quelle in lingua. A tal proposito scrive: «il milanese Delio Tessa e il triestino Virgilio Giotti[...] portano ancora il dialetto al livello della lingua, spremendone tutti i succhi e puntando sugli effetti della parola scritta: scritta e non solo recitata. E che hanno fatto i poeti italiani impropriamente detti ermetici - da Ungaretti in poi - se non ricavare una loro lingua, e quasi un loro dialetto, dal linguaggio aulico della poesia corrente? Si ha qui una convergenza di ruscelli diversi nell’unico fiume della poesia» [Montale 1996 : 1495].

In tutt’altra direzione si muove Tessa che, partendo da una tradizione culturale, quella milanese, ben più consistente e cospicua della triestina, perviene a soluzioni poetiche di natura completamente diversa. Schivo e pensoso, amante della solitudine e del silenzio, timido e non proprio coraggioso, ma bizzarro e ironico, avvocato di professione ma profondamente immalinconito dai «fascicoli di Giurisprudenza e i trattati di diritto... libri d’uggia!» [Tessa 1988]: questo è il ritratto che Tessa fa di sé nelle pagine delle sue Ore di Città. Egli, che «ha lo stupido vizio di ammirar la città e di viverci dentro come in una fogna» [Tessa 1988 : 46], si considera un «ambrosiano puro», uno di quei milanesi cioè che non abbandonano la città nemmeno nei mesi estivi e soffrono nel vederla avviarsi «a diventar veramente brutta», da «non bella» [Tessa 1988 : 81] quale era, per opera del boia Piccone Risanatore e della sentenza di morte del Piano Regolatore. Col desiderio di conservare intatto il nucleo della città vecchia chiuso nell’anello dei navigli, immaginato come «una specie di Ghetto» per vecchi milanesi come lui in cerca di rifugio, assiste invece con sofferta passività agli scempi delle inondazioni della modernità, trascorrendo i suoi ozi in «lunghe, affaticanti e spesso inutili peregrinazioni per la città» [Tessa 1988 : 206]. Triste perché «ammalato della più segreta di tutte le malattie, di una malattia quasi vergognosa ai nostri dì, malato di poesia» [Tessa 1988 : 32], Tessa sceglie l’isolamento nel rifiuto della contemporaneità e della sua arida normalità. E il suo isolamento affonda le radici ben oltre il suo carattere solitario e introverso, rappresenta piuttosto l’atto estremo di una sofferta ribellione contro la stupidità dilagante e la scarsità di valori di un «mond de prepotent e de cagoni» ("mondo di prepotenti e di calabrache", La poesia della Olga), in cui l’avvento del fascismo costituisce la conferma dell’immodificabilità delle sue strutture, dell’irreversibilità dei suoi processi di decadenza, dell’impossibilità di redenzione per l’uomo. La completa assenza in lui di fiducia nella funzione sociale svolta dalla poesia o dai poeti, di cui anzi reputa che nessuno «si curerebbe oggidì se pur vi fossero» [Tessa 1988 : 175], si inserisce in quel suo “radicale pessimismo antropologico” (Fortini) che altro non gli consente fuorché rimpiangere la felicità definitivamente perduta col tempo e col progresso. Ma un uomo che in vita ha tenuto sempre vivo «il culto del passato» e non del suo passato [Tessa 1988 : 123], riesce ad essere invece tra i poeti più moderni raggiungendo, attraverso tormentate ricerche stilistiche, risultati tra i più avanzati nella poesia della prima metà del ‘900. L’opera di Tessa, poeta prosatore e sceneggiatore, è rimasta a lungo ai margini dell’attenzione letteraria, come dimostra l’esiguità iniziale della bibliografia critica, e come egli stesso riferisce quando, di fronte ad un bando di concorso per titoli e per esame a “6 posti di necroforo”, con il suo consueto sarcasmo, scrive: «Mi domando se l’aver pubblicato - come io ho fatto - un libro di poesia intitolato: L’è el dì di Mort, alegher! possa ritenersi titolo valido. Mi domando pure se la tristezza in cui verso da anni nel sapere che quasi tutta l’edizione è rimasta nel gobbo della Mondadori possa esser ritenuto altro buon titolo per riuscire» [Tessa 1988 : 101]. Quei nove saggi lirici in dialetto milanese, con testo esplicativo in lingua dell’autore, di cui il criterio strutturante in libro era, con le parole di Gibellini, quel «senso ilare e doloroso della morte» [Moretti (a cura di) 1992 : 79] che poteva essergli utile almeno per fare il becchino, fu l’unica opera di cui Tessa vide la pubblicazione, nel ‘32; postume infatti sono le altre. Da qualunque parte si osservi, la poesia di Tessa scopre la profondità e la complessità delle sue ascendenze letterarie: dal naturalismo al simbolismo, dalle vaghezze crepuscolari alla concentrazione della lirica pura, fino al più moderno espressionismo d’oltralpe. Al tratto psicologico di nostalgia e rimpianto per quel passato irrimediabilmente perduto fa riscontro una materia poetica volutamente tradizionale che passa attraverso il maestro Carlo Porta, il bozzettismo minore e il verismo ottocentesco, la Scapigliatura, recuperando il tratto convenzionalmente dialettale dell’oggettività epico-narrativa che i poeti più rappresentativi della svolta novecentesca su delineata, si erano occupati di liquidare. Ma l’atteggiamento verso questi ingredienti poetici datati è di ostentazione di ritardo culturale, di «ricercata inattualità» [Brevini 1990 : 242], come infatti si evidenzia dal loro trattamento. La sensibilità moderna di Tessa, compressa nella passività ironica e nella solitudine della vita di tutti i giorni, ribolle nella poesia lasciando esplodere, con un’energia sarcastica che corrode quella stessa materia, il suo rifiuto, la protesta contro il vacuo ottimismo dei programmi di razionalizzazione promossi dal fascismo e il grigiore della corruzione che ne deriva. Il suo mondo poetico è popolato da miserabili disgraziati reietti della società del buonsenso razionale, ma la sua simpatia è tutta rivolta a quel mondo in cui resistono le ultime sopravvivenze di autentica umanità. Il bisogno di evasione non si traduce in toni elegiaci ma nel tentativo di sovvertire gli ordini logici comuni e normali, capovolgendo i valori sociali al grido alla Capovacca Olga di «viva l’inferno/ alegher della toa gent desculada!» ("viva l’inferno allegro della tua gente sbracata!"), perché gli uomini non sono altro che ruffian, le donne vacch, e per quanto si girino gli occhi altro non si vede intorno che «e cà, e donn, e cà...» (La poesia dell’Olga da De là del mur). Anche la scelta del dialetto in ultimo corrisponde alla scelta di un livello espressivo di protesta e di trasgressione; di sovversione linguistica che si accompagna a quella formale. Negli schemi metrici strofici e nella registrazione realistica del parlato, ereditati dalla tradizione dialettale, le voci della poesia di Tessa si insinuano minacciose a scardinarne le articolazioni razionali, provocando una scrittura franta, tra sospensioni, indugi e poi riprese inaspettate, tra «l’esplosione fonosimbolica e l’evocazione onomatopeica» [Brevini (a cura di) 1987 : 42]. In questo moto centrifugo di dissoluzione del razionale nell’irrazionale, l’uso del dialetto diviene «surrealistico ed onirico» [Mengaldo (a cura di) 1978 : 452], e la poesia diventa «la sede di una liberazione simbolica dai penser, di una riorganizzazione dell’universo, vissuta in parallelo all’esperienza fantastico-allucinatoria descritta dai testi» [Brevini (a cura di) 1987 : 41]. Con Tessa la poesia in dialetto viene aggiornata al più moderno espressionismo[13].

Diversamente da Tessa, e dal suo atteggiamento profondamente dialettale, poeti come il gradese Biagio Marin e il veneziano Giacomo Noventa ricorrono al loro dialetto dopo averlo sfrondato dei tratti più propriamente idiomatici, dopo averlo cioè tendenzialmente reso personale e stilizzato. Ma mentre per Noventa, agli antipodi dei poeti ermetici, la sua lingua costituisce lo strumento di una battaglia ideologica e culturale, è «lingua-rifugio» di «una forzata segregazione o, se si vuole, di un orgoglioso esilio» [Brevini 1990 : 242-243], per Marin, in linea invece con gli ermetici, la scelta del dialetto del suo paese per fare poesia ha le sue motivazioni nell’ «intimo bisogno di originalità nel senso di dare espressione alla sua più intima personalità»[14].

A chiudere questo sintetico profilo dei tratti più nuovi che viene ad assumere la poesia in dialetto nel primo periodo novecentesco, e delle personalità più originali e rappresentative di questa “svolta” è designato unanimemente il Pasolini poeta in dialetto. Egli porta alle

estreme conseguenze i modi più tipici della poesia dialettale primonovecentesca, di cui era profondo conoscitore. Aveva infatti nel ‘52 pubblicato l’ormai celebre antologia Poesia dialettale del Novecento, con la collaborazione di un altro poeta dialettale, il romanesco Mario Dell’Arco. Il rilievo dell’esperienza poetica in dialetto di Pasolini è tale che oltre a chiudere circolarmente quella fase, pascoliana, dà l’avvio alla più recente stagione, detta “neodialettale”; quella cioè il cui punto ideale di partenza può essere fissato, con il Brevini, nell’edizione de I bu del 1972 del romagnolo Tonino Guerra [Brevini 1990 : 40]. Nel ‘42, Pasolini giovanissimo, era appena ventenne infatti, pubblica la prima raccolta di poesie friulane Poesie a Casarsa, subito recensite da Contini, che confluirà insieme alle poesie del decennio successivo, oltre che in casarsese in altre varietà friulane e venete, nel volume de La meglio gioventù del ‘54. Nello stesso anno Contini, sottolineando la singolarità di questa produzione poetica, scrive: «Eccoci, col Pasolini, a un caso-limite» [Contini 1954 : 13]. Friulano solo per metà, immigrato nel ‘43 in Friuli, adotta una varietà linguistica periferica, marginale, priva di tradizione letteraria e quindi dimenticata; ma si diletta di un plurilinguismo dialettale, e, non contento, induce i suoi adepti a fare altrettanto, dando così vita a quel fatto nuovo nella nostra cultura che è appunto il félibrisme friulano. Egli si collegava esplicitamente «ai provenzali antichi come fantasma estetico, per una suggestione esercitata dalle origini: romanze e cristiane» [Pasolini 1952 : CXXVIII]. Ad attrarlo nel dialetto sono certamente ragioni letterarie: la ricerca di una lingua poetica che come tale sia inedita, eccezionale, più evocativa, primordiale, interiore, lo inserisce nella sfera di quel decadentismo europeo che aveva in Italia Pascoli come primo rappresentante, inducendo Contini a porlo, dal punto di vista linguistico, «sul prolungamento della linea pascoliana» [Contini 1970 : 238] a posteriori. Già altri precedenti dialettali, come s’è visto, avevano trovato nel dialetto la loro appagante soluzione di fronte al dilagante senso di insoddisfazione procurato dal linguaggio aulico della tradizione poetica nazionale. Ma  Pasolini, portando alle estreme conseguenze quel processo di personalizzazione del dialetto in funzione poetica, lo compromette a tal punto con la sua biografia da complicarlo in simbolicità molto carica. In quel suo costante bisogno di esibire un atteggiamento sempre rivoluzionario e compiaciuto, il dialetto di Pasolini diventa addirittura una lingua “inventata”, che sola riesce a dare vita poetica alle sue urgenti ragioni biografiche. Pertanto introduce l’uso sistematico di porre a piè di pagina la sua versione italiana di ciascuna lirica, con l’intenzione di rivolgersi a un pubblico non certamente locale, bensì nazionale. Nelle Poesie a Casarsa, la scelta di quel dialetto materno nel senso letterale, perché della madre casarsese, ma non posseduto, aveva il significato di «regresso da una lingua a un’altra - anteriore e infinitamente più pura» a cui corrispondeva «un regresso lungo i gradi dell’essere» come «unico modo di conoscenza» [Pasolini 1952 : CXXVIII] a lui possibile. La concettualizzazione dell’esperienza, all’origine del processo conoscitivo, in Pasolini non poteva avvenire che attraverso la trasformazione simbolica degli elementi della sua realtà psicologica in concetti nel dialetto e nei luoghi mitici dell’infanzia e dell’innocenza perduta , di Casarsa: in un punto in cui cioè «la fase di felicità coincideva con l’incantevole paesaggio casarsese» [Pasolini 1952 : CXXVIII]. Infatti «conoscere equivaleva a esprimere», scrive ancora, ma il momento della conoscenza e quello linguistico riescono a corrispondere per lui solo necessariamente con il dialetto di Casarsa, mentre sottolinea, con l’ausilio della saussurriana parole, che ogni atto linguistico individuale poetico è anche «un’invenzione psicologica» [Pasolini 1952 : CXXV]. Per lui «lo scenario friulano è un repertorio allegorico» [Brevini (a cura di) 1987 : 295] necessario cioè a rappresentare il proprio trauma biografico, e il suo dialetto, “inventato” prima del ‘43, poi “lingua reale” dopo il trasferimento di abitazione a Casarsa, a cui continuava a rivolgersi sempre spinto da quella tensione decadente, «è il codice più idoneo per dare voce ad una componente fondamentale della sua personalità poetica: quella che potremmo definire verlainiana, idillico-elegiaca, tendente a risolvere la gravitas della materia in mèlos, la confessione in falsetto» [Brevini (a cura di) 1987 : 295]. Tuttavia il nucleo tematico di questa stagione poetica pasoliniana risulta alquanto monotono: centrale è la contrapposizione di ieri e oggi, luce e ombra, vita e morte, dentro e fuori Casarsa, innocenza e peccato, al di sopra di cui accampa la figura della mari. Insomma i simboli dell’originaria dialettica dei contrari che però nella specificità della vicenda biografica che Pasolini volutamente colloca con ossessione nel traslato dei suoi versi, coincidono con l’“ambiguità” in cui si consuma tutta la sua esistenza, biologica ma non solo. Con uno zelante lavoro di architettura testuale e di diversificazione delle soluzioni stilistico-formali, la precipua problematica esistenziale, tragica, viene trattata invece in modo «elegiaco, leggero, prezioso, manieristico» [Brevini (a cura di) 1987 : 296]. Quei caratteri che contrassegnano la novità della produzione poetica di Pasolini: il rivolgersi ad un dialetto non più metropolitano come il triestino, il milanese o il napoletano, ma periferico, e sovraccarico di significati altri in quanto legato intimamente all’autobiografia; la consapevolezza della ricerca di quell’”intraducibilità” che, ben lontano dal rientrare nella mitologia dell’intraducibilità tipica della convenzione vernacolare, rappresenta il «reagente di marca decadente» [Brevini 1990 : 237] a una «civiltà giunta a una sua crisi linguistica, al desolato, e violento je ne sais plus parler rimbaudiano» [Pasolini 1952 : CXXVII]; la conversione del dialetto  in idioletto, fondano le premesse del superamento della poesia dialettale primonovecentesca e i presupposti per lo sviluppo di quella fase che dagli anni ‘70 prenderà corpo nel mutato sfondo culturale. 

 

 


Capitolo III

 

 

Quella porzione di Italia geograficamente compresa tra le due provincie di Ravenna e Forlì, con il territorio di Imola e con le valli di Santerno e Sillaro (in provincia di Bologna ), con Palazzuolo, Marradi e Firenzuola (in prov. di Firenze ), il Montefeltro e Focara (in prov. di Pesaro ), con i lembi di Badia Tebalda e Argenta[15] è unita da una cultura che, formatasi sulla base di una comune sorte storica e glottologica, vanta origini antiche e illustri. Infatti il dialetto romagnolo che già Dante aveva distinto come volgare caratteristicamente «effeminato per la mollezza dei vocaboli e per la pronuncia, che un uomo viene scambiato per una donna, anche se parla con voce fortemente maschile», escludendolo pertanto dalla sua ricerca linguistica [ Alighieri 1990 : 53 ], si offre non tardi con tutti gli ingredienti necessari alla produzione letteraria dialettale. Tralasciando il periodo delle origini, la Romagna risponde puntuale all’appuntamento cinquecentesco. Tra le varie esperienze letterarie in cui il dialetto è intenzionalmente usato come codice linguistico altro e diversamente connotato, sono degne di nota, infatti, quelle dei cinquecenteschi commediografi faentini: Alessandro Caperano con Il Rifo e Il Melandro e Piero Francesco da Faenza con la Commedia nuova. Mentre in linea con il costume secentesco del travestimento dialettale dei poemi celebri, il poema Pulon matt, opera di un ignoto autore cesenate e databile al 1591 [ F. Marri 1993 : 219 ], ricalca l’ariostesco Orlando furioso parodiandolo. Anche nel campo della lessicografia la Romagna può vantare precoci inizi con il Vocabolario romagnolo – italiano pubblicato da Antonio Morri nel 1840.

L’Ottocento realistico produce in Romagna due filoni di poesia in dialetto afferenti agli stereotipi offerti dalle esperienze letterarie di Olindo Guerrini e Aldo Spallicci. Fino al secondo dopoguerra, con l’eccezione di Nettore Neri, essi figurano infatti gli indiscussi protagonisti sul palcoscenico della poesia dialettale romagnola. Cronologicamente precedente, Olindo Guerrini  (Forlì 1845 – Bologna 1916 ), laureato in legge e letterato di fama, conobbe una stagione di notorietà con la raccolta poetica in lingua, Postuma, pubblicata nel 1877 sotto lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, mentre i sonetti in dialetto romagnolo furono scritti in un ampio periodo di tempo. Quelli composti dal 1876 al 1879 furono pubblicati nel periodico ravennate di satira e di politica «Il lupo»; quelli scritti fra il 1880 e il 1882 ne «L’asino», lunario scientifico ravennate; gli altri, posteriori al 1882, rimasero invece inediti fino al 1920, anno della pubblicazione postuma dei Sonetti romagnoli, curata dal figlio Guido secondo le indicazioni del padre [Guerrini 1920]. Guerrini matura la sua esperienza di poeta dialettale nell’ambito del più tradizionale realismo, portiano e belliano; egli, infatti, intende ritrarre il suo popolo romagnolo facendone «la futugrafí d’la veritè» (Arsposta II) da lasciare alla memoria dei posteri per divertimento. E, di fronte alle accuse puritane di scostumatezza, per la dovizia di volgarità, egli si difende affermando la dignità del dialetto santalbertese usato: «e’ linguagg naturel d’e’ mí paes», in cui le parole «al n’è l’imagin d’una purcarí», ma, al contrario, «st’al parulazi al s’dis vluntira / senza malizia e senza ipucrisí» (Arsposta I). Fatte queste necessarie premesse, il poeta procede regredendo nei parlanti, prestando cioè la sua voce a quella ricca e variegata galleria di personaggi monologanti che popolano il colorato affresco di vita romagnola: sono figure stereotipiche quali il bracciante, il ciabattino, l’anticlericale, il clericale, e tra tutti gli esemplari Pulinera, il rappresentante più genuino dello spirito ravennate. Battezzato col nome del Santo patrono di Ravenna, S.Apollinare, Pulinera «è il ravennate che si potrebbe dire classico, del buon tempo antico, filosofo, arguto, bonaccione, conservatore fervoroso di vecchie credenze» [Guerrini 1920 : XXXI ]. Tugnazz, invece, è «il campagnolo di trenta anni fa, bonario e malizioso» [ Guerrini 1920 : XXXIII], che coltiva tre passioni sorelle: la caccia, i cavalli, il vino. Restituiti ai luoghi originari, poi, ricevono vita letteraria da Guerrini le figure di spicco della società ravennate: Zezar Raspon è il conte Cesare Rasponi, la Zabariona è l’ostessa fuori Porta Adriana, Tomaccelli è Giacomo Tomacelli il proprietario della farmacia, e tanti altri su cui ci informa Guido Guerrini nelle sue pagine introduttive. In rapidi e arguti schizzi caricaturali, frutto di una nativa ed estrosa comicità, prende forma il mondo del popolano ravennate nella sua essenza più vera; riottoso ad ogni forma di pudore e di convenzionalità borghese, allegro e spietato burlone, talvolta ardito contro i soprusi del governo del clero e dei benestanti, insomma i corrotti detentori del potere politico ed economico, ma più spesso ottimisticamente rassegnato perché persuaso che il mondo sia sempre così: «chi magna agli oss, chi magna la suzezza; / chi lavora va a pé cun al scherp rotti; / chi n’fa un cazz va in caroza cun la plezza» (Geografí). Ma l’immancabile fedele compagno di avventura e di sventura è il buon vino, il più antico ansiolitico, già celebrato nell’autorevole classicità come laqikhdhV («che fa dimenticare gli affanni») alla maniera alcaica, per i suoi venerabili poteri di curam metumque solvere (Orazio, epodo IX). E per il ravgnan, che si distingue ovunque facendosi riconoscere «parchè e’ dscor fort, / parchè cun i sarace (sputi) e’ fa un paltan (pantano), / e finalment parchè un aserra al port» (Ivrea), l’osteria è il luogo privilegiato del vino, dell’amicizia, dei divertimenti, delle chiacchiere chiassose, delle bestemmie liberatorie, delle beffe, insomma è il luogo privilegiato della rimozione degli affanni e dell’ispirazione poetica. La sapiente modulazione dei registri linguistici in Guerrini concorre ad ottenere una mimesi più oggettivata e più naturalmente caratterizzata degli ambienti e dei tipi umani rappresentati, insieme ad effetti comici caricaturali più efficaci. E così il personaggio prima ancora che un carattere diventa una maschera linguistica. I popolani, i puvar purett cui vanno le simpatie del poeta, parlano orgogliosamente il dialetto nativo; il sedicente critico d’arte, persuaso che INRI sia il nome, o piuttosto lo pseudonimo di quell’autore di «una massa di milioni» di crocifissi, ostenta una parlata più ricercata; mentre la forbita risposta di Reva, Luigi Rava Ministro della Pubblica Istruzione, all’affamato Mestar (maestro), o il compiaciuto sciorinamento di formule giuridiche in latino da parte dell’avvocato, lasciano interdetto e canzonato il popolano ingenuo e ignorante, come già fu per il Renzo manzoniano «preso da quella suggezione che i poverelli illetterati provano in vicinanza d’un signore e d’un dotto», di quella «cima d’uomo» cioè che era l’avvocato Azzeccagarbugli. Il divertito gusto parodistico e scandalistico, sempre diffuso nei versi guerriniani, lascia talvolta trasparire, tradendo l’ottica dell’oppresso, l’amarezza di un’acuta denuncia sociale morale e civile: e la comicità diventa umorismo.

L’essenza della romagnolità affrescata da Guerrini nel suo aspetto più sanguigno e vitale, trova il suo opposto e complementare in quell’ «anacronistico e spesso assurdo e inopportuno senso di stupore di fronte alle cose; una maniaca dimostrazione di affettuosità […]; l’idillismo insomma come manifestazione di bontà» [ Pasolini 1952 : 102 ] di matrice pascoliana che si diffonde con la poesia di Aldo Spallicci ( Bertinoro, Forlì, 1886 - Premilcuore, Forlì, 1973 ).

L’epiteto di “poeta rurale” che D’Annunzio usò riferito a Pascoli nel 1892, recensendone la seconda edizione di Myricae [16], può pienamente attribuirsi ad Aldo Spallicci che peraltro la critica, da Pasolini in poi, ha spesso avvicinato al suo conterraneo meritatamente ben più noto. Il pascoliano amore per la natura profuso nei versi di Myricae attraverso l’osservazione partecipe della vita degli elementi più umili della campagna, e dimenticati dalla letteratura dei poeti italiani, il sentimento di affetto e di gratitudine verso la «natura, madre dolcissima, che anche nello spegnerci sembra che ci culli e addormenti» [ Pascoli 1993 : 369 ], costituiscono i tratti più tipici di quello stereotipo georgico a cui dà vita Spallicci nella sua fluviale produzione poetica in dialetto romagnolo. Ma, estremamente suggestionato dal patrimonio popolare, Spallicci descrive quella «Romagna solatìa, dolce paese»  (Romagna) [Pascoli 1993 : 137,141] intorno a cui si polarizza l’interesse e la fantasia poetica, con l’occhio del folklorista[17]. Lungi dall’ambire a raccogliere allori nazionali, egli non tenta di svelare i misteri reconditi dell’universo, né creare un luogo mistico di evasione lirica, bensì vuole con umiltà rendere devotamente grazie alla natura in tutti i suoi aspetti, alla campagna che nutre l’uomo. Repubblicano “storico”, «dotato di una fluente barba grigia, cordiale ed eruditissimo», come appare a Montale nel ‘56[18] [ Montale 1996 : 1949 ], Spallicci si rivolge alla sua gente e canta l’anima delle cose all’intorno ( «l’anma dal cos intond» in La bona, la santa puesì, da È stardacc, 1939 ) con la forza della fede che «la bona, la santa puesì» riesce ad avere, convinto di gettare «una smenta / sora una chêrta bianca / ch’la finirà qua un dè par la mi zenta / con una gamba franca» ( “una semente sopra una carta bianca che fiorirà qua un giorno per la mia gente con un gambo franco”, in E’ prem livar ’d puesì, da Fior ‘d radecc, 1930). Con tono da idillio ed un incedere pacatamente descrittivo e colloquiale, la quiete di una natura che si rinnova nei suoi cicli vitali eterni assicurando all’uomo la vita, pervade senza artifici le atmosfere e i paesaggi agricoli di Spallicci. Nemmeno il pensiero della morte turba la serenità campestre e l’equilibrio dell'ottimistica visione cosmica spallicciana: la benevola Madre Natura si cura dell’uomo sopra e sotto la terra, e pertanto lo tiene legato a sé da un intimo sentimento di devozione religiosa.

Come quella di Spallicci, anche l’esperienza poetica di Nettore Neri (Barbiano di Cotignola, Ravenna 1883 – Vignola, Modena 1979) è ascrivibile all’ambito di quella produzione dialettale “media” primonovecentesca in cui la poesia, non più documento sociale, diventa apologia della propria terra, agiografia borghese dei valori municipali, arricchita delle nuove suggestioni liriche e mitiche. Con questa il poeta non mira più a rappresentare la comunità, regredendo nel popolano parlante, bensì tende a farsi cantore della sua piccola amata patria con toni scopertamente celebratori e con tratti convenzionalmente stereotipici. Tipico inoltre è l’uso delle forme metriche chiuse più tradizionali, più accentuatamente regolari e senza artifici, indice di un altro aspetto comune a questa produzione media primonovecentesca, su cui ha insistito Pasolini: il tendenziale ritardo [Brevini 1990]. Sorta nella cerchia delle borghesie municipali, all’interno cioè del loro rinvigorito interesse verso le tradizioni locali, dialettali e popolari, e a loro destinata, questa poesia anche nel caso di Neri, presenta tracce tematiche e idiomatiche tipicamente folkloriche. Ma in Neri il più perspicuo tratto di contatto con le tradizioni popolari romagnole è certamente quello formale: nella sua poesia ricorre la forma della “zirudella” romagnola (versi ottonari per lo più in rima baciata), ma soprattutto è usato il rispetto popolare nella sua forma più tipica di otto endecasillabi bipartiti: ABAB CCDD, oppure ABBA CCDD. Del rispetto popolare Neri non ripropone solo il metro, ma in modo meno rigoroso anche la tecnica retorica che lo contraddistingue: il “parallelismo”[19]. La scrittura, infatti, non si svolge lineare ma a spirale; attraverso la ripetizione di singole parole, sintagmi tematici, o interi emistichi, da un verso al seguente, facendo cioè ampio ricorso alle tecniche retoriche della repetitio, Neri crea una fitta rete di richiami verbali che amplificano il valore referenziale di quei pochi elementi costitutivi della sua poesia e ripropongono quella particolare ridondanza tipica della poesia a trasmissione orale. Il nucleo tematico, piuttosto esiguo e monotono, si concentra su facile impressionismo paesistico, esili storie d’amore, scorci di vita della campagna romagnola che, perduti completamente l’allegria e i colori della solarità spallicciana, assume ora l’aspetto di un elegiaco paesaggio nordico avvolto nella sottile nebbia autunnale. E’ una Romagna guardata con «magon» ("accoramento") da «dri i vidar» ("dietro i vetri") e ridotta nei suoi basici elementi poetici: «e’ vent e’ porta veja / agli ultmi foj» ("il vento che spazza via le foglie"), «al starmess al bdóll» ("lo stormire delle betulle"), «la ciacra l’acqua» ("le chiacchiere dell’acqua"), «e’ canta za i uséll» ("il canto degli uccelli"), «un branch ed pígur ch’al va vörs in zo» ("un gregge di pecore che scende a valle"), «vola, imbariêga d’sol, una parpaja» ("vola, ubriaca di sole, una farfalla"), «la nebia i ven zo» ("la nebbia che si abbassa"), e «e’ sol sbiavd» ("il sole dilavato"). Dalla prima raccolta Blightrigh e smaréj ("Cose da poco e sciocchezze"), 1932, all’ultima Guajómm ("Guaìme"), 1965, Neri negli esiti migliori figura voce poetica autonoma distante tanto dal modello spallicciano quanto da quello guerriniano. Quando cioè con quella semplicità che è per lui la «dote precipua per ognuno che de l’arte abbia culto»[20], canta una Romagna pennellata della sua malinconia con toni vaghi e piacevoli da
madrigale cinquecentesco.

Mentre ancora Spallicci esercitava il patronato poetico celebrando la sua Romagna contadina fertile e vigorosa e sostenuto dai consensi del pubblico romagnolo, il santarcangiolese Tonino Guerra, tra il ’46 e il ’54, pubblica le sue prime raccolte di poesie: I scarabòcc ("Gli scarabocchi") nel ’46,   La    s-ciuptèda ("La schioppettata") nel ’50, Lunario nel ’54. Nel ’72, poi, queste raccolte confluiscono insieme agli Éultum vers ("Ultimi versi") nel volume dal titolo I bu ("I buoi"). Ma l’esperienza poetica di Guerra matura interamente estranea alla più tipica tradizione romagnola, la sua ispirazione poetica trova alimento, infatti, a distanza tanto dalla romagnolità sanguigna anarcoide e grassa di Guerrini, quanto da quella stereotipata e stilizzata negli idilli georgici di Spallicci. E alla lontananza poetica è da aggiungersi quella fisica nella fase d’esordio; egli infatti scrive: «le poesie io le ho cominciate a fare in Germania per operai che erano lì ad ascoltare» [AA. VV. 1976  : 136], durante la prigionia in un campo di concentramento, e poi ancora: «le dettavo, le poesie. Ecco perché prima adoperavo una rima, perché si dovevano imparare a memoria. Io le dicevo ai prigionieri romagnoli che erano là, non le scrivevo. C’era il dottor Strocchi che le scriveva, io le dicevo a memoria, anche ad operai e gente così, in momenti di grande tristezza, per cui era molto meglio poterle dire con la rima» [AA. VV. 1976: 65]. Nata in una delle più tragiche circostanze della nostra storia novecentesca, e salutata subito dall’avallo critico di Carlo Bo che cura la prefazione de I  scarabòcc , 1946, sottolineandone la «sicurezza del suo linguaggio» e la «straordinaria coscienza dei suoi mezzi» [Guerra 1946], la poesia di Guerra si presenta subito dotata di forza innovativa e di caratteri rivoluzionari. Al centro della sua attenzione è la realtà depressa del borgo di Santarcangelo, come specifica egli stesso nella premessa a La s-ciuptèda del ‘50[21]:

«ho osservato attentamente la Contrada, questo vecchio quartiere di Santarcangelo. La gente vive in case malmesse e umide. D’estate, molti vanno a lavorare nella fornace e altri cambiano la traversa lungo la linea ferroviaria. Immaginate questa povera gente che cammina per tutta la vita in mezzo a montagne di mattoni rossi costruiti con le loro mani, e che non potrà farsi una casa. E immaginate quelli che lavorano per lunghe ore sotto il sole a  picco e che ogni tanto si vedono passare sotto il naso treni carichi di gente coi berrettini bianchi che va al mare e ai monti e loro non viaggiano mai o hanno viaggiato una volta soltanto durante la loro vita.

Di domenica ho visto spesso dei giovani seduti sui sedili della piazza. Guardano passare le macchine.

Parlare di queste situazioni umane, di tutto quanto sta succedendo fra la gente: i loro colloqui, le loro lettere calde con le quali chiedono la maglia a righe e la sciarpa nera nel comò, il loro fare semplice, quotidiano, tutto questo è quanto m’interessa di più».

L’operazione poetica che Guerra compie quindi è la rappresentazione realistica della propria terra che ha perso però ogni colore convenzionalmente apologetico tipico della produzione dialettale media primonovecentesca. Gli ambienti ritratti sono quelli abitati dalla atavica miseria e dimenticati dalla storia, ma circoscritti in una geografia estremamente familiare[22], che in quegli stessi anni la cultura neorealistica si proponeva di scoprire. Ma l’atteggiamento di Guerra non è ascrivibile a quello di denuncia sociale e politica sotteso all’impegno letterario neorealistico. Quello di Guerra è un «realismo fra crepuscolare e populista, tipicamente romagnolo» [ Mengaldo 1978 : 845 ] che nasce nella commistione «tra disperato lirismo e disperato realismo» [ Pasolini 1952 : 105 ], cioè dallo sprofondare delle inquietudini dell’io nell’oggettivazione della realtà nei suoi minimi termini. Per mezzo di quella varietà del romagnolo parlata a Santarcangelo che detiene «qualcosa di barbarico e irsutamente inedito» [ Contini in Guerra 1972 : 7 ], e con un linguaggio “basico” [Contini in Guerra 1972 : 9 ] per elementarità e inopia, «intensamente sostantivato, oscuro per intensità non per evasività» [ Pasolini 1952 : 103 ], in cui predomina il lessico scabro ed essenziale e che rifugge invece dalle aggettivazioni, ad eccezione degli epiteti “povero” e “vecchio” usati con notevole frequenza e in ampia latitudine semantica[23], Guerra illumina lacerti ed angoli di quella apparentemente individuata Romagna che diviene «un luogo raso dall’angoscia, fatto anonimo» [ Pasolini 1952 : 104 ]. Ma nella raffigurazione di quegli ambienti, derelitti e diseredati, non vi è desolazione e sconforto; essi anzi sono il simbolo rassicurante di una vita felice lontana ma ancora possibile. «La Romagna risuonante della sua struggente musica dialettale è in primo luogo un rifugio dalle tempeste della storia» [ Brevini 1987 : 269 ] e la poesia diventa strumento di evasione fantastica. Mandando al macello “i bu” (i buoi) della convenzione georgica spallicciana, con la sostituzione cioè di un dramma personale e insieme sociale all’idillio paesano, Guerra offre «il paradigma dell’atteggiamento culturale del poeta neodialettale: rifiuto delle tradizioni locali e piena sincronia con le migliori esperienze letterarie contemporanee» [ Brevini 1990 : 72 ]. Ungaretti e Montale, infatti, costituiscono le coordinate all’interno delle quali la critica più autorevole ha collocato la prima fase dell’esperienza poetica dialettale di Guerra. Già Contini [Guerra 1972 : 11-13] aveva riconosciuto i debiti formali di Guerra verso la libertà prosodica ungarettiana sottolineando acutamente le dovute distanze tra le due elaborazioni procedenti in direzioni opposte. La presenza nei versi di Guerra di assonanze, assenze di rima, ipometrie, ipermetrie, asimmetrie strofiche, e il progressivo aumento delle irregolarità metriche in direzione del verso libero, sono «un accumulo di licenze poetiche, ossia ostacoli inevasi, che per finire porta l’autore all’accettazione della loro legittimità generale, e con ciò s’intenda la libertà così timbrica come ritmica, tanto da indurlo precisamente a spezzare "per l’occhio" versi regolari». E sono da riferirsi certamente anche «i debiti sempre di Guerra verso la fulmineità magico – metafisica di Montale» [ Brevini 1990 :72] nelle cui parole di autodochiarazione poetica «di partire sempre dal vero» e di «non sapere inventare nulla» [Montale ’46 in Mengaldo 1978 : 521] sembra risentire quelle di Guerra proferite nel ’73: «quelle poesie che io ho fatto, non le ho fatte da solo. Le hanno fatte tutti. […], perché io ho copiato, io ho sentito» [AA.VV. 1976 : 97]. Ma quando poi, continuando, aggiunge che «c’era una civiltà contadina che ancora viveva. Ora questa civiltà si è rotta» [AA.VV. 1976 : 97], spiegando così la ragione del suo silenzio poetico durato dal ’72 fino al 1981, anno di pubblicazione del poema E’ mél ("Il miele"), ci immette in pieno clima neodialettale. Sullo sfondo dell’accelerazione del miglioramento delle condizioni economiche e delle trasformazioni del tessuto socio – culturale seguiti alla ricostruzione postbellica, matura la stagione neodialettale, feconda di una pluralità di esperienze poetiche estremamente varie e pertanto non facili da sistematizzare e categorizzare. L’italiano diventato finalmente lingua d’uso si modella con duttilità in relazione ad ogni esigenza a livello diamesico, diastratico, diafasico e diatopico[24]. Quell’imponente trasformazione sociolinguistica che ha capovolto i termini dello storico rapporto lingua – dialetto, riscontrabile ancora in espansione nei decenni successivi agli anni ’60, nell’offrire ad ogni locutore italiano una gamma di possibilità espressive ben più ampia rispetto alle quattro individuate da Pellegrini nel ’59, sortisce i suoi effetti inevitabilmente anche in ambito letterario. La poesia, negli ultimi decenni, sciolta da ogni inibizione estetica, accoglie nel magma del suo serbatoio linguistico materiali dei più vari e letterariamente inediti. Proprio in virtù di quell’italofonia media, ormai diffusa uniformemente nel territorio italiano, che, se da una parte ha italianizzato i dialetti resistenti nell’uso, dall’altra ne ha sanzionato il regresso decisivo, l’approccio al dialetto come lingua della poesia è legato quanto mai prima alla particolarità di ciascuna esperienza biografica e all’esclusività individuale delle ragioni di una scelta. A prescindere dagli esiti artistici e dalle intenzioni intellettualistiche o semplicemente etiche e civili, questa poesia non nasce più in seno alle borghesie, non è più la voce ora lirica ora paternalistica delle classi sociali privilegiate e colte, storici beneficiari delle lettere e delle arti in genere; essa offre, invece, altre vie all’inestinguibile universo della letteratura. Di fronte agli spersonalizzanti, massificanti, omologanti processi di “globalizzazione” innescati dai sistemi di produzione e consumo della nostra civiltà postindustriale neotecnologica, che sta cancellando le realtà sociali marginali e periferiche con i loro particolari universi antropologici e culturali, il dialetto si offre come lingua fortemente caratterizzata. E’ carica degli spessori storici e antropologici di quel mondo in via di smantellamento di cui il poeta si erge a testimoniare l’esistenza anche solo linguisticamente; e, insieme, si piega alle urgenti valenze autobiografiche, e alle pressioni delle più soggettive inquietudini dell’uomo contemporaneo. Configurandosi come possibilità di identificazione solidale e nello stesso tempo di differenziazione individuale all’interno dei fagocitanti processi socioeconomici di massificazione, la poesia neodialettale rappresenta una risposta alla dialettica tra “globalismo” e “localismo” che pertiene tipicamente all’esperienza dell’uomo contemporaneo[25].

L’originalità della voce poetica di Tonino Guerra non rimane senza esiti nella provincia romagnola; la sua forza innovativa sortisce subito effetti sollecitando alla scrittura poetica dialettale una nutrita schiera di autori proprio nel decennio, dal ’72 all’ ’81, in cui pare assopita la sua Musa ispiratrice. Appartengono a questo periodo gli esordi compositivi di poeti quali Nino Pedretti, Tolmino Baldassari, Walter Galli, che, coagulatisi intorno a quella romagnolità “fra crepuscolare e populista” (Mengaldo) oscillante tra realismo e lirismo, tipicamente guerriana, si sono imposti all’interesse nazionale. Originario di Santarcangelo, periferia letteraria oltre che geografica, ma assurta in breve tempo a «nuova capitale della poesia regionale» [Brevini 1990 : 70], per il recente e imprevisto moltiplicarsi delle esperienze poetiche dialettali, Nino Pedretti pubblica la sua prima raccolta Al vòusi nel 1975, precedendo pertanto di un anno l’esordio

poetico di Raffaello Baldini, santarcangiolese anch’egli, avvenuto con la raccolta poetica E’ solitèri nel 1976. La prima raccolta di poesie romagnole di N. Pedretti (Santarcangelo 1923-1981) trova la sua ragione fondante in un’esigenza di realismo, dichiarata nella sua nota introduttiva Perché il dialetto. L’artista, come programmaticamente indica lo stesso titolo, dà voce a quello che ha veduto testimoniando «senza mezzi termini, senza figure allusive [] la miseria fisica e morale, l’ingiustizia, la sofferenza collettiva delle classi oppresse» [Pedretti 1975 : 11]. Nutrendo di “passato” la rabbiosa denuncia di una sofferenza sociale sempre attuale, Pedretti allinea «un coro di anonimi personaggi popolari» di cui «si propone come cassa di risonanza» [Brevini 1987 : 343]. Come per Baldassari in Al progni šerbi 1975, e Galli in La pazìnzia 1976, l’iniziale attività poetica di Pedretti si alimenta di ideologie populistiche e di attivo interessamento ai problemi sociali, ai «previlegi» e alle «soperchierie» [Pedretti 1975 : 12] che continuano a ripetersi in forme sempre nuove. Il dialetto, quindi, sentito ora come «lingua di sofferenza, di dolore e di rabbia», come «lingua brutale» [Pedretti 1975 : 12] usata da «zénta da gnént» ("gente da nulla", p.42), «zénta pursea» ("gente qualunque", p.66), la «lèngua di purétt» ("lingua dei poveri", p.204) o anche «dla serva» con quella «su faza bróta» (p.134), che provoca vergogna, diventa lo strumento espressivo necessario all’impegnata vocazione poetica di Pedretti. E la parola dialettale si fa caustica, bruciante, violenta sferzata di un’umanità umiliata e offesa nella sua più intima dignità. La scrittura poetica in Al vòusi si svolge prevalentemente in forme «moderatamente narrative» [Stussi in Pedretti 1975 : 10], già alternandosi però a quella tendenza alla concentrazione lirica e a quei toni elegiaci che segneranno la direzione verso cui si attua l’evoluzione della poesia di Pedretti attraverso le due successive raccolte: Te fugh de mi paèis del ’77, e La chèsa de témp dell’ ’81. Accentuando l’approfondimento della dimensione introspettiva, il ripiegamento lirico nei temi esistenziali, Pedretti perviene ai suoi risultati più originali con «una poesia capace di giungere alle essenze, confezionata in una materia dura e trasparente inattaccabile dal mutamento, alla quale la sonorità dialettale presti però la sua viva e struggente capacità evocativa» [Brevini 1987 : 342].


Capitolo IV

 

 

 

Con la pubblicazione dei versi in dialetto santarcangiolese ospitati nel volume E' solitèri [Baldini 1976], Raffaello Baldini compie nel 1976 il suo esordio poetico. Ad una fase compositiva che si potrebbe dire preistorica appartiene il libello in prosa italiana Autotem apparso nel '67 [Baldini 1967]. Esso consta di una serie di immaginarie lettere indirizzate a un direttore di giornale. In ciascuna di queste, attraverso invenzioni narrative giocose, i personaggi, comuni scriventi, raccontano iperbolici episodi di vita in cui si trovano coinvolti rincorrendo, tra l'assurdo e il fantastico, il simulacro d'onnipotenza: l'Automobile. Con le armi dell'ironia, leggere ma affilate, Baldini tratteggia una comica epopea della banalità della massificazione ideologica e culturale che si vivifica nel mito dell'Automobile come simbolo «di un ordinato progresso, della pace sociale, del benessere nella libertà» [Baldini 1967 : 32]. E pertanto ciò che distingue lo stato di civiltà di un paese è la facilità a compiere «quella difficile e delicata operazione» [Baldini 1967 : 10] che è l'acquisto di un'automobile, o anche la costruzione di autostrade dovunque; mentre «i cimiteri delle macchine» sono sentiti dai giovani che hanno «lati romantici» come «la nuova natura»: un paesaggio malinconico, ma non stereotipato come foreste e laghi [Baldini 1967 : 66]. Con una abnorme presenza pervasiva l'automobile è causa di crisi coniugali, stati di preoccupante ipocondria, umiliazioni dolorose, violenza, devozione religiosa; per lei l'umanità si cimenta con tenacia e risolutezza in prodezze quali l'incisione del testo integrale del codice della strada su una sola faccia di una moneta da 50 lire, o la costruzione di un'automobile in grandezza doppia di quella naturale con la semplice mollica di pane [Baldini 1967 : 34]. Con agilità stilistica, la scrittura di Baldini si adegua alla varietà delle penne di ciascun personaggio narrante, informandosi su quella pluralità di registri linguistici tipici della situazione italiana. Insieme a un effetto di oggettività, produce esiti di comicità caricaturale nel sottolineare linguisticamente le connotazioni socioculturali. E così l'ordinaria e affaccendata umanità di questo primo Baldini si agita ruotando intorno ad un centro gravitazionale tanto concreto quanto inane e insensato, oltre il quale si comincia ad intravedere un dominante senso di vacuità.

Tra comico e grottesco, antintellettualismo e oggettività, si delinea, sia pur vagamente, il profilo di una personalità destinata ad esordire alcuni anni dopo come poeta già maturo, definendo subito «in modo quasi perfetto il suo mondo e toccando un livello molto alto» [Mengaldo 1995]. Dopo la pubblicazione per Galeati di Imola, "a spese dell'autore", nel 1976, la prima raccolta di versi nel dialetto romagnolo di Santarcangelo, E' solitèri, confluisce nell' '82 insieme ad una seconda raccolta La nàiva nel volume dell'Einaudi che ne porta il titolo.

Impostosi subito per la sua originalità, Baldini è accolto favorevolmente nel panorama letterario italiano, suscitando interventi critici da parte di autorevoli nomi quali, per citarne solo i maggiori, Isella, Brevini, Mengaldo, per essere arrivato «a realizzarsi a colpo sicuro in modi suoi propri, affatto autonomi» [Isella 1982]. Pur condividendo il paese nativo con altri due poeti dialettali di poco più anziani, T.Guerra e N.Pedretti, egli si distingue fin dal suo primo apparire pubblico per la sua eccentricità. Niente dell'impegno ideologico del primo Pedretti, e del lirismo elegiaco del Pedretti successivo, di La chèsa de témp, contrassegna la poesia di Baldini, sebbene nasca cronologicamente a ridosso della stagione dell'impegno sociale e del realismo sentimentale di cui fu investita la poesia dialettale romagnola ad opera di autori quali il Baldassari di Al progni sérbi [1975], Galli di La pazìnzia ([1976] che raccoglie testi scritti a cominciare dal '51), oltre che Pedretti di Al vòusi [1975]. E un'insolita corrispondenza tematica riscontrabile tra E' gat, la quarta poesia di E' solitèri, e E fore e' boffa ("E fuori nevica fitto"), dalla serie Du rogg in piazza ("Due urli in piazza", 1951-1959) di La pazìnzia di Galli [Galli 1976], può illustrare a quali distanze cominci a muoversi Baldini rispetto ai modi più caratteristici di quel realismo populistico tipicamente romagnolo. Il protagonista di entrambe è un gatto a cui è riservata una sorte certamente non gradita: imbandire la tavola per un pasto. Ma il gatto di Galli è l'oggetto pretestuoso di una descrizione dell'iniquità delle gerarchie sociali ed economiche: in casa della Contessa è un elegante arredo nutrito a «sóppinglesa e pól aléss» ("crema e pollo lesso", p.42), ma finito «in ca' 'd Furmiga» ("in casa di Furmiga"), ben cotto ha per una volta rallegrato stomaci provati dall'inestinguibile fame della miseria. Niente è più lontano di una denuncia sociale nei versi di Baldini; infatti, «forse unico fra i romagnoli, egli non ha mai scritto un verso "impegnato"» [Brevini 1987 : 363]. Il gatto è uno dei tanti personaggi "soli" che si avvicendano nella raccolta E' solitèri: dimenticato prima, poi abbandonato, infine è raccolto ma per essere cucinato da Rigo'd Farell.

Risalendo il corso del secolo, non si può non incontrare il capostipite dei santarcangiolesi, Tonino Guerra, al quale come s'è visto, si attribuisce unanimemente il merito di aver rinnovato con moduli dei più moderni la tradizione romagnola che pareva arenatasi al modello spallicciano di quel naturalismo georgico e sentimentale. E quella svolta impressa con risolutezza dalla personalità guerriana alla poesia dialettale ha «liberato energie che hanno preso strade autonome» [Brevini 1982], condizionando, dunque, in modo vario gli esiti della successiva poesia. Che anche Baldini sia debitore delle innovazioni apportate dall'esperienza guerriana è un dato ormai accettato concordemente; ma, emblematiche della particolarità dei rapporti che intesse con la tradizione novecentesca aggiornata da Guerra, sono le due poesie collocate, evidentemente non a caso, ad apertura della raccolta E' solitèri. I cavéll e La circunvalaziòun appaiono analogamente caratterizzate nella corrispondenza contenutistica e nella disposizione argomentativa: la bipartizione testuale segnata dalla congiunzione coordinante avversativa "ma", e nel secondo caso anche dalla separazione in due lasse, distingue nello svolgimento, consequenzialmente logico, due momenti paradigmaticamente contrapposti. Nel primo si attua il recupero della tradizione che il secondo svuota rinnovandola. In I cavéll Baldini ripropone quel collaudato ingrediente della convenzione vernacolare: il ritratto del tipo bizzarro paesano, cioè del "matto". Particolarmente presente nella letteratura emiliano - romagnola, come ha già rilevato Brevini [Brevini 1996], dal Pulon matt ai personaggi di Zavattini, da Giulio Cesare Croce al Fellini di Amarcord, ai lunatici di Ermanno Cavazzoni, lo stereotipo dialettale comico del "matt" aveva già subito una modernizzazione da parte di Guerra (si veda in particolare Sivio e' matt in I scarabócc, 1946) «grazie all'adozione di una tecnica figurativa scorciata, cresciuta alla scuola dei moderni (da Blok a Esenin a García Lorca, oltre ai lirici nuovi)» [Brevini 1990 : 72]. Ma Baldini ci pone, invece, di fronte a un personaggio "mat" che è tale in quanto esplicitamente così è qualificato («Mat, l'è sémpra stè mat»); l'argomentazione minimale non aggiunge alcuna connotazione a conferma dell'asserzione iniziale. Anzi, nonostante la concisione, Baldini schiude al lettore un fulminante quanto insolito dramma umano dopo aver reciso il legame di contatto con la tradizione. Il personaggio del matto è svuotato del suo significato topico e restituito come uomo al mondo, alle sue angosce, alle sue sofferenze, alle sue rivolte. A seguito di un'incipiente calvizie, fenomeno dei più ordinari e comuni, egli si risolve a compiere un atto di protesta: l'isolamento, negando il saluto a chiunque incontri. Così afferma la  propria esistenza nella libertà di una scelta che ha il senso di una ribellione, sia pur vana, per un'ingiustizia subita, per un umiliante oltraggio immeritato. E forse spera, fingendo di non vedere, di non essere visto. Insomma Baldini «raffigura la malattia dell'uomo contemporaneo» [Brevini 1987 : 363] aprendo la poesia dialettale all'"esperienza psicologica" e all'indagine penetrante e acuta nelle più recondite pieghe dell'interiorità umana. E allora l'epiteto "mat", avendo assunto una valenza polisemica e una fisionomia idiomatica, formale oltre che semantica (è inserito, con una forma «affermativa e prolettica» [Stussi 1993 : 205], in una costruzione sintattica tipica del parlato), diventa piuttosto indice dell'attenzione linguistica e stilistica del poeta rivolta al "parlato", secondo una direzione prettamente antiretorica. A conferma di ciò è da considerarsi l'occorenza dello stesso termine in contesti inequivocabili come per esempio «a i ví fè dvantè mat» in Cut, «T si dvént mat?» in La cumédia, «mè a so un pó mata» in E' sbai.

In La circunvalaziòun la prima lassa è pervasa interamente di quei toni crepuscolari tipici della «Romagna diseredata, di povera gente dalle passioni represse e mortificate» [Pasolini 1952 : CIV] di cui si era rivestita l'ispirazione guerriana e che, insieme ad un certo populismo, hanno percorso con particolare frequenza la poesia dialettale romagnola. Infatti la descrizione dell'ambiente abitativo del personaggio, non una fanciulla incantevole bensì una signora «tropa vècia», indugia nei caratteri tipici: lo scuro, l'umidità, gli scarafaggi. Ma, dopo questo provvisorio allineamento ai modi tradizionali, è nella seconda lassa che si approfondisce il senso dell'adempimento di un desiderio che tuttavia riesce a sfamare la voglia di vita di un «brandello di esistenza» [Baldini in Mattei 1988]. In un progressivo crescendo espressivo è la storia di una solitudine, aggravata dalla vecchiaia, che trova nell'affacciarsi al balcone «ch'la dà própia sla circunvalaziòun» ("che dà proprio sulla circonvallazione") per potere guardare immobile «ch'e' pasa e' mònd» la possibilità, altrimenti negata, di mantenere, sia pure da esclusa, un rapporto col mondo e così di sentirsi trascinata «finalmente verso la concordia umana»[26]. Ella, in condizione di reclusa e come chiunque «vive abbandonato» o voglia «veder comunque un qualsiasi braccio, a cui potersi attaccare - non potrà far a meno, per molto tempo, di una finestrina»[27] aperta alla vita del mondo.

L'esclusione dei quattro componimenti, Marsala, I dutèur, Ma la pòsta, E' magòun, da E' solitèri nel passaggio dalla prima edizione (Galeati, 1976) alla seconda (Einaudi, 1982), i testi cioè «più sospetti di concessioni al brillante epigrammismo della tradizione romagnola» [Brevini 1982], è da vedersi proprio nell'ottica di questi rapporti baldiniani di consapevole e deformante distanza dal Novecento romagnolo. Anche formalmente Baldini muove alla larga dalle "illuminazioni" liriche (Contini) del Guerra della prima stagione; egli infatti predilige gli svolgimenti lunghi e narrativi in un'accezione però estremamente personale.

Piuttosto, al fine di recuperare una più coerente filiazione

storica per Baldini, come ha già rilevato Brevini, occorre risalire al "patriarca" Olindo Guerrini. E' subito necessario precisare, però, che «Baldini pone all'interprete del secondo Novecento problemi analoghi a quelli posti per il primo Novecento dal Tessa» [Brevini 1990 : 155]. Egli infatti si trova in relazione col Guerrini come Tessa fu col Porta. Saltando apparentemente tutto quello che di più tipico il tempo intercorso tra le due esperienze aveva prodotto, Tessa si ricollegava al precedente letterario con un'equivoca  operazione inattuale, così come Baldini sembra eludere le esperienze più tipicamente novecentesche per ricondurre la poesia dialettale al realismo ottocentesco del Guerrini. Ma, oltre la patina ambiguamente anacronistica, la sensibilità baldiniana sprigiona un'energia di eccezionale modernità, come accadde per il caso - Tessa , risultando «uno dei tre o quattro poeti più importanti d'Italia» [Mengaldo 1995 : IX].

Baldini recupera nella sua poesia quella "dialettalità" che il Novecento più originale e innovativo, nelle esperienze migliori (Tessa a parte), aveva liquidato per lasciare spazio alla parola "in dialetto" scavata in tutta la sua valenza più evocativa, fonica e semantica. In Baldini infatti si incontrano tutti i più tipici ingredienti della convenzione dialettale realistica: «il tipo bizzarro, la scenetta provinciale, il colore locale, l'aneddotica paesana, la comicità e l'oralità, con la sua sintassi irregolare» [Brevini 1990 : 155]. Ma, in una situazione sociolinguistica come quella attuale, in cui cioè il dialetto come lingua d'uso è in vistoso e, pare, irreversibile smantellamento di fronte all'avanzata pervasiva dell'italiano, egli asserisce che «forse è giusto che i versi "in dialetto" siano anche "dialettali"» [Mattei 1988], riproponendo la celebre distinzione di Pancrazi [in Brevini 1990 : 211]. La scelta del dialetto, quindi, in Baldini non è al negativo; per esclusione, cioè, dell'italiano considerato letterariamente insufficiente o saturo. Invece, come in Italia succedono ancora cose in dialetto che non possono tradursi se non subendo una sostanziale deformazione, così Baldini scrive in dialetto. Con un'inclinazione antinovecentista, egli utilizza, inoltre, tutti i registri linguistici e materiali bassissimi.

Nell'aggirare il pericolo novecentesco di cedere a una manierata arcadia dialettale o alla retorica del biografismo ermetico, Baldini, in risposta a una esigenza personale oltre che estetica, restituisce il dialetto della poesia alla sua «vita», a «cose, gente, personaggi» suoi propri, insomma ai suoi referenti antropologici veri. Così evita consapevolmente di ridurre il dialetto «a una buccia» [in Mattei 1988], a un involucro posticcio, a vuota forma, recuperandolo alla sua verità. Ma quella "verità" che Guerrini si proponeva di fotografare ritraendola, con una semplice operazione realistica, nel suo linguaggio effettivo, cioè quella «lengua nostra d'nò» con cui «e' popol d'e' mí temp» [Guerrini 1920 : 6] pensava e discorreva, sta storicamente scomparendo; e con lei la sua lingua. Al di là di ogni procedimento astrattivo di cui è stato investito il linguaggio poetico nel corso del nostro secolo, indagato nel suo statuto ontologico e sperimentato nelle sue svariate possibilità, Baldini attinge al dialetto, e al mondo dialettale, non per ragioni di mimesi realistica di quella parte di società esclusa dalla storia ufficiale, né per "gioco edonistico" [Baldacci in Mengaldo 1978] o esercizio stilistico, bensì perché esso è da lui sentito in grado di attuare soggettivamente «l'utopia di una perfetta semiosi e di una comunicazione universale» [Brevini 1990 : 103]. Pertanto il significato di quella "verità" si estende al vivere dell'uomo contemporaneo in tutta la sua più attuale problematicità, a prescindere dalla sua identificazione geografica e socioculturale. Nell'assurda avventura della vita, l'uso poetico della «parola dimenticata» [Baldini 1988], del sistema linguistico interiorizzato, riesce a dare a Baldini l'illusione di ristabilire le relazioni dell'uomo, del soggetto, col mondo degli uomini e col mondo delle cose: vincendo il senso di incomunicabilità e di solitudine, lo scrivere in dialetto risveglia «la sensazione che ti capiscano tutti. Cioè tutti quelli del tuo paese» e risulta un modo «per tentare la conoscenza di ciò che ci circonda» [Baldini 1988].

L'ambiguità e l'eccezionalità che caratterizzano l'urgenza in Baldini della scelta del dialetto di Santarcangelo, contrassegnano anche il recupero del tópoV del personaggio monologante. Il modello epigrammatico della galleria di personaggi evocati sulla pagina a narrare di sé o delle proprie vicende, che Baldini eredita direttamente dai Sonetti romagnoli di Guerrini, è diffusissimo in genere nella tradizione dialettale realistica. Aggiornato "al clima novecentesco" con l'Antologia di Spoon River e l'Antologia Palatina, come nel caso di Galli [Brevini 1990 : 337;147], risulta però in declino con la "svolta novecentesca" per il carattere sostanziale di oggettività il cui utilizzo comporta. La scrittura di Baldini invece trova il suo spontaneo svolgimento dando corpo ad una serie di personaggi monologanti; essi però non possiedono più quella forte caratterizzazione di romagnolità, alla "Pulinèra" o "Tugnàzz", così come il sonetto guerriniano è disteso nelle più ampie misure del poemetto. Come l'ospite di Te spèc, il poeta si pone quale spettatore discretissimo dietro la «fiséura» della porta ad osservare l'umanità fissata nei minimi gesti, nelle parole più comuni, nei pensieri più invadenti, riportandone un'immagine di precisa obiettività come fosse il riflesso di uno «spèc». Ma l'occhio di uno spettatore della sensibilità poetica di Baldini, non può che aggiungere all'evidenza delle immagini speculari del mondo osservato uno spessore di eccezionale profondità; la presenza dell'io poetico, negata dallo statuto della prediletta forma del monologo del personaggio, riconquista il suo spazio in un modo del tutto inedito. Con estremo "pudore" la sua soggettività si insinua silenziosamente in quella terza dimensione che è il suo sguardo stesso a creare oltre l'apparenza della figura specchiata. Così senza alcuna ostentazione intellettualistica, Baldini riveste di «inquietante modernità» il consumato tópoV della tradizione dialettale rinvigorendolo con una sconosciuta «valenza proiettiva» [Brevini 1990 : 336].

Tutto nei componimenti di Baldini concorre ad ottenere un risultato di «dura oggettività» [Brevini 1982]; il modo evidentemente più congeniale per lui di tradurre in poesia la realtà umana più vera e più autentica. Le voci dei personaggi ospitati nei testi di E' solitèri si sviluppano frequentemente attraverso procedimenti, variabili in estensione e in caratteristiche interne, di aggiunzione,[28] soffermandosi a descrivere ogni cosa minuziosamente. Facendo ampio uso delle risorse delle tecniche retoriche di ipotiposi, le parole si traducono in immagini di nitida esattezza: i discorsi si avvolgono nei gesti più insignificanti, nelle abitudini di un vissuto comunissimo, negli oggetti di uso ordinario, con meticolosità e con dovizia di particolari da elencazione. Infatti, ben lungi dal costruire Miti con la parola poetica, Baldini fissa proprio nel quotidiano i suoi personaggi cogliendone l'umanità più autentica nelle difficoltà del vivere, nelle paure, nelle

ossessioni, nella solitudine, nell'insicurezza; insomma ritrae un'umanità vera in cui tutti, in modi diversi, riusciamo a riconoscerci. Il microcosmo delle poesie è ben definito anche topograficamente: Santarcangelo e dintorni, con precisione toponomastica, formano le coordinate geografiche entro cui si consumano le esperienze umane. Eppure quegli «spazi familiari e rassicuranti» [Brevini 1990 : 154] sono molto più che i luoghi della "dialettalità"; essi diventano metafora esistenziale, condensazione esemplare e pregnante di un mondo più vasto in cui si è ineluttabilmente insinuata «una devastante impossibilità di certezze» [Brevini 1990 :154]. Si veda emblematicamente La chéursa in cui i luoghi costituiscono le tappe di un percorso labirintico tra angoscia e onirismo. In un'atmosfera di sapore kafkiano (in particolare si consideri il racconto I passanti) il protagonista, in fuga perché inseguito, attraversa uno spazio santarcangiolese definito con esattezza da mappa topografica[29]: tanto preciso e familiare quanto chiuso e opprimente. Ma all'improvviso, come in un incubo, le parti si confondono senza spiegabili ragioni, lasciando, al risveglio, solo un senso di impotenza di fronte all'assurdo e di paura dell'irrazionale che ci sovrasta. Oppure si pensi a E' temporèl, testo di tutt'altra atmosfera, in cui l'avvicinarsi minaccioso


dei «ruchéun / culòur dla zèndra» ("cumuli / color cenere") è descritto nel loro sorvolare i dintorni di Santarcangelo fino ad arrivare sul paese, provocando tutt'intorno un gran parapiglia. Ma il pericolo del temporale è presto sventato e risolto in un unico schioppo e qualche goccia d'acqua, mentre la cavalla, la «cavàla'd Fin de Plèd», impaurita continua a correre fino allo stremo delle sue forze arrivando come impazzita fino a  «San Martéin» ("San Martino"). Insomma quasi che l'inconoscibile, qui le forze della natura, circoscritto in uno spazio finito, in un orizzonte conosciuto e delimitato, possa apparire più afferrabile o essere abbracciato dalle facoltà raziocinanti.

Non contraddice la propensione antilirica in Baldini anche la scelta di versificare realizzando una scrittura che sia mimesi del parlato, «un parlato appena al di sopra del continuum della prosa» [Isella 1982 : VI], e quindi informale, abbondante in ridondanze grammaticali, frasi nominali, pleonasmi, anacoluti, ellissi, inserzioni di situazioni dialogiche che tradizionalmente aggiungono efficacia realistica. Inoltre la predilezione per il periodare paratattico, che rinuncia a gerarchizzare le parti del discorso evitando di stabilire relazioni precise tra le componenti, conferisce alla penna di Baldini un'ulteriore opzione di imparzialità. Come in 1938, uno dei capolavori unanimemente riconosciuti di E' solitèri, il poeta con un'elencazione in sequenza paratattica dei pochi movimenti, brevi e giustapposti, con cui si compie niente più che un'abitudine pomeridiana, riesce, quasi per incanto, a condensare la gravità di una solitudine fatta di assenza, l'enormità di un vissuto in un'ellissi diegetica di dimensioni imprecisate.

Rinunciando a espedienti quali la rima («affatto casuali, le scarse occorrenze non sono che la conferma di una precisa volontà di sfuggirla») [Isella 1982 : VI], strutture strofiche regolari, inversioni e iperbati e «ogni altro abbellimento del verso» [Isella 1982 : VI], Baldini ottiene una scrittura che, aperta alla dimensione prosastico-narrativa e al "basso" discorsivo, come già da alcuni anni (gli anni Sessanta - Settanta) si era verificato in una rilevante parte della produzione poetica italiana, raggiunge un'espressività di insolita efficacia. E in ciascun testo di E' solitèri, tra l'esordio e la chiusa, si costipano frammenti di realtà di cui tutto sembra insignificante e indifferente, ma, al contrario, di fronte all'indeducibilità del senso della vita e all'incertezza del vivere, tutto diventa essenziale a conferma di un'esistenza. La precisione, con cui tutto in Baldini è descritto, oltrepassa i confini del tradizionale realismo, affondando le radici piuttosto in una concezione filosofica di matrice esistenzialista[30]. Con un impegno che Brevini ha definito «iperrealistico» [Brevini 1990 : 335], gli oggetti che affollano le poesie «arredano un vuoto interiore» [Baldini in Mascarucci (a cura di) 1995]. Alla ragione è affidato l'ultimo tentativo di svelare il senso delle cose, di far luce su di esso. Ma l'unico esito possibile di una tale operazione è il reiterato fallimento. Quel fallimento degli «strumenti della ragione di fronte al rivelarsi di quello "schéur" ("oscuro")»[Brevini 1987 : 364], sintomatica parola - chiave della raccolta, in cui Brevini ha riconosciuto «il tema più pressante di E' solitèri »[Brevini 1987 : 364]. Il senso delle cose, indeducibile, «si disfa nel disagio esistenziale» [Baldini in Mascarucci (a cura di) 1995], in quel poter - essere in cui consiste l'esistere, fatto pertanto di incertezze, problematicità, slanci sempre inibiti verso la libertà, o verso il nulla. Tra le varie storie passate in rassegna, infatti, in La sparzéina, tentando di riempire il vuoto della sua vita, il personaggio si prodiga affannosamente in un lavoro che gli si rivela assolutamente inutile. Mentre in La cumédia il personaggio è stretto nella paura di non riuscire a sostenere la sua parte nella rappresentazione teatrale, metafora della vita di cui ciascuno per sé ha il difficile ruolo di attore protagonista. Sono immersi nella solitudine di giorni sempre uguali il personaggio di Cuntantès, che, ottimista a oltranza nel fare il resoconto delle sue disgrazie, afferma: «E la sàira quant ch'a i so mè a i sémm tótt» ("E la sera quando ci sono io ci siamo tutti"); e «e' sgnòr Leo» ("il signor Leo") di L'ucèda che, non più giovane, va quasi tutti i giorni a trovare Velio Betti in bottega, «par stè un pó in cumpagnéa» ("per stare un po’ in compagnia").

Anche i testi di Cut e di I nóttal comprendono storie di ordinaria e diffusa solitudine, ora con «esiti che inclinano però verso il grottesco, piuttosto che verso il drammatico» [Brevini 1987 : 364]. La simulazione del gioco in Cut dissimula la verità di emarginato del personaggio. Egli si nasconde per essere cercato, per attirare su di sé le attenzioni altrui. Ma l'attesa fiduciosa è destinata a consumarsi invano; le ore trascorrono nella completa indifferenza esterna. Nel capovolgimento cioè della situazione del personaggio pirandelliano agorafobico, prigioniero dello "sguardo" che trasforma il soggetto in oggetto, il personaggio di Baldini vive la frustrazione del suo bisogno di relazionarsi col mondo degli uomini. In I nóttal saranno gli impressionanti pipistrelli, «un pó nir, pu s' cagli èli cmè un'umbrèla» ("un po’ neri, poi con quelle ali come un ombrello"), che, entrati nella camera da letto «tra i méur, / forse i s sint cmè intraplèd, / i sta pézz che né mè» ("fra i muri, / forse si sentono come intrappolati, / stanno peggio di me"), offriranno al personaggio l'illusoria ma desiderata occasione per instaurare un rapporto di solidarietà e di reciproca comunicazione. Ma «quèll ch'u i vó 'dès / l'è snò da truvè e' módi ad fès capéi» ("quello che ci vuole adesso / è solo trovare il modo di farsi capire"); e nel dubbio di riuscire nell'impresa, «Se dabón qualchedéun u m'arspundéss?» ("Se davvero qualcuno mi rispondesse?"), alimenta la sua speranza.

Nella stessa dimensione è trattato l'universale tema dell'amore: aspirazione a volare oltre il finito, «sogno di libertà» [Baldini in Mascarucci (a cura di) 1995] che irrimediabilmente svanisce ad opera della ragione nella realtà, nella quotidianità, nell'ordine della normalità. In E' sbai è la felicità sfiorata e per sempre perduta per un mancato atto di coraggio. Il personaggio, sposando Isolina avrebbe dovuto sfidare la norma prescritta dalla morale borghese. Invece ha preferito uniformarsi all'ordine sociale precostituito e autocondannarsi alla monotonia e all'insoddisfazione: «Mè a magn, a so dvént lòvv, / a m so ingrasè, / e a stagh sémpra disdài dri de bancòun.» ("Io mangio, sono diventato goloso, / mi sono ingrassato, / e sto sempre seduto dietro il bancone."). Oppure è il ricordo di un amore di gioventù, morto col tempo ma rivissuto in sogno. Al protagonista di La pinàida però l'avaro presente nega il compimento della felicità perfino se sognata. Anche quando, in La su mà, è un'esperienza che, passata, occupa uno spazio sereno della memoria, l'amore non sfugge alla minaccia del «fura dla pórta», del «dop», pronta ad adombrare le gioie fugaci. Nemmeno se afferrato, conquistato nella realtà del presente, è libero di spiccare il volo. In La mòi il senso di colpa per il tradimento inflitto alla moglie Olga e alle due bambine, e il peso di un passato che «ormai l'è trop tèrd» ("ormai è troppo tardi") da modificare, gli tarpano le ali.

In rarissimi ma intensi attimi, poi, quel vocio umano riesce a dissolversi nella quiete dell'idillio che in Baldini costituisce «l'altro polo della sua opera» [Brevini 1990 : 336]. Sono pause brevi di tacito stupore che seguono ma, insieme, precedono la tempesta del vivere. In E' bagn ad nòta, in cui i giovani spettatori disorientati «assistono alla partenza della Daria, vera e propria fanciulla kierkaardiana, che salpa verso il compimento come l'Esterina di Montale» [Brevini 1982], il silenzio lunare cala nei versi centrali:

«Al biciclètti agli è sguilé tla sabia

  si pedèl pr'aria,

l'acqua la era granda,

lócida e nira cmè ch'e' fóss catràm,

agli ondi al s'arugléva

pièn, t'un susórr,

e al s'arivéva tévdi fina i pi.» [31]

Anche negli ultimi versi di L'asoluziòun si assopiscono gli affanni del vivere. Solo dopo la confessione, all'uscita dallo «schéur» ("buio") della sacrestia, il mondo si rivela nelle sembianze dei Campi Elisi:


giardino meraviglioso sospeso, come per effetto di un incantesimo naturale, nella luminosità profumata di «tigli», inganno dei sensi breve a durare:

«E se l'era d'instèda,

u s'avdéva te schéur dla sagrestéa

un raz ad sòul sla pòrbia ch'la baléva,

e quant t scapévi 'd fura

u t tuchéva céud i ócc,

e t'andévi tla Bósca

sl'udòur di tigli

o sla Méura ch'l'avnéva da maréina

un pó 'd bura tla faza,

e u t'arivéva da 'd sòtta, cmè un arlózz,

al bòti 'd quéi ch'i zughéva a tamburèl

e da 'd sòura,

datònda e' curnisòun dla Colegèta,

i sgréss dal ròndi.»[32]

Il registro comico, peculiare della letteratura dialettale fin dalle origini, è presente nella poesia di Baldini soprattutto in quanto dimensione della vita che, rispetto al tragico, suo opposto e complementare, riveste di un intelligente abito di tollerabilità il quotidiano in tutti i suoi aspetti. E, nonostante tutto, i personaggi di E' solitèri sul palcoscenico della vita hanno rappresentato la commedia dell'ottimismo. Se si eccettuano pochi casi, come quello del suicida di Tla butàiga spinto all'estremo atto da noia disperata, a guidarli è infatti sempre la forza della persuasione che ogni cosa vada comunque per il meglio e che «l'è mèi réid ca né pianz» ("è meglio ridere che piangere", China) [Baldini 1982 : 125]. Come da copione, a conlusione della «gran cumédia», Baldini sorprende il lettore scoprendogli l'arguta astuzia sottesa all'utilizzo del termine «solitèri» nella sua potenzialità polisemica. Mai nominata se non alla fine della raccolta, la parola-titolo ha però connotato l'area di significazione di un buon numero di testi. Alludendo cioè a quelli che ospitano, come s'è visto, personaggi "soli". Solo nell'ultimo testo, però, Baldini usa il significante "solitèri", attribuendogli, quasi a beffa, un significato completamente diverso dalle aspettative. Il personaggio è intento al suo gioco a carte con cui passa «e' dopmezdè da piò 'd dis an» ("il pomeriggio da più di dieci anni"): «e' solitèri» ("il solitario"). Ma l'esordio da epigramma gnomico[33]: «U n s finéss mai d'imparè» ("Non si finisce mai d'imparare"), prelude alle difficoltà con cui si presenta sempre il gioco, anche al più provato giocatore. Non nel segnare punti, ma nel governare le carte risiede la vera difficoltà di un gioco che però è destinato alla sicura sconfitta: «sté solitèri / u n mu n vén mai, e avrébb avdài ch'l'avnéss, / i m dà un maz ch' u i amènca e' si 'd bastòun.» ("questo solitario / non mi viene mai, e vorrei vedere che venisse, / mi danno un mazzo che ci manca il sei di bastoni."). Ma l'irriducibile giocatore di Baldini non desiste dal tentare il suo gioco pur potendone prevedere l'esito. L'importante nella vita è partecipare, come si trattasse di un gioco che però sfugge al controllo ultimo e decisivo da parte del soggetto protagonista.

Già in E' solitèri Baldini definisce il suo modo più tipico di versificare, mostrando di prediligere gli svolgimenti di «situazioni narrative» [Isella 1982 : VI] nella misura del poemetto. Non mancano però le eccezioni che, tuttavia, subito confermano la caratteristica scelta di organizzare la scrittura poetica come mimesi di una voce nell'atto di parlare. La lirica breve, infatti, è presente in E' solitèri, sebbene in numero esiguo. Già ampiamente usata e variamente sperimentata nella poesia dialettale, a seguito dell'impulso innovativo ricevuto da parte di Guerra, la lirica breve, però, in Baldini non contraddice quella tendenza alla narrazione che in lui è pressoché costante. I cavéll, E' gat, 1938, L'invéran «anziché flashes di condensata liricità, sono piuttosto nuclei elementari di narrazione, racconti ridotti all'osso» [Isella 1982 : VI]. Sintetizzato nella brevità ellittica di pochi versi, un tratto del microcosmo umano oggettivato da Baldini, e carico di valenza emblematica, è concentrato anche in ciascuno di questi testi. E' la deserta solitudine in 1938, la crudeltà di un abbandono da cui dipende una sorte ancora peggiore in E' gat, l'atto di un'irragionevole rivolta contro il mondo in I cavéll. E, infine, in L'invéran l'impossibilità di trovare «la pirètta dla luce» ("la piretta della luce") con cui dissolvere la «nòta» ("notte") delle dieci e mezzo di una mattina d'inverno, che ha il senso di una fragilità umana sconfitta e rassegnata a non nutrire più alcuna speranza.

La soluzione formale più frequente in E' solitèri è quella del monologo «più distesamente illustrativo» [Brevini 1987 : 364]. In questo tipo di testi (La circunvalaziòun, E' sbai, Cuntantès, E' temporèl, La pinàida, La su mà, Te spèc, La mòi, Gnént, E' bagn ad nòta, Tla butàiga, L'ucèda, E' testamént, Spulicréd, L'asoluziòun) la voce del personaggio è fissata nell'atto di esporre, in prima o più raramente in terza persona, un miniracconto come in presenza di un ascoltatore. Infatti il dominante procedimento paratattico talvolta si alterna a subordinazioni sintattiche semplici e di frequente anacolutiche (come già riferito, in Baldini le irregolarità sintattiche, gli anacoluti, costituiscono uno dei segni stilisticamente più marcati dell'uso letterario di registro informale per ottenere una più fedele mimesi dell'oralità). Le accumulazioni sono per lo più vere e proprie elencazioni descrittive che si svolgono attraverso una ordinata struttura «a catena» [Mengaldo 1995 : XV]. Il testo più esemplificativo di questo procedimento di costruzione testuale può considerarsi E' testamént, in cui una vera e propria lista occupa la parte centrale.

Compreso tra l'esordio e l'epilogo, il discorso segue un itinerario che non rinuncia a sindesi, a punti non troppo distanziati, e a spazi bianchi tra lasse, cioè a espedienti che conferiscono una certa distensione ai tempi diegetici. Nell'organizzazione testuale, Baldini sfrutta abilmente ogni elemento nella sua essenzialità, sia semantica che strutturale. E' infatti il "senso" della storia, da questo punto di vista vettore più che risultato, che imprime la direzione al discorso. In ciascun testo, infatti, l'ordine risulta necessario, e l'efficacia espressiva è raggiunta senza esitazioni né cedimenti. Particolare attenzione quindi è rivolta ai luoghi deputati a contenere le storie. Nell'esordio la voce afferma se stessa proponendo la sua ragione, come per imporsi all'ascolto dell'"altro" dopo rotto il silenzio. Alla chiusa è affidata la conferma conclusiva nello svelamento della verità più profonda insita nella storia.

Quando poi la voce del personaggio non si distende a illustrare la propria storia, ma si avvita su se stessa perdendosi negli «arruffati meandri dell'angoscia, dei dubbi» [Isella 1982 : X], allora il monologo assume nella poesia di Baldini una fisionomia più densa di conseguenze. La prevalenza dei procedimenti accumulativi per asindeto, e le più rare pause nei punti e nelle separazioni tra lasse del periodare paratattico, modellano la narrazione su ritmi ben più concitati. In questi casi (Cut, I nóttal, La sparzéina, E' solitèri) la voce non è fissata più nel momento comunicativo del raccontare, bensì nel suo agire dentro il silenzio. Diventa voce di soliloquio che invade con la sua presenza fisica lo spazio circostante riempiendo, acusticamente, il vuoto della solitudine. Agli incalzanti interrogativi che scandiscono alcuni di questi testi (E su bà, Zétt), infatti, non v'è chi dia risposta. E non si tratta qui delle tradizionali situazioni dialogiche con funzione realistica, ma di affannose domande che «proprio attraverso il loro eccesso, compongono il ritratto nevrotico del personaggio» [Brevini 1987 : 364]. In E su bà, a una serie di interrogativi seguono le risposte che, addotte dal personaggio stesso con ostinazione razionalistica, costituiscono il tentativo di un autoconvincimento utile piuttosto a mascherare a se stesso la verità del suo più completo fallimento di uomo. In Zétt l'insicuro serrato nei dubbi, nella paura di aver commesso errori e di continuare a commetterne, invoca un aiuto che non arriverà. Gli basterebbe ricevere una parola che dissipi le sue ansie, ma nessuno risponde all'appello. Stussi [Stussi 1993 : 204,205] nella sua analisi critica delle varianti redazionali di E' solitèri, sottolinea l'importanza dell'eliminazione del penultimo verso della stesura di Zétt [Baldini 1976], «Da sté mumént l'è mè ch'a vì stè zétt», nell'economia complessiva del componimento. Perché zétt resta nel testo [1982] solo quale parola-titolo. E quindi «se è vero, come è vero, che il contenuto informativo è inversamente proporzionale alla frequenza, quella parola-titolo accresce la sua forza evocativa» [Stussi 1993 : 204]. Essa dichiara la presenza del silenzio di un "altro". E' un destinatario desiderato ma indifferente, implacabilmente silente e umanamente distante, zétt appunto, che la sequenza di domande assillanti e senza risposta tracciano insieme all'immagine del monologante.

Nella scrittura «anticlassica» [Mengaldo 1995 : X] di Baldini, che passa dall'ordine al disordine seguendo il libero fluire delle chiacchiere raccontate o dei discorsi quasi "non scritti", l'elemento metrico costituisce il fondamento poetico strutturante. Baldini ricorre al metro classico della tradizione italiana moderna: l'endecasillabo alternato al settenario, e, più raramente, alle misure intermedie o minori. Come già hanno rilevato Brevini e Isella, la misura del verso, minacciata peraltro da ipermetrie e ipometrie, «costituisce l'esigua iniziativa di porre, o di tentare di porre, un minimo d'ordine, quale che sia, nel caos delle parole» [Isella 1982 : VI].

In occasione della ristampa einaudiana di E' solitèri [Baldini 1982], Baldini interviene complessivamente sui testi con un oculato lavoro di armonizzazione e di razionalizzazione. La revisione formale, come evidenzia Stussi, «pare guidata, a parte i pochi errori tipografici eliminati, dall'intento di rendere più sistematico l'uso dei diacritici e di evitare che certi omofoni siano anche omografi» [Stussi 1993 : 203]. E dal punto di vista della questione della realizzazione grafica del dialetto santarcangiolese in letteratura, Baldini «presenta un notevole grado di assestamento» [Stussi 1993 : 201]. Come ha messo in evidenza Stussi[34], Baldini per la seconda stesura di E' solitèri ritocca alcuni usi tipografici relativi agli accenti:

a)     trasforma da grave ad acuto l'accento sulla i (es.: Luisìn > Luisín 2. 14, ecc.), e sulla u (es.: avnù >avnú 4. 2, ecc.); si tratta invece di errori di stampa, come «certifica l'autore» [Stussi 1993 : 202], nei casi di andè > andé 8. 5, parchè > parché 8. 4-13-34;

b)    Elimina accenti gravi o acuti quando su una stessa parola ce n'erano due (es.: présiòun > presiòun 8. 105, ecc.), oppure in monosillabi e in bisillabi piani, per a (es.: fàt > fat 3. 17, àpa > apa 3. 21, ecc.), per o (es.: tròp > trop 8. 18, tròpa > tropa 2. 5, ecc.), per e (es.: bèl > bel 7. 9, tèsta > testa 8. 63, nonché il trisillabo parténza > partenza 5. 55, ecc.), per i (es.: drì > dri 5. 10, lìgar > ligar 10. 21-22, nonché pazínzia > pazinzia 7. 23, ecc.), per u  (es.: cùt > cut 3. 1, ecc.).

c)     Introduce, sebbene raramente, accenti su vocaboli che ne erano privi (es.: ven > vén 5. 6, ecc.).                  

Altri interventi grafici riguardano:

a)     l'inserzione di apostrofi (es.: tótt al dmènghi > tótt' al dmènghi 2. 13, ecc.), oppure la loro eliminazione (es.: 'spitè > spitè, ecc.);

b)    l'aggiunta di h a indicare la velarità nel digramma gh (es.: stàgh 3. 10, ecc.);

c)     il passaggio sistematico di m a mm dopo è molto breve: (es.: fémi > fémmi 7. 16, ecc.).

Sul piano propriamente fonetico le modificazioni sono minime: ciacra > ciacàra 5. 4, mégga da > méggh' da 25. 57, qualchedéun > qualcadéun 12. 16.

Dal punto di vista sostanziale poi gli interventi riguardano:

a)     sostituzioni lessicali per ridurre ripetizioni che producono ridondanza fonica (es.: I n'è bón da fè un chè [cosa] ch' l'àpa grèzia > I n'è bón da fè un pchè [peccato] ch' l'apa grèzia 25. 1; o Adès > Stavólta 3. 3;

b)    revisioni che hanno ragioni metriche, sono cioè funzionali all'eliminazione di ipometria o ipermetria, ovvero alla regolarizzazione di un verso tradizionale ( es.: Mo un n'è ch' u i stàga madòs, che dégga gnént > Mo u n'è ch' u i stàga adòs, ch' e' dégga gnént 23. 12, permettendo la sinalefe tra stàga e adòs.

Altre modifiche sono veri e propri rimaneggiamenti, diversi nella misura, ma ugualmente tesi all'ottenimento di una più efficace ed equilibrata distribuzione degli elementi testuali, che eviti cioè dispersioni semantiche. Come nel caso della sostituzione di i m pórta drétt ma la teràza ("mi portano dritto al balcone") con i m vérz la bóssla dla teràza ("mi aprono la bussola del balcone") 2. 20; o dell'intero finale in Zétt, da v.38 a seguire, variato per riduzione; o dell'omissione di alcuni versi sparsi in La cumédia che ne rallentavano l'immediatezza espressiva. Anche in Gnént la soppressione del primo emistichio dell'ultimo verso: E u n s n'éra incórt. ("E non se n'era accorto.") elimina la diminuzione di efficacia procurata dalla ridondanza semantica. In La sparzéina e in Spulicréd Baldini ha ritoccato alcuni punti sia attraverso omissioni di interi versi, sia attraverso contrazioni.


Capitolo V

 

 

Nel 1982, dopo sei anni dall’esordio poetico, Raffaello Baldini pubblica per Einaudi la sua seconda raccolta di versi nel dialetto romagnolo di Santarcangelo. Il nuovo volume, intitolato La nàiva, contiene, come già notato, anche la precedente raccolta. Il confronto con i testi di Furistír conferma che, dal punto di vista diacronico, l’opera di Baldini si caratterizza subito per le sue «lente evoluzioni interne» piuttosto che per «svolte clamorose» [Brevini 1990 : 335]. Quello che è il dato pressoché costante nella scrittura di Baldini riguarda certamente la singolare scelta antintellettualistica relativa ai livelli linguistico e stilistico. Come per non prendersi sul serio, egli affida alle voci e alle storie di dialettofoni santarcangiolesi l’oggetto delle sue meditazioni sulla condizione dell’uomo contemporaneo. Propone cioè i temi più pressanti della cultura novecentesca abbassandoli al tono “dialettale”; li svuota di ogni enfasi dissimulandoli invece nella finzione poetica ironicamente di segno opposto. Con un vivace gioco di distanziamento sotteso a quei procedimenti di scrittura, insomma, Baldini ha dissimulato la ricercatezza del suo pensiero teso a drammatici interrogativi esistenziali, la raffinata intellettualità di una mente esercitata alla filosofia e di una sensibilità profondamente attenta alle cose umane. Accanto a questa scelta è poi da rilevarne un'altra ugualmente costante ma a livello metrico. Baldini affida la sua versificazione a una scansione metrica sempre rigorosamente e "classicamente" misurata. L'endecasillabo alternato al settenario costituisce, infatti, lo schema metrico su cui si fonda la poesia di Baldini. A questi si aggiunga che non del tutto assenti, ma rari, sono i casi di versi di misure intermedie o minori, e di versi ipometri e ipermetri. L'esito visivo della versificazione potrebbe risultare metricamente un'apparente irregolarità se si considera la caratteristica materia fonematica del santarcangiolese baldiniano. Ma il computo sillabico e le sequenze accentuative sono, invece, costantemente rispettati. E, al fine di una corretta lettura metrica, è da ravvisarsi il particolare trattamento che subiscono i nessi vocalici. Tradizionalmente usata nella versificazione "canonica" italiana, la sinalefe qui assorbe frequentemente vocali su cui cade accento tonico, oppure serie di monosillabi vocalici quali, per esempio, "u i è" che solo raramente è invece bisillabico. Come è stato già rilevato, Baldini realizza sul piano metrico il tentativo di imbrigliare il fluire dei discorsi in cerca di una ragion d'essere. Infatti, al metro, principio poetico strutturante, «sembra affidato l'incarico di arginare il disordine dilagante sul piano sintattico» [Brevini 1988 : VII].

Apparentemente una «duplicazione»[35] [Bocchiola 1985 : 43] di E’ solitèri , La nàiva però non è da considerarsi il riflesso speculare della precedente raccolta. Anzi, piuttosto che sovrapponibili, le due raccolte vanno viste nella sequenza evolutiva di un percorso in divenire. Se il testo eponimo E’ solitèri era il finale efficace e strategico della prima avventura compositiva, ora il testo eponimo e conclusivo La nàiva costituisce un ulteriore approdo, il punto di arrivo di una successiva avventura compositiva.

La soluzione formale dominante ancora in La nàiva è quel tipo di monologo definito, con le parole di Brevini, «più distesamente illustrativo» [Brevini 1987 : 364], le cui generalità stilistiche e retoriche sono state analizzate nel precedente capitolo. Si fa riferimento ora in particolare ai testi: La pasiòun, E’ pécc, Sgnòura, Fridulòus, Cla sàira, E’ pòunt, La pulpètta, Al miséuri, Lói, E’ brètt, La nòta, China. Invece, un primo visibile segnale di differenziazione tra le due raccolte riguarda, nell’aspetto formale, la riduzione numerica delle “liriche brevi” alla sola E’ nòn, e, di contro, l’estensione della misura del poemetto ben oltre le dimensioni precedenti (La cucagna, La firma, E’ malàn, La nàiva). Tutt’altro che insignificanti, questi elementi confermano la nuova impostazione tematica.

Fin dal testo d’esordio della raccolta, con la sua consueta cura per la precisione e gli equilibri della globale architettura dell’opera, Baldini intraprende una nuova direzione. E’ nòn è la storia, condensata nei suoi minimi termini, di un volontario allontanamento dal mondo che, proprio per questo, apparentemente presenta analogie con quella del “mat” nel testo d’apertura di E’ solitèri, I cavéll. Ma la differenza che intercorre effettivamente tra le due storie è già paradigmatica di novità. Con il suo atto di ribellione, il “mat” continuava a mettersi in relazione col mondo nel segno dell’opposizione anziché dell’adesione. Il nuovo personaggio, invece, si ritira dalle abituali frequentazioni del “cafè”, luogo tradizionalmente tenuto quale fulcro delle relazioni sociali, con un’interrogazione «da fè chè?» che spiega il senso della sua scelta. Qui è l’indifferenza per la consapevolezza dell’inutilità di ogni energia profusa nel tentativo di relazionarsi col mondo; è cosciente e ragionata disillusione. Quell’attivo ma grottesco gesticolare con cui i personaggi in E’ solitèri si autoconvincevano di poter colmare il vuoto della loro solitudine e il nulla della loro vita, in La nàiva è sostituito da un diffuso atteggiamento passivo. Come ha rilevato Brevini, la scoperta in E’ solitèri che quei tentativi, ostinati quanto risibili, di opporre alla realtà la forza della ragione non avessero altro esito che il fallimento per «una carenza per la prima volta oggettiva» [Brevini 1987 : 365], aveva preannunciato la svolta compiutasi poi nella successiva raccolta. In questa infatti i personaggi appaiono disillusi, rinsaviti e quindi rassegnati al proprio stato. Manca in questi la volontà come continua tensione, quasi che avessero intuito che in quel tendere, ottimistico ma sempre impedito, fondamentalmente non sia alcun fine ultimo. La solitudine cui tentava di sottrarsi il personaggio in E’ solitèri, ora è lo stato in cui versa irredimibilmente l’umanità intera. Le voci, manifestazione acustica di un’esistenza, affermazione dell’essere nel mondo, sono diventate parte indistinta di «tótt e’ malàn de mònd» (“tutto il rumore del mondo”, E’ malàn) [Baldini 1982 : 117]. In assenza dell’”altro” che ascoltando discrimini l’emissione di una voce umana da ciascun rumore prodotto nel mondo, le voci tutte si assimilano come «rumore della solitudine» [Baldini in Mascarucci (a cura di) 1995] a tutto quell’indifferenziato «cias, senza sustènza» (“chiasso, senza sostanza”). E così i personaggi “soli”, la cui presenza in La nàiva è numericamente ridotta, accettano saggiamente la realtà assumendo un nuovo atteggiamento di passività. Il perseguitato dal freddo in Fridulòus si accontenta di guardare a distanza gli altri che giocano. Egli non partecipa ma, mentre «ch’ ilt i n s n’incórz e gnénca» (“gli altri non se ne accorgono nemmeno”), si sente «in cumpagnéa». Contrariamente all’insonne di I nòttal, l’insonne di La nòta è consapevole dell’inutilità di ogni tormento. Egli durante la notte sta ad aspettare «s’e’ vén e’ sònn» (“se viene il sonno”), oppure, seduto «se scaléin ‘d fura» (“sullo scalino di fuori”), aspetta che per caso passi «un furistír, un viazadòur» (“un forestiero, un viaggiatore”) con cui poter parlare.

Come il tema della solitudine, anche quello dell’amore ha subito un’analoga trasformazione nel passaggio alla seconda raccolta. L’inibizione di ogni tensione ha ceduto il passo all’inerzia. E allora, reciso un tenerissimo amore coniugale dal sopraggiungere improvviso della morte, in La pasiòun, il marito vedovo rinuncia progressivamente alla vita. Si ritira dal mondo lasciandosi lentamente morire d’inedia. E visto che al personaggio di Baldini non è dato che approssimarsi alla felicità per poi perderla inesorabilmente, l’accettazione incondizionata della realtà sic et simpliciter rimane per lui l’unica soluzione. Lo sa l’amante di Renata in Cla sàira che condensa la sua necessaria rassegnazione nella battuta conclusiva, per contrasto volutamente spassionata: «E pu la dmènga dop la s’è spusèda» (“E poi la domenica dopo s’è sposata”). E la protagonista di China che, ignorata dal marito, trova sollievo nel bere ogni tanto «do dàidi ad china» (“due dita di china”); così si sente «in èsar» (“in forma”).

Il cedimento della volontà alla cosciente rassegnazione è l’opportunità data ora al personaggio di Baldini di sciogliersi dall’angoscia del tendere al nulla. E allora solo se sollecitato da agenti esterni recupera la sua energia assopita per annodarsi in azioni che finiscono per lo sconfinare nel paradossale. Deluso solo se «ch’ l’ èlt ad sòura» (“quell’altro di sopra”), non condividendo lo zelo, lo metteva di fronte alla sua insensatezza dicendogli: «mo da fè cósa tótta sta sparzéina?» (“ma da far cosa tutto questo refe?”), il protagonista di La sparzéina trovava la sua ragion d’essere in quel convinto affannarsi. Diversa è invece la situazione dei personaggi di La nàiva. In I lèdar, testo che prosegue la poesia detta «della nevrosi, dell’ossessione razionalistica» [Brevini 1982], il protagonista si trova coinvolto in una nevrotica attività di ricerca, per cause estranee al suo volere: un’inaspettata incursione di ladri in casa. Egli tenta freneticamente di scoprire cosa abbiano potuto rubare, nonostante sappia che, non mancando apparentemente niente, è assurdo «zarchè e no savài gnench’ quèll ch’a zirch» (“cercare e non sapere nemmeno quel che cerco”). In ultimo, con un gesto significativamente risibile e patetico, decide di scrivere una lettera ai ladri e imbucarla senza indirizzo, ma non per avere «indrí gnént» (“indietro niente”), solo per «savài, / cs’avéiv pórt véa, cs’èll ch’a m’aví rubé?» (“sapere, / cosa avete portato via, cosa m’avete rubato?”). Il semianalfabeta protagonista di La firma, invece, non può esimersi dall’apporre la sua firma «par ciapè du bòch» (“per prendere due soldi”). Quindi, tra grottesco, umoristico e surreale, si impegna in un’arditissima operazione di scrittura: dominare le lettere che sfuggono, scivolano, si gonfiano, per realizzare un iperbolico autografo «piò grand ch’u s pò, / ènca piò grand dla piaza» (“più grande che si può, / anche più grande della piazza”). Ma sa che è tutto insignificante: «mo da fè chè, l’è tótt zchéurs ad di piò» (“ma da far che, sono tutti discorsi di troppo”). Il personaggio di questo secondo Baldini, persuaso che in quanto uomo non può nulla, nutre però la certezza dell’irripetibile singolarità del suo essere hic et nunc. E così, di fronte alla minaccia da parte dei fagocitanti meccanismi burocratici di assistere alla riduzione della sua identità a un grafico insignificante, il protagonista di La firma oppone il suo essere se stesso nell’emblematica unicità del suo vissuto:

«a i faz avdài la vòia ch’ò te còl,

e’ daid znin senza l’óngia

pr’un ziradàid quant a séra burdèl,

a so mè, u n s pò sbaiè, che un èlt mumént

a m’afughéva te gòurgh dla Rancàia,

a géve avài ségg an,

pu ti suldè a Sacile quant ò vést

la “Norma” e e’ “Rigulètt” che te teètar

da la zénta u n s’i stéva,

dop ò fat e’ manèzz in ferovéa,

e cla dmènga, ‘ta bón, a Vilagranda,

o l’è stè me Pòunt dl’Eus? a n m’arcórd piò,

ch’ò tiràt sò un cavèidal

piò gròs ca nè sté braz,

‘n’animèli ad cla fata a n l’ò mai vést,

e’ tiréva cmè un bò,

t’è capéi?»[36]

E allora «cs’ài bsògn, piò ca nè mè ch’i m’à davènti? / ch’i m pò tuchè s’na mèna?» (“cos’hanno bisogno, più che me che m’hanno davanti? / che mi possono toccare con una mano?”). Non esita, poi, a conservare intatta la sua identità anche nell’apparire il protagonista di E’ brètt. A differenza del personaggio che in Te spèc di E’ solitèri ricercava se stesso osservandosi minuziosamente davanti allo specchio, ora il personaggio crede, o vuole credere, nell’indubitabilità del suo essere e insieme del suo apparire, ancorandosi al suo quotidiano (il ghiaino davanti casa che alza un polverone, la moglie al balcone, le incomprensioni fra cognate, ecc.). E decide di buttare via quel cappello col quale, specchiatosi, sembrava un altro. Nel rischio di non identificarsi più con l’immagine di sé, egli rinuncia deliberatamente a modificare, sia pur provvisoriamente, i suoi tratti estetici. Ancora una volta in La nàiva il personaggio è rassegnato all’immodificabilità della sua condizione di uomo la cui vita gli appare ora come un viaggio. Ma la meta, sconosciuta, è più spaventosa ancora degli scogli evitati, e allora «tè ta n t móv, / ta n vu ‘ndè invéll, mo ta n si mai rivàt» (“tu non ti muovi, / non vuoi andare da nessuna parte, ma non sei mai arrivato”, in E’ brètt). Sotto l’incantesimo dell’«acqua ch’la caméina», nella certezza dell’essere qui e ora, del presente, si insinua però una nuova angoscia a minacciare questo stato, rassicurante quanto precario, di immobilità. E’ l’angoscia come puro sentimento del possibile, come sgomento nell’attesa di quel che può accadere e che può essere molto più terribile della realtà presente:

«però t si ‘lè che da un mumént a cl’èlt

u t pèr cmè ch’ l’apa da suzéd qualcósa,

ta t’é sint, t tén i ócc féss,

ta n nu n pò piò, t còunt fina dis, a i sémm,

u n suzéd gnént.»[37]

Solo per sfuggire a una temuta aggressione, il personaggio di A m’aracmànd si risolve a mascherare il suo essere sperando di non venire riconosciuto. Con una trovata ancora una volta risibile e patetica il personaggio di Baldini sentendosi condannato e perseguitato, compie il suo ultimo tentativo: si mette «i ucèl nir» (“gli occhiali neri”) e si pittura «i bafi se carbòun» (“i baffi col carbone”). Ora con un’ironia più spietata ancora, Baldini ha reso i suoi personaggi consapevoli dell’inutilità del loro perseverante agire, ottenendo così un effetto di aggravamento nella constatazione della nullità dell’essere umano nel mondo. A ciò coincide, dal punto di vista formale, una nuova maniera nella costruzione testuale (A m’aracmànd, La cucagna, La firma, La nàiva), di cui A m’aracmànd potrebbe ritenersi esemplare. E, come già ha rilevato Brevini, una delle novità formali presenti in alcuni testi di La nàiva, consiste nella sostituzione «al tradizionale procedimento dell’elencazione di una figura di climax» [Brevini 1987 : 365]. Il testo di A m’aracmànd si sviluppa su una serie di periodi ipotetici accumulati in progressione semantica, interrotta brevemente dalle esitazioni insite nei dubbi delle interrogative. Al progressivo avvicinamento fisico degli aggressori, ipotizzato, coincide un aumento della paura. E al culmine del crescendo, Baldini concede alla vittima un paio di occhiali neri e i baffi di carbone. Anche nel testo intitolato La cucagna, Baldini fa uso della figura di climax con una perfetta corrispondenza  stilistica retorica e semantica. Ogni reiterato tentativo dei giocatori è descritto attraverso una serie accumulativa di gesti in progressione semantica. Coincidente appunto con i tentativi incompiuti di ascesa, il crescendo ogni volta irrisolto è alternato a pause di stasi : intorno ai giocatori «la zénta u n s móv niséun / i sta alè zétt, i aspétta.» ("la gente non si muove nessuno, / stanno lí zitti, aspettano.”). Ad amplificare questa atmosfera di sospensione tra opposti inconciliati concorre un indugiare diegetico nel trascorrere cadenzato della notte in «un bulòur ch’u n s’arfièda, u n s móv un féil» (“un bollore che non si respira, non si muove un filo”). Opportunamente collocato in posizione centrale, il testo di La cucagna appare esemplarmente sintetico di quel diffuso senso di sospensione peculiare della raccolta La nàiva. La gente di Santarcangelo, emblema, come visto, della umanità tutta, ora risulta smarrita tra l’interminabile sforzo di vivere e la vanità della vita; ma a soccorrerla nel suo smarrimento interviene la fede religiosa. Preannunciata al termine di E’ solitèri (in L’asoluziòun) con la descrizione in toni idilliaci dell’effetto catartico della confessione, ora, come elemento tematico si fa più presente. Ecco allora che quella sospensione carica di tensione, rinnovata in crescendo ad ogni tentativo del gioco, si risolve solo alla fine nella preghiera di Fiorona:

«la Fiuròuna la pràiga,

                la déis un Patèr dòppi, Pater Pater,

                                              noster noster, quesincéli quesincéli,

                                            la su fióla la sbròuntla: “Mo durméi!”,

                li la va ‘vènti: “A praigh ènca par tè”,

                “Mo cs’avéiv, sa cla faza spavantèda?”,

                “L’è un’aria ch’la n mu n pis, ta n sint che férma?”».[38]

Approdata così alla sfera mistica dell’Inconoscibile, all’«interrogativo più lacerante» [Baldini in Mascarucci (a cura di) 1995], l’umanità naufraga di Baldini, implorando perdono invoca aiuto e certezza: «qualcadéun ch’u i perdòuna, u n gn’è niséun?» (“qualcuno che li perdoni, non c’è nessuno?”, in E’ malàn). A coronamento della raccolta, data ormai la ragione come definitivamente impotente, Baldini perviene al surrealismo. Obliquamente giustificato col riferimento, in E’ malàn, alla natura dell’ispirazione poetica come delirio dell’ammalato febbricitante, allucinazione onirica («l’è cmè quant che te sònn, che t’é la févra / te lèt ad sòura, / t sint ad sòtta cal dòni ch’al ciacàra, / ta n capéss gnént, però t’ arcnòss al vòusi», “è come quando nel sonno, che hai la febbre / nel letto di sopra, / senti di sotto quelle donne che chiacchierano, / non capisci niente, però riconosci le voci”), il nuovo

orientamento è affermato a chiusura della raccolta nel testo eponimo La nàiva. Senza mai rinunciare al grottesco, quel gusto del paradossale e dell’assurdo sostenuto tecnicamente, come già analizzato, dall’uso ben dosato delle figure di climax, ora sconfina nel surreale. La vertigine nell’uomo impotente di fronte agli equilibri cosmici ha avuto il sopravvento, e, come si trattasse di un sogno nell’”umore” dell’assurdo e nell’”affetto” della paura, ora il testo è diventato forma manifesta di una paura latente non più contenuta. In La nàiva, infatti, è descritta un’immaginaria e allucinata nevicata che, abnorme, minaccia di seppellire Santarcangelo in  un bianco informe: «E pu e’ vnéva la nòta, / e la matéina dop, a guardè ‘d fura, / l’era tótt un èlt mònd» (“E poi veniva la notte, / e la mattina dopo, a guardare di fuori, / era tutto un altro mondo”). Perché la neve «la cvérz, la mèsa tótt, / che spròun alà cs’èll ch’l’è, i Muléin? o e’ Ròst? / aquè éun l’è pérs» (“copre, nasconde tutto, / quello sperone là cos’è, i Mulini? O il Ròst? / qui uno è perso”). E a nulla valgono i tentativi compiuti dalla gente di Santarcangelo di opporre la loro resistenza «par ròmp e’ témp» (“per rompere il tempo”). Condannati all’insensato gesticolare in ragione della loro stessa condizione di uomini, tutti si prodigano energicamente, con una trovata ancora una volta risibile e patetica, a suonare le campane del paese prima, e poi a sparare razzi in cielo «pr’avdài quèll ch’e’ fa e’ témp» (“per vedere quello che fa il tempo”). Ma, sospesa nell’angoscia e smarrita tra opposti insondabili , la neve che «l’à parzè tótt» (“ha pareggiato tutto”) e il sole «ch’u t’inzíga» (“che ti acceca”) l’umanità è destinata a soccombere: «quèst’l’è la féin de mònd. //…» (“questa è la fine del mondo.//…”).


Capitolo VI

 

 

 

 

Con la pubblicazione nel 1988 della raccolta di versi in dialetto romagnolo Furistír, siamo certamente di fronte a «un terzo Baldini» [Brevini 1988 : V]. Come ha già rilevato Brevini, infatti, la caratterizzazione del personaggio baldiniano ora è investita di novità più profondamente che in precedenza. E, insieme a uno spostamento dell’asse tematico portante in direzione pessimistica, è registrabile anche dal punto di vista formale un’innovazione relativa ad alcuni dei testi compresi nella nuova raccolta. Nei personaggi di E’ solitèri l’esperienza dell’esclusione aveva il senso di uno stato di solitudine consumata nell’impossibilità di instaurare relazioni e corrispondenze col circostante mondo degli uomini e delle cose. Risolta dapprima in un complessivo ottimismo, come già visto, nel passaggio dalla prima raccolta alla seconda la condizione di solitudine si estende irredimibilmente all’umanità intera. Ma in quel crollo del ponte avvenuto a causa dell’irruente “fiumana” del 1975 e raccontato in E’ pòunt di La nàiva era già il presagio delle sventure che avrebbero stretto i personaggi di Baldini. Quel ponte, che lo stesso re aveva reso illustre inaugurandolo nel ’20, segnava il confine dello spazio “dialettale”, fragile ma fino ad allora protetto nella simbolica separazione dall’altro esterno. Solo oltrepassandolo infatti «éun u i paréva d’ès un furistír, / ènch’ la zénta i zcuréva t’un èlt módi» (“uno gli pareva d’essere un forestiero, / anche la gente parlavano in un altro modo” [Baldini 1982 : 90]). Ma a seguito del crollo, cancellato il limite, accade che «andè drétt u n s va invéll» (“ad andare dritto non si va da nessuna parte”, p.92). E allora il paese, quell’identificatissimo ambito “dialettale”, «paradossalmente finisce per svolgere una funzione aggravante» [Brevini 1988 : IX]. Infatti, pur conservandone la precisa determinazione topografica e onomastica[39], è ormai divenuto un deserto «frammento dell’universo» [Brevini 1988 : IX]. Come indica lo stesso titolo, Furistír, ora è l’esperienza dell’estraneità che, in quanto condizione esistenziale immodificabile e unica, coinvolge i personaggi nella complessità psicologica, sociale, linguistica. E, deposti gli strumenti del surrealismo che avevano contraddistinto la scrittura de La nàiva, Baldini restituisce i suoi personaggi alla realtà del quotidiano più comune in cui «i grumi della follia si celano dietro le apparenze più dimesse e rassicuranti» [Brevini 1988 : V]. Indice della nevrosi da cui è affetto il personaggio baldiniano qui è, inoltre, la maggiore occorrenza della parola “mat” rispetto alle precedenti raccolte. Già prima tale ricorrenza lessicale costituiva un segnale, oltre che stilistico come visto (mimesi dell’oralità più idiomatica), di irregolarità incombente nella psiche dei personaggi. Ma ora il matto approda alla comune «normalità della nevrosi quotidiana» [Brevini 1988 : VI] in coincidenza con l’approfondimento di quella condizione di “estraneità”: «pu e’ mond, a sémm tótt mat» (“poi il mondo, siamo tutti matti”, Traviata, p.6). Il personaggio del terzo Baldini abita ormai uno spazio paesano cui però risulta estraneo, come raccontato nel testo eponimo della raccolta. Significativamente non più collocato in posizione conclusiva, bensì al quinto posto, il monologo Furistír è dal punto di vista narrativo bipartito. L’attraversamento dei luoghi vivi del paese conduce il protagonista a riconoscersi inevitabilmente forestiero: «e’ furistír / aquè a so mè, a n cnòss bèla piò niséun» (“il forestiero / qui sono io, non conosco ormai più nessuno”); il successivo transito attraverso i luoghi del cimitero gli restituirà invece quel perduto senso di familiarità: «mo l’è tótt ‘n’avdéuda / aquè, l’è cmè ès in piaza, a i cnòss ma tótt» (“ma è tutto un salutare / qui, è come essere in piazza, li conosco tutti”). Brevini ha rinvenuto in questo testo anche un «apologo sulla condizione del poeta neodialettale» [Brevini 1990 : 154]. Disgregata ormai la mitica integrità della realtà dialettale sotto i colpi sferrati dalla civiltà tecnologica secondo un itinerario storico evidentemente necessario, «il poeta in dialetto si muove ormai fra i morti» [Brevini 1990 : 155]. Popolato ora da “gente” dalle “facce” sconosciute, quel mondo ha assunto un’inquietante fisionomia impersonale[40]. E pertanto il protagonista di La butàiga si ritaglia il suo piccolo spazio dove potere sopravvivere. Mentre «’d fura la zénta i va par la su strèda» (“fuori la gente va per la sua strada”), egli trova la leggerezza d’esistere chiudendosi dentro la sua bottega ormai da tempo svuotata. E lì, «te schéur» e solo, può credere veramente di avere tutto: «a so e’ padròun de mònd, cs’ èll ch’u m’amènca?» (“sono il padrone del mondo, cosa mi manca?”), riecheggiando involontariamente l’aforisma tessiano: «chi non ha più niente ha tutto il mondo per sé» [Tessa 1988 : 98]. Il solitario di E’ fazulètt invece almeno difende la sua dignità di uomo di fronte al sordido di un’esistenza desolata: «ènch’ s’u n mu n vàid niséun, mo e mè, chi sòi? / a n so gnént, mè?» (“anche se non mi vede nessuno, ma, e io chi sono? / non sono niente, io?”) evitando di asciugarsi  gli occhi «sal mudandi!» (“con le mutande !”). Altrove la

scelta più consona al sentimento di estraneità che domina il personaggio è la rinuncia a partecipare alla vita del mondo. Il protagonista di Traviata, infatti, decide di non andare alla desiderata rappresentazione dell’opera lirica perché «ti póst, u m pis ch’ i i vaga ch’ilt» (“nei posti, mi piace che ci vadano gli altri”). Anche il protagonista di Viazè ama stare a casa sua, come esordisce nel suo monologo: «mo viaza tè, mè a stagh bén dò ch’ a so» (“ma viaggia tu, io sto bene dove sono”), e prosegue: «a stagh ma chèsa méa, piò bén che mai» (“sto a casa mia, meglio di qui ?”). E quand’anche decidesse di viaggiare preferirebbe allora «i póst ch’ u n suzéd gnént» (“i posti dove non succede niente”). Non senza un certo cinismo, poi, la condizione di straniero è aggravata in taluni casi da impedimenti di natura fisica che, edificando intorno al personaggio barriere invalicabili, lo escludono inesorabilmente dal suo mondo circostante. E’ la sordità in Incaplèd?, l’umiliante deperimento da vecchiaia in Petrangla e in Capòt dove addirittura il protagonista sceglie la via del suicidio. Al protagonista di Òmbri, invece, attraverso la cataràta (“la cataratta”) il mondo si mostra abitato da ombre. E allora se in precedenza al personaggio di Baldini era comunque concesso il ruolo di attore protagonista di imprese irraggiungibili ma di importanza vitale, ora a lui è possibile solo quello di spettatore nella platea del teatro della vita: «la nòta l’è un teètar, da la Roca / u s vàid e’ mònd» (“la notte è un teatro, dalla Rocca / si vede il mondo”, in L’instèda, p.48). Nella scrittura, conferma dell’estraneità del personaggio rispetto alla sua società è ora una presenza più cospicua del repertorio linguistico italiano nella maggiore espansione che durante gli ultimi decenni, come già considerato, è andato progressivamente acquisendo. L’esito di questo aggiornamento linguistico alle effettive abitudini orali diffuse nelle zone periferiche della provincia italiana, se da una parte rappresenta una registrazione dell’evoluzione sociolinguistica funzionale al realismo caratteristico in Baldini fin da Autotem (ora si considerino in particolare i testi di E’ permèss e di E’ sènt), dall’altra sortisce qui l’effetto di un ulteriore isolamento subito dal personaggio. Il dialettofono monologante, apparentemente socializzato, ha intorno a sé il suo mondo che, trasformando gli usi linguistici, sanziona definitivamente l’impossibilità di stabilire contatti con lui. Emblematiche a tal proposito sono le alternanze di registro in corrispondenza della partecipazione di interlocutori in situazioni dialogiche (al dialetto del protagonista si alterna la lingua dell’interlocutore) come in Aqua e in Capéi. In quest’ultimo testo poi l’incomunicabilità è penetrata anche nell’ambito familiare. Qui è aggravata inoltre dai rumori prodotti dal fervore del mondo esterno che, incontrollabili, sommergono la voce umana impedendole di conquistarsi il suo vitale spazio acustico: «a n rógg ! / a déggh sno ch’ u n s capéss un azidént !» (“non urlo ! / dico solo che non si capisce un accidente !”).

L’accentuazione dei toni tragici che contraddistinguono la raccolta è poi manifesta se si evidenzia la differenza del personaggio nel rapporto con se stesso, ora rispetto a La nàiva. Nella precedente raccolta, come visto, l’umanità naufraga di Baldini riusciva almeno ad approdare alla certezza dell’irripetibile unicità e singolarità del suo essere nel presente. Ora invece il personaggio ha perduto anche le coordinate psicologiche entro cui potere riconoscersi; e allora, “forestiero” anche a se stesso, vive l’annichilamento della sua identità: «chi ch’ a so mè ? / a n so gnént, mè» (“chi sono io ? / non sono niente io”, in Aqua, p.98). Non gli è neppure data la speranza di redimersi dall’infelicità in cui ora versa ineluttabilmente. Può solo opporre al suo stato una coraggiosa ma vana resistenza lanciando un grido nel buio e nella solitudine, come fa il protagonista di La cambra schéura. Quando tutto diventa insopportabile egli, analogamente a quanto fa il personaggio del racconto Essere infelici di Kafka, si affida al palliativo di uno sfogo momentaneo: un urlo lenitivo «a cui non risponde nulla e a cui nulla toglie la forza della voce, che dunque sale, senza contrappeso e non può cessare mai, anche quando s'estingue»[41].

Anche la decisione di farsi «crèss i bafi» (“crescere i baffi”) cui si risolve il protagonista di Basta! ha lo scopo di lenire la sua infelicità. Con un tentativo di movimento, egli cerca di rompere quel vuoto esistenziale in cui tutto si ripete nell’incessante noia dell’immobilità: «l’ è tótt i dè cumpàgn, u n s nu n pò piò» (“è tutti i giorni uguale, non se ne può più”). Ma nella sua non consequenzialità il tentativo di cambiamento commenta e conferma quell’immobilità dell’esistere che ha copiosamente tematizzato Samuel Beckett nella sua produzione, oltre che letteraria, teatrale (il riferimento è particolarmente rivolto a quella stagione compositiva teatrale di Beckett relativa ai titoli Aspettando Godot, Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp, Giorni felici). Già la critica più autorevole ha rinvenuto nella poesia di Baldini una sorta di componente beckettiana[42]. In La nàiva quel dominante senso di sospensione nell’attesa del niente, analizzato nel precedente capitolo di questo scritto, sembrava riecheggiare l’atmosfera della commedia di Beckett Aspettando Godot. Ora, condannato all’immobilità e costretto ad attendere il decorso della sua statica vita nella ripetizione di gesti e di parole privi di qualunque fine (come dichiarano, per esempio, il protagonista di La butàiga: «sla zénta ch’ i t fa zcòrr, pu i n t sta a sintéi», “con la gente che ti fa parlare, poi non ti sta a sentire”, oppure il protagonista dell’esperimento illusionistico di Aqua: «i póst ormai, / tanimódi l’è chèsi, / i è tótt compàgn, l’è cumè fè e’ zéir dl’ óca», “i posti ormai, / tanto sono case, / sono tutti uguali, è come fare il giro dell’oca”, e prosegue ancora: «e quèst e quèll e avènti a zcòrr / da par mè, e u n suzéd gnént», “e questo e quello e avanti a parlare / da solo e non succede niente”), l’uomo di Baldini è estraneo anche alla dimensione temporale. Di fronte alla fissità della condizione umana il protagonista di Mètt si interroga: «e’ témp / l’andarà ancòura avènti? da par léu? / e do ch’ l’andrà?» (“il tempo / andrà ancora avanti? da solo? / e dove andrà?”). Mentre, seduto al chiuso e solo, il protagonista di La butàiga prova a sentire il tempo: «mo gnént, tott’ ròbi, zétt, éun, déu, tréi, quàtar, /…sèt, òt, l’è sempra ‘vènti» (“ma niente, tutte cose, zitto, uno, due, tre, quattro, /…sette, otto, è sempre avanti”). Particolarmente prossimo poi al clima da “assurdo” beckettiano è il testo di Smurté!. Qui il protagonista intima di spegnere la luce «smurté ch’ u i è da inzghéis!» (“spegnete, che c’è da accecarsi!”), perché tollera solo la grigia oscurità. Metafora in E’ solitèri della agognata azione della ragione, ora la luce attraverso la trasparenza non svela altro che il nulla («u n s vàid piò gnént, mo chi è ch’ l’à zàis la luce? », “non si vede più niente, ma chi è che ha acceso la luce?”), il vuoto della desertica esistenza in cui l’andare corrisponde al non andare da nessuna parte: «mo sé, u s va po’, / pianín pianín, che pu a n’ ò d’andè invéll » (“ma sì, si va pure, / piano piano, che poi non devo andare da nessuna parte”).

Anche quella che in Furistír costituisce la novità formale avvicina il nostro Baldini a Beckett. In diminuzione numerica, ma ancora presente nella terza raccolta, è la soluzione formale definita del monologo "distesamente illustrativo". Appartengono a questo tipo formale i testi: Bèla, E' vèscuv, Petrangla, L'instèda, E' cambia e' témp, Pacòun, Mòl, La vélla, Capòt, Òmbri. Mentre analoghi alle "liriche brevi", come descritte in precedenza, sono i testi Basta!, La cambra schéura, Par réid, Incaplèd?. Del tipo dei soliloqui, di cui pure s'è data descrizione a proposito della raccolta E' solitèri, sono i testi di La butàiga e di E' fazulètt. I monologhi di Traviata, Furistír, Viazè, E' permèss, Capéi, E' sènt, La fira, Aqua sono invece quelli che dal punto di vista formale presentano novità. Ora nell'azione verbale del monologante è coinvolta la presenza di ascoltatori/interlocutori; non è però la comunicazione il fine ultimo della produzione verbale. Essa infatti non risulta strumentale all'ottenimento di alcun effetto sull'ascoltatore/interlocutore. Sviluppando cioè le premesse formali del soliloquio di E' solitèri, ora il monologo baldiniano è diventato tale da potersi definire, con la psicolinguistica, come una sorta di

"monologo collettivo"[43]; e in corrispondenza il tema della solitudine si è esteso a quello dell'incomunicabilità da cui è vinto il personaggio "forestiero". Nonostante la partecipazione diretta dell'"altro", il discorso qui non segue un percorso consequenzialmente logico, né appare organicamente strutturato come sarebbe se fosse esclusivamente funzionale alla produzione di un messaggio. Prossimo alla verbalità prelogica del "flusso di coscienza", esso però è più che un "pensiero ad alta voce"; è vocalità che attua nella verbalizzazione un'esistenza circondata da deserto e costretta all'immobilità. La prevalenza dei procedimenti di "aggiunzione" per asindeto tendenti all'accumulazione "caotica", insieme all'assenza di forti interruzioni interstrofiche (alla separazione tra lasse non corrisponde, in questi testi, interruzione frastica)[44] e di pause forti fino alla chiusa del testo (il punto, unico, è solo alla fine), confermano la mancata pianificazione ordinata del testo. E il personaggio che ora appare perfettamente socializzato in verità vive nell'impossibilità di un'interazione sociale. Concludendo emerge che nella scrittura di Baldini ogni eccesso celi il suo contrario: nell'iperrealismo è il vuoto, nella luce il nulla, nella logorrea[45] l'incomunicabilità, nel movimento l'immobilità. Che il risultato del movimento sia inevitabilmente l'immobilità è inoltre dimostrato dall'esito che raggiunge l'itinerario su cui si costruisce lo schema narrativo di alcuni testi. Dopo avere rinunciato ad andare oltre il circuito "dialettale", cioè in quei posti dove gli piace «ch'i i vaga ch'ilt» ("che ci vadano gli altri", p.8), il protagonista di Traviata si muove alla ricerca di un contesto rassicurante. Così pure il protagonista di Furistír e quello di La fira che si allontana dalla folla di gente della fiera per andare in un posto qualunque: «'s 'ut ch' a sapa dò ch'a vagh, / a t'e' girò stasàira te cafè, / mo a n'e' so» ("cosa vuoi che sappia dove vado, / te lo dirò stasera al caffè, / ma non lo so", p.79). Ma anelare alla requie attraverso il moto non può che essere una contraddizione in termini, segnale qui dell'insanabilità della situazione. Le chiuse di questi testi rivelano infatti la negatività di un esito evidentemente inevitabile. Il protagonista di Traviata rimane solo e interdetto per il dileguarsi improvviso di Giorgia, la passeggiata del protagonista di Furistír termina tra i morti anziché tra i vivi, mentre il finale dell'itinerario di La fira è un tuffo nella memoria di un vissuto ormai trascorso. Anche l'esito della passeggiata lungo la quale si svolge il dialogo tra i personaggi di La patenta è in verità un non esito: il percorso si conclude con l'interrogativo «turnémma indrí?» ("beh, torniamo?", p.61). Solo nella contemplazione di improvvise epifanie naturali l'umanità del terzo Baldini riesce ancora a trovare ristoro e requie. Quello che, come visto, rappresenta "l'altro polo" della poesia di Baldini può considerarsi alla luce del tradizionale tópoV del locus amoenus ora però assai lontano dai toni dell'idillio georgico diffuso e ricorrente nella precedente poesia dialettale romagnola, e aggiornato alle più attuali esperienze psicologiche. Le inquietudini del personaggio in Furistír trovano appagamento solo quando nell'errante vagare inaspettatamente si squarcia il miraggio. Sono i fuochi d'artificio come «una funtèna / e al lózzli ch'e' e' pèr aqua» ("una fontana / e le scintille che sembrano acqua", p.8); oppure «dal suséini / piò dòulzi ca né e' mél» ("delle susine / più dolci del miele"), «di arzipréss, un udòur» ("dei cipressi, un odore", p.31), «e tótt chi sas, / mo u i n'è ch'i à di culéur, / i léus, sott'aqua, quèsti l'è al zità!» ("e tutti quei sassi, / ma ce n'è che hanno dei colori, / rilucono, sott'acqua, queste sono le città!", p.31);o ancora il cielo stellato e il profumo della filadelfia di E' cambia e'  témp; oppure lo scorcio domestico estivo di L'instèda; o le pecore nell'erba ferme come dei sassi in Mòl.


Capitolo VII

 

 

 

Tra l'anno di pubblicazione della terza raccolta poetica, 1988, e quello della quarta, Ad nòta, 1995, Baldini si misura per la prima volta anche con il teatro. E' del 1993 infatti la stesura del monologo teatrale Zitti tutti!, rappresentato in prima assoluta al Teatro Alighieri di Ravenna, il 22 novembre dello stesso anno. Recitato da Ivano Marescotti e pubblicato dalla Ubulibri, l'atto unico è accolto con  entusiasmo dalla critica, da cui è considerato anzi «un evento teatrale di prim'ordine» [F. Loi 1995]. Il passaggio al teatro si presenta in Baldini come un esito naturale di quello che è da ritenersi una vocazione annunciata proprio in considerazione del fatto che «i suoi versi recano sempre una forte sottolineatura scenico-drammaturgica» [Brevini 1988 : 113]. Conservando i moduli stilistici già caratteristici della scrittura poetica e particolarmente della raccolta Furistír, la voce monologante protagonista di Zitti tutti! evoca, ora sulla scena teatrale effettiva, situazioni e personaggi che richiamano i sodali precedentemente ospitati nei testi poetici. Solo per fare qualche esempio si potrebbe citare il caso dell'esaurimento nervoso di Miglio ad Casètta (p.23), analogo a quello del protagonista di Spulicréd in E' solitèri. O la morte improvvisa che ha strappato alla vita ingiustamente Giovanino 'd Matiòun (p.35), come era accaduto a Gianín 'd Padòia di La patenta in Furistír. Vi è poi la dissertazione sulla precarietà del vivere umano che fa eco alle parole del protagonista di E' sènt in Furistír; oppure Cesrino e' mazlèr che potrebbe prestare la sua identità al monologante macellaio di E' curtèl in E' solitèri. Argomento, questo, di ordinaria crudeltà che, come ha già rilevato Maurizio Cucchi nel suo saggio Per Raffaello Baldini, insieme ad altre storie, quali quelle di E' gat in E' solitèri e di Te fòuran in Ad nòta, risultano alquanto insoliti nella poesia italiana. Egli, anzi, ravvisa «un caso di questo tipo» [Cucchi; Fabi; Piromalli; Stussi 1994 : 155] nella sequenza in versi de L'aspetto occidentale del vestito (1976) relativa all'episodio dell'allevatore di lumache di Giampiero Neri[46]. Si aggiunga poi che, in un testo quale Macelleria in Fervore di Buenos Aires (1923)[47], l'inusuale tema dell'ingrato e cruento esercizio della professione di macellaio aveva già ispirato anche Borges, autore della cui «surrealità» Baldini afferma di aver subito il fascino  [Mascarucci (a cura di) 1995 : 46].

Il monologo di Zitti tutti! svolge anche il tema del suicidio che già in ogni raccolta aveva avuto uno spazio narrativo: in Tla butàiga di E' solitèri, in La pulpètta di La nàiva, in Capòt di Firistír. Altro  tema comune è l'incomunicabilità in famiglia come accadeva in Capéi di Furistír. Entrambi i personaggi hanno un figlio di diciassette anni e, quando la famiglia si riunisce a tavola, si sentono "forestieri". Hanno il significato di riempire il vuoto dell'esistenza l'attività di smontaggio della bicicletta in cui si prodiga con fervore inestinguibile il silenzioso figlio, o anche la collezione di francobolli del monologante. Sono questi ora da accomunarsi ai più emblematici personaggi di La sparzéina in E' solitèri, di I lèdar in La nàiva, di La butàiga in Furistír. Non manca in Zitti tutti! nemmeno il riferimento alle conversazioni coi morti nel camposanto (p.53). Come già nel testo eponimo, Furistír, anche ora le passeggiate nel cimitero del paese perpetuano la vita dei cari estinti in quella sorta di foscoliana "corrispondenza d'amorosi sensi" che si alimenta nel ricordo dei vivi.

Insomma con la consueta leggerezza, Baldini porta sulla scena quei laceranti temi sulla condizione dell'uomo contemporaneo e la relativa società, che, in modo sempre nuovo, come visto, aveva già proposto nella sua produzione poetica. E, come ha scritto Renata Molinari nella Introduzione al volume, rispetto al protagonista di Zitti tutti! «non siamo di fronte a un raisonneur, e neanche a un sognatore: la libertà dell'immaginare come quella dai bisogni si esercita in un vuoto sempre più consapevole, in un viaggio di parole, e "quando viaggi non hai il tempo di morire"» [Molinari 1993 : 8].

Con l'uscita a stampa della quarta raccolta poetica, Ad nòta, nel 1995 per Mondadori, Baldini è salutato ormai unanimemente quale uno dei maggiori poeti contemporanei. Vari e prestigiosi interventi critici hanno, infatti, accompagnato l'entusiastica accoglienza di questo volume nel panorama letterario italiano. E, solo per citare un esempio tra gli altri, Giorgio Manacorda lo stima «l'unico vero libro di poesia del 1995; gli altri, anche i migliori, sono, in misura diversa, discontinui, non omogenei, insomma non abbastanza sostenuti. Qui la vena è robusta e continua, mai pretestuosa, mai letteraria, sempre aderente ad emozioni primarie.» [Manacorda 1996 : 70].

In Ad nòta sono ancora centrali le storie e gli accadimenti sentimentali delle cronache minute di Romagna nell'epoca dell'alienazione industriale e delle nevrosi dei nostri tempi. Sono minimi eventi, ancora, che si sviluppano intorno a vicende psicologiche e stati d'animo complessi, talvolta dai profondi e impensati riflessi filosofici, e nei quali sono coinvolte paradossali e buffe figurine di un'Italia provinciale di cui non possono mancare i piccoli gesti di ordinaria crudeltà, i riti della cucina, delle relazioni amorose, della famiglia, e il colore dei miti televisivi, canzonettistici e cinematografici. Ora però l'ispirazione, come indica anche il titolo, si fa «sottilmente, intimamente notturna», se «per notturno si intenda tutto ciò che viene dalla spessa matrice ed è impastato con la stessa materia dei sogni e delle ossessioni» [Raboni 1995]. Una nuova atmosfera allucinata e sempre sulla soglia dell'onirico aleggia, infatti, nella nuova raccolta; la realtà è sempre ritratta in tutto il suo spessore e con la consueta esattezza e precisione, ma «c'è di più: che tutti i brani di realtà da un lato siano ben realistici, dall'altro scompaiano come tali in qualcosa che è via via sogno a occhi aperti, ricordo, invenzione, ecc., e sì, anche simbolo e allegoria» [Mengaldo 1995 : XIX].

Quella comicità grottesca di cui Baldini aveva in precedenza rivestito le sue storie, ora ha ceduto il passo a toni cupi e tragici. Abbandonati dall'originario ottimismo e privati di ogni illusorio spiraglio di luce, i personaggi «non solo appaiono, ma sono del tutto normali» [Brevini 1996 : 34]. Con un risultato di aggravamento della drammaticità insita nelle storie, quel quotidiano è tanto banale e comune quanto dominato da sconfitte e nevrosi schiaccianti e senza via d'uscita. Ora, condannato a sostenere il vertiginoso peso del suo essere sempre e solo se stesso, della sua identità pari a zero (p.102), il personaggio abita una Santarcangelo che ha assunto l'inquietante e orrido aspetto di una sorta di antinferno del XX secolo. Una moltitudine indistinta di brutti, di delinquenti, di cattivi, di avidi affolla il "mondo" «ch'u s'è guast» ("che s'è guastato", p.18), come per un veleno che si respira nell'aria, che trabocca di «tènt' 'd cla purchèra, / 'na pózza» ("tanta di quella porcheria, / una puzza", p.21), e che è attraversato da fiere indomite come in un sogno. Qui, levando un tumulto sonoro, «parchè u n s pò stè sémpra zétt, / a gémm quèll ch'a s sintémm, / tótt insén, con parole» ("perché non si può stare sempre zitti, / diciamo quello che ci sentiamo, / tutti insieme, con parole", p.123), i personaggi arrancano nella grigia opacità della loro esistenza condotta, da "ignavi" vissuti sul concludersi del XX secolo, "sanza infamia e sanza lodo". E, costipati in una simbolica "fila", di cui non si riconosce l'inizio, attendono di arrivare, prima o dopo, alla meta ignota e invisibile: forse il trapasso e magari anche il perdono. Ma, poiché «e 'd strèda u i è sno quèsta, u n s pò capè, / ènch' s'u n s'aréiva invéll, u n gne n'è un'èlta» ("di strada c'è solo questa, non si può scegliere, / anche se non si arrive da nessuna parte, non ce n'è un'altra", in E' divèri, p.97), vano è ogni tentativo verso altre direzioni: quando le giornate «al cméinza a a calè, l'è finìd tótt» ("cominciano a calare, è finito tutto", in E' pòst, p.75), come travolto in un rapinoso «andè d' inzò» ("andare in giù", in I travès, p.43), irrefrenabile e vorticoso, verso l'annullamento: «l'è dagli òmbri, l'è gnént» ("sono ombre, sono niente", in I travès, p.44). Il pensiero dominante in questa raccolta, a cui allude metaforicamente anche il titolo, è l'approssimarsi inesorabile dell'ultima meta, come «un pas, / u s mór 'na vólta sno, l'è un cambiamént / da e' dè a la nòta, ècco, u m va bén acsè / mu mè, da e' dè a la nòta, / ch' l'à da ès un spavént, ta t svégg te schéur» ("un passo, / si muore una volta sola, è un cambiamento / dal giorno alla notte, ecco, mi va bene così / a me, dal giorno alla notte, / che deve essere uno spavento, ti svegli nel buio", in E' divèri, p.99). E quello "schéur", che in E' solitèri rappresentava il fallimento degli strumenti della ragione di fronte al tentativo di comprendere la realtà con cui relazionarsi, e che in Furistír celava il nulla in cui erano immersi i personaggi, ora è diventato metafora del colore della vita[48] che, raggiunta dall'autunno nebbioso[49], dall'ora tarda[50], definitivamente sconfitta e senza speranze, attende la notte dell'inverno estremo.

«Forma primogenita di Baldini» [Mengaldo 1995 : XII], il monologo da E' solitèri fino a Ad nòta, passando attraverso La nàiva e Furistír, formalmente si è completamente liberato attraverso un percorso evolutivo. Infatti, quel tipo di testi definiti "distesamente illustrativi", che già in Furistír si rilevavano in netta diminuzione numerica, ora risultano quasi del tutto scomparsi. Se si eccettua il caso di E' béus, monologo ancora ordinatamente "pausato", solo pochi testi si configurano quali ibridi epigoni di quel tipo formale. Si tratta di E' pòst, E' bal, Nèbia, Me chiosco, che, sebbene "non pausati", si svolgono su ritmi narrativi rallentati da sindesi non infrequenti; poi di Tv, Ès sgnòur, Al fòi, Grand Hotel, Nadèl, che, nonostante la prevalenza asindetica, si dispiegano attraverso non lunghe elencazioni dettagliatamente descrittive. Ancora presenti, invece, le "liriche brevi", quelle minime condensazioni narrative di brandelli di esistenza: E' mònd, A n' e' so, L'éultum sedéili, I mórt, Brótt, Te fòuran, La vciaia. Ma la novità maggiore diffusa in tutta la raccolta, dal punto di vista formale, risiede nello scioglimento del testo in un fluire verbale apparentemente imprevedibile, ma, come sempre, condotto dall'autore con estrema abilità e precisione nel dosaggio di tutti gli elementi testuali (semantici e formali, ritmici e fonici). Quanto è vicino ora il monologo a quello che in Furistír presentava le novità formali più rilevanti, considerate nel precedente capitolo di questo scritto, tanto è lontano da quella struttura "a catena" prevalentemente chiusa su cui si costruiva la maggior parte dei testi di E' solitèri. Infatti ora mancano completamente quegli originari esordi bonariamente sentenziosi da eprigamma gnomico. Il monologo, come sempre, segue la direzione impressagli dal "senso" della storia, che dal punto di vista dell'organizzazione testuale risulta ancora vettore più che risultato. Ma, accogliendo il «disordinato, franante, ansimante fluire» [Brevini 1996 : 35] di un parlato che, ai limiti dell'irrazionale, è registrato con oltranza mimetica, l'itinerario ora procede apparentemente casuale e sciolto da «ogni componente diegetica» [Brevini 1996 : 35]. Come ha scritto Mengaldo, il monologo, nelle misure lunghe ora sistematicamente "non pausato", si dispiega lungo un percorso che va «dall'impurità alla purezza, dall'oscuro al limpido, dall'intasato allo sgombro» [Mengaldo 1995 : XV], e che ha nella breve storia de La ciavga «un emblema, probabilmente inconsapevole, di questo procedere artistico» [Mengaldo 1995 : XVII]. Ha rilevato, poi, Brevini che a questo meccanismo a livello tematico ne corrisponde uno analogo a livello metrico. Come di consueto il poeta scandisce la versificazione nelle compatte misure dell'endecasillabo alternato a settenario, e più raramente a quelle intermedie o minori, ottenendo «i felicissimi effetti di contrappunto tra misura e sostanza fonica lucidamente descritti da Mengaldo» [Brevini 1996 : 35]. E, allora, la poesia di Baldini «non consiste in altro che nel reiterato tentativo di imporre una forma a ciò che è informe: una griglia metrica al flusso del parlato e un progetto alla rovinosa caduta dei giorni. Da una parte l'aspirazione a un progetto, a un ordine che illumini l'esistenza, dall'altro il frammento e la dissipazione» [Brevini 1996 : 35].

 

 

 

              Oltre ad avere già ottenuto autorevoli avalli dalla critica più illustre, la produzione letteraria di Raffaello Baldini ha riscosso consensi scanditi da alcuni importanti premi letterari: il Dattero d'argento del Salone Internazionale dell'Umorismo di Bordighera è assegnato a Autotem, il Premio Gabicce 1977 a E' solitèri, il Premio Carducci 1982 a La nàiva, il Viareggio 1988 a Furistír, e infine lo storico Bagutta 1996 a Ad nòta.

La poesia in dialetto presenta molte difficoltà, non ultima la sua intelligibilità. Eppure proprio la mia esperienza di laurenda calabrese dimostra che una poesia di grande valore sa imporsi di là dai limiti linguistici. Al termine di questo lavoro non posso che auspicare che siano in molti a non lasciarsi intimorire dalle difficoltà del dialetto santarcangiolese. Lo sforzo per penetrarne la non facile lettera sarà ampiamente ripagato da un risultato di poesia che si colloca ai vertici delle esperienze contemporanee.


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1919              La biójga («La biolca». "La canzone del biolco romagnolo"), Edizioni del Plaustro, Forlì.

1926              La Madunê («Era l'offerta alla Madonna che, secondo il rito religioso, la gente del contado deponeva sui gradini dell'altare maggiore sotto forma di primizie»), Mondadori, Milano.

1930              Fior'd radecc («Fiori di radicchio»), Zanelli, Forlì.

1932              A vella Glori («A villa Glori»), a cura di un gruppo di amici romagnoli, Milano.

1936              La ciuzzetta («La chioccetta, nome contadino della costellazione delle  Pleiadi»), Milano.

1939              E' stardacc («Lo strillozzo»), Fratelli Lugre, Faenza.

1949              Biset («Bigello». "Tessuto romagnolo di mezza lana; ordito di canapa e battuto di lana mista mezza bianca e mezza nera"), Garzanti, Milano.

1955              E' sarnèr («Il serenario». "Vento che reca il sereno"), Il Belli, Roma.

1956              Sciarpa nigra («Cravatta a svolazzo»), Edizioni La Piê, Forlì.

1961               Poesie in volgare di Romagna, premessa dell'autore, Garzanti, Milano.

1966              Mintàstar («Mentastro»), Garzanti, Milano.

1969              Cùdal («Zolle»), Garzanti, Milano.

1971              Pampna («Pampini»), Garzanti, Milano.

1975              Tutte le poesie in volgare di Romagna, premessa di S.Zanotti, edito da Garzanti per conto delle Casse di Risparmio di Forlì e Ravenna, Milano.

 

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1964              Al spigh in i pinsir («Le spighe nei pensieri»), Il nuovo Cracas, Roma.

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[1] Il più convinto sostenitore della tesi dell’influsso delle lingue del sostrato preromano sulla formazione dei dialetti italiani, di matrice ascoliana, è Clemente Merlo. Egli asserisce infatti: “il problema delle lingue romanze è soprattutto un problema etnico”  ( Il latino nelle province dell’Impero e il problema delle lingue romanze [Merlo 1959 : 7]). Altri come il Rohlfs, pur non negando certamente il valore dei sostrati e quindi delle reazioni etnico-linguistiche ai fini della formazione dei dialetti moderni d’Italia, ne ha ridimensionato la portata [G. Rohlfs 1972]. Mentre lo Schürr [Schürr 1933 : 203-228], considerando il periodo dell’invasione dei Longobardi, che dal 568 d.C. si insediarono in vaste zone dell’Italia, di importanza grandissima nella formazione dell’Italia linguistica e in particolare del dialetto romagnolo, cioè della Romània dell’Esarcato bizantino di Ravenna, VI-VIII sec. d.C., si oppone esplicitamente alle tesi del Merlo. Quest’ultimo infatti ritiene i Celti, calati in Italia tra il V e il IV sec. a.C., responsabili della formazione dei dialetti settentrionali, e il fenomeno dell’a palatalizzata, tanto diffuso nelle parlate odierne settentrionali e particolarmente nel romagnolo, sarebbe, con l’Ascoli, “ l’acutissima tra le spie celtiche”, in L’invasione dei Celti e le parlate odierne dell’Italia Settentrionale [Merlo 1959 : 173-178].

 

[2] Per il concetto di sostrato, formulato già da Carlo Cattaneo (1801-1869) e usato da Bernardino Biondelli (1804-1886), poi rinnovato da Graziadio Isaia Ascoli nei termini scientifici della nascente dialettologia italiana, e rimaneggiato nelle ricerche dialettologiche post-ascoliane, si veda Cenni di storia della dialettologia italiana [Grassi; Sobrero; Telmon 1997 : 33-69].

 

[3] D. Gambarara in Una nota sul mutamento nella storia linguistica d’Italia, in Italia linguistica: idee, storia, strutture  [Albano Leoni, Gambarara, Lo Piparo, Simone, (a cura di) 1983 :247-267] scrive: « La convergenza è la fase [sociolinguistica]in cui gruppi ( e circuiti comunicativi e varietà linguistiche ) separati si saldano in una nuova comunità ( e in un nuovo sistema idiomatico ). Una varietà assume il ruolo di lingua comune - funzione alta in una comunità organica - ed occupa gli usi formali. [.....]. La divergenza è la fase in cui sottogruppi di una comunità innescano dinamiche sociali autonome, e le varietà che componevano l’idioma cessano di essere considerate varianti della stessa lingua e di interagire tra loro.» ( pag.251 ). 

 

 

[4] L’importanza della partizione amministrativa dioclezianea ai fini linguistici per l’Italia fu sottolineata dal Bartoli in Saggi di linguistica spaziale, Torino, 1945, pp.108-109. [G.Vidossi 1956 : XXXVIII].

 

[5] « Il termine superstrato mette capo al Bartoli (« Archivio glottologico », XXV, 1931-1933, p.32) e al von Wartburg ( vedi Ausgliederung, p.155,n. ),che ha più d’ogni altro studioso dato  rilievo alla parte che spetta al superstrato nelle alterazioni linguistiche » [G. Vidossi 1956 : XXXVII, nota 3].

 

[6] Lo dichiarano quasi concordemente le voci della cultura italiana che si levano partecipando alla polemica sulla “nuova questione della lingua” sollevata dalle affermazioni di Pasolini del ’64 su una nascente lingua tecnologica e neocapitalistica. [Parlangeli (a cura di) 1971].

 

[7] G.B. Pellegrini. Tra lingua e dialetto in Italia ( Comunicazione tenuta il 5 giugno 1959 a Trieste nella sezione di Glottologia e Filologia durante la « 47ª Riunione della Società italiana per il Progresso delle Scienze »), [Pellegrini 1975 : 11-54].

 

[8] « Da un punto di vista storico-geografico non esiste fino al tardo Quattrocento se non una letteratura toscana con appendici e colonie, le più tutt’altro che obbedienti e stabili, nel Veneto, in parte dell’Emilia, nelle Marche e nell’Umbria » [Dionisotti 1967 : 39]. Mancando in Italia una lingua letteraria unanimemente acquisita come egemonica, il toscano non risonava sempre più proprio del latino o del francese o di qualunque altro volgare d’Italia, con cui pure si continuava a fare letteratura. Nonostante l’eccezionalità delle esperienze di Dante Petrarca e Boccaccio, l’amplissima eco che ebbero oltre i confini toscani, il prestigio economico e sociale goduto da Firenze, e la prossimità del toscano al latino, la colonizzazione letteraria toscana incontra ostacoli fino alla soluzione bembesca della cinquecentesca questione della lingua.

 

[9]  Sul significato di “dialetto” in prospettiva diacronica e sul concetto moderno si confronti: M. Alinei, « Dialetto »: un concetto rinascimentale fiorentino [Alinei 1984 : 169-199], e M. Cortelazzo, Avviamento critico allo studio della dialettologia italiana, vol.I: Problemi e metodi, Pacini, Pisa, 1969, pp.9 ss.

 

[10] A. Stussi, in Lingua e dialetto nella tradizione letteraria italiana: teoria e storia [Stussi 1993 : 3-28],   così scrive: « Tuttavia la distinzione tra uso spontaneo e uso riflesso del dialetto era stata chiarita occasionalmente ben prima del 1926 » (p.13), e cita il caso di Bernardino Biondelli che nel 1853, nel quarto capitolo del suo Saggio sui dialetti gallo-italici, Bernardoni, Milano, 1853, p.89, dice: « Parlando di proposito delle vernacole letterature, è mestieri primamente distinguere la popolare dall’artificiale » proseguendo poi con la descrizione delle differenze. Cita poi il caso di Francesco Lorenzo Pullè che, nel 1891, nelle pagine introduttive ai Testi antichi modenesi dal secolo XIV alla metà del secolo XVII, Romagnoli, Bologna, 1891, p.XV, aveva già scritto « tutto l’essenziale sulla questione che Croce avrebbe in seguito affrontato.[...]. Basterà sottolineare, a parte la corrispondenza con la terminologia poi entrata nell’uso ( spontanea - riflessa ), l’esatta definizione del rapporto tra la letteratura dialettale riflessa e la letteratura nazionale collocando l’inizio del fenomeno nel primo Cinquecento » (p.14).

 

[11]Si riproduce qui lo schema tracciato da Brevini [Brevini 1990] sulle due funzioni dominanti del dialetto nella letteratura del passato, ( cap.I, Dal comico al sublime ).

[12]D.Astengo, Una lettera inedita di V.Giotti a Giuseppe Raimondi, in «Corriere del Ticino», 28 novembre 1987, citato da Brevini [Brevini 1996 : 436].

[13] P.P.Pasolini, nella sua esegesi della poesia tessiana, fu il primo ad attribuire al Tessa poeta “l’etichetta novecentesca” di Espressionismo, [Pasolini 1952 : LXXX].

[14] B. Marin, intervista rilasciata a «Marka», III, novembre-marzo, 1982-83, pp.108-110.

[15] Per l’estensione del territorio romagnolo così delimitato, dal punto di vista storico e glottologico, si veda [Polloni 1966 : 2]. Egli sul termine Romagna così ci informa: “dal lat. tardo: (terra) Romania o « terra dei Romani » e più propriamente « domini dei Bizantini » in opposizione a Langobardia   «terra dei Longobardi ». […]. In Occidente il lat. Romania (imperium Romanum, orbis Romanus) opposto a Barbaria, Gothia, Germania, Langobardia, ha una continuazione, fino ad oggi, nella regione attorno a Ravenna, ultimo rifugio dal sec.V del cadente impero di Roma: la Romagna”.            

[16] La recensione di D’Annunzio L’arte letteraria nel 1892. La poesia, in « Il mattino », 30 – 31 dicembre 1892, è citata nei “Documenti primi e giudizi critici”, [Pascoli 1993 : 82-83].

[17] Aldo Spallicci esercitò la professione di medico e, oltre a comporre poesie in dialetto romagnolo, si dedicò con intenso fervore alla cultura regionale fondando e dirigendo le riviste di folklore romagnolo: « E Pestapever » dal 1907 al 1911, « Il Plaustro » dal 1911 al 1914, « La Piê » dal 1920 fino al 1933, anno in cui fu soppressa dal regime fascista, e poi ripresa nel 1946. Dal regime fascista, inoltre, Spallicci fu confinato nel ’41 e nel ’43 incarcerato per reato di antifascismo. Per l’attività di folclorista di Spallicci si confronti: Folklore, dialetto, cultura regionale. A proposito di Aldo Spallicci,  [Accorsi 1982].

[18] La descrizione di Spallicci è fatta da Montale nella recensione del ’56 ai festeggiamenti a San Mauro in onore di Pascoli nel centenario della sua nascita. In tale occasione l’allora senatore Spallicci era presente come poeta romagnolo e presidente del comitato di promozione delle onoranze [ Montale 1996 : 1948-1951 ].

[19] Nelle forme di rispetto di tradizione popolare studiate da Cirese (Ragioni metriche, Palermo, Sellerio, 1988), l’opposizione tra la prima quartina e la seconda a rima baciata comporta un sistema di relazioni retoriche che ne definiscono l’articolazione interna, oltre che il semplice schema metrico: «la parte a rima baciata ha dei legami formali precisi e identificabili con la precedente, ed ha inoltre una sua chiara legge di sviluppo. Il legame è costituito dal fatto che il primo verso della seconda parte stabilisce un rapporto verbale preciso con uno dei versi della prima parte: in genere, ma non esclusivamente, con l’ultimo. Si verifica anche il fatto che il legame riguardi ambedue i versi delle coppie a rima baciata. Quanto poi allo sviluppo della ripresa, esso consiste nel fatto che ciascuna delle coppie successive ripete, variandola, la prima. Il complesso di queste relazioni tra prima e seconda parte e tra prima coppia e coppie successive è chiamato da Schuchardt  parallellismo». Si confronti P.G.Beltrami, La metrica italiana, Il Mulino, Bologna, 1994, p.294. 

[20] Citato da Renzo Cremante nella prefazione del volume [Neri 1983 : 11].

[21] La pagina estrapolata dalla premessa di Guerra è citata da Bellosi [Foschi & Pezzi (a cura di ) 1988: 18-19].

[22] Già a Bo e Contini non era sfuggita la precisione dei riferimenti topografici santarcangiolesi del mondo poetico di Guerra; Augusto Campana [AA. VV. 1976: 62-64], “l’onnisciente di cose romagnole” come è chiamato da Contini     [ Guerra 1972: 8], specifica che questi elementi topografici «si possono definire addirittura toponimi». “E’ campanòun” de La cuntrèda in Préim vérs, per esempio, è il campanile, la torre dell’orologio, la torre comunale; “al cuntrèdi” sono le Contrade, cioè la parte popolare antica del paese di Santarcangelo, quella compresa nel cerchio delle mura; “e’ pasègg”, in La morta, è il viale Gaetano Marini comunemente chiamato viale del Passeggio addobbato con piante «i cui frutti facevano puzza». 

[23] In relazione a ciò si veda l’Analisi linguistico – stilistica de “I bu” di Alfredo Stussi [AA.VV. 1976].

[24] L’insieme delle varietà di  lingua che costituiscono il repertorio linguistico medio della comunità italiana, si distribuiscono su una scala ideale che comprende il seguente elenco:

1.italiano standard (e neostandard): comprende l’insieme dei tratti linguistici unitari della lingua italiana,

2.varietà della lingua:

a)       varietà geografiche o diatopiche: sono connesse alla differenziazione geografica (italiano dell’area settentrionale, italiano di Sardegna, ecc.);

b)       varietà sociali o diastratiche: sono connesse ai diversi fattori di differenziazione sociale (differenza di età, di status sociale, grado di istruzione, ecc.);

c)       varietà contestuali  o diafasiche: sono relative a diversi fattori della situazione comunicativa (sfera di argomenti, grado di formalità, intenzione comunicativa, ecc.);

d)       varietà diamesiche: sono legate al mezzo attraverso il quale si comunica: parlato o scritto.

Per la suddetta descrizione del repertorio linguistico italiano, relativa alle varietà dell’italiano, si confronti [Grassi, Sobrero, Telmon 1997 : 160 sgg].

[25] Circa la contestualizzazione del fenomeno della poesia neodialettale, sulla base di approfondite indagini sociologiche e psicologiche, si veda La comunità solitaria di Brevini, [Brevini 1990:399-423].

[26] Si tratta del racconto La finestrina di Kafka, autore particolarmente caro a Raffaello Baldini. (F.Kafka, Racconti, a cura di E.Pocar, Mondadori, Milano, 1970, p.131).

[27] La finestrina, in Racconti di Kafka, a cura di E.Pocar, Mondadori, Milano, 1970, p.131.

[28] Già Brevini ha messo in rilievo il fatto che il "poeta santarcangiolese costruisce i suoi poèmes en prose su una figura di adiectio, nel duplice senso di ripetizione dell'uguale e di accumulazione dell'eterogeneo". [Brevini 1990 : 153].

[29] Angelo Fabi sottolinea che le indicazioni topografiche in La chéursa trovano riscontro nella realtà sebbene "disposte lungo un itinerario d'immaginazione (un'opera di fantasia non è una guida turistica!)" [De Santi (a cura di) 1994 :179].

[30] Già F.Loi [Loi 1978], in quell'articolo nel «Corriere d'Informazione» che rappresenta una delle prime testimonianze critiche su Baldini, aveva scritto: «In Baldini però la "furbizia della ragione" si ritrae contro di lui, scopre quel vuoto filosofico che ha già dato l'esistenzialismo contemporaneo sui due versanti di Heidegger - Sartre e di Kierkegaard» [Loi 1978].

[31] "Le biciclette sono scivolate nella sabbia / con i pedali in aria, / l'acqua era grande, / lucida e nera come fosse catrame, / le onde rotolavano / piano, in un sussurro, / e ci arrivavano tiepide fino ai piedi.", in E' bagn ad nòta.

[32]  ("E se era d'estate, / si vedeva nel buio della sacrestia / un raggio di sole con la polvere che ballava, / e quando uscivi all'aperto / dovevi chiudere gli occhi, / e andavi nella Bosca / con l'odore dei tigli / o sulla Mura dove veniva dal mare / un po' di brezza in faccia, / e t'arrivavano da sotto, come un orologio, / i botti di quelli che giocavano a tamburello / e da sopra, / intorno al cornicione della Collegiata, / gli stridi delle rondini.", in L'asoluziòun.

[33] L'esordio da epigramma gnomico è un modo non infrequente in Baldini di dare inizio al testo.

[34] L'analisi delle modifiche apportate da Baldini ai testi di E' solitèri, nel passaggio dalla prima alla seconda edizione, qui esposta si rifà alle ricerche di Stussi in La letteratura romagnola : appunti filologici e linguisti [Stussi 1993 : 197-213].

[35] Nel suo saggio La coazione poetica in un labirinto romagnolo, Bocchiola scrive :«Se però si considerano E’ solitèri e La nàiva insieme, e si mettono l’una di fronte all’altra, si avverte che la duplicazione è calibrata su assi tematici ben definiti, che tagliano l’opera di Baldini secondo tipologie narrative più sottili e differenziata portando la prima raccolta a specchiarsi nella seconda, e a venirne riflessa con molta fedeltà» [Bocchiola 1985 : 43].

[36] “gli faccio vedere la voglia che ho sul collo, / il dito piccolo senza l’unghia / per un patereccio quand’ero bambino, / sono io, non si può sbagliare, che un altro momento / m’affogavo nella gora della Rancaia, / dovevo avere sedici anni, / poi soldato a Sacile quando ho visto / la «Norma» e il «Rigoletto» che nel teatro / dalla gente non ci si stava, / dopo ho fatto il manovale in ferrovia, / e quella domenica, stai buono, a Villagrande, / o è stato al Ponte dell’Uso? Non mi ricordo più, / che ho tirato su un cavedano / più grosso di questo braccio, / un animale di quella fatta non l’ho mai visto, / tirava come un bue, / hai capito?”).

 

[37] “però sei lì che da un momento all’altro / ti pare come se debba succedere qualcosa, / te lo senti, tieni gli occhi fissi, / non ne puoi più, conti fino a dieci, ci siamo, / non succede niente.”.

 

[38]  “la Fiorona prega, / dice un Pater doppio, Pater Pater, / noster noster, qui es in coelis, qui es in coelis, / la sua figlia brontola: «Ma dormite!», / lei va avanti: «Prego anche per te». / «Ma cosa avete, con quella faccia spaventata?», / «E’ un’aria che non mi piace, non senti che ferma?».

[39] Come ha già messo in evidenza Brevini [Brevini 1988 : VIII], in tutta l’opera poetica di Baldini è caratteristica la circolazione intertestuale di «luoghi e persone» ricorrenti e strettamente legati all’effettiva realtà paesana di Santarcangelo. A questo proposito si rimanda, inoltre, al saggio Nomi, soprannomi, toponimi nella poesia di Raffaello Baldini di Angelo Fabi [G. De Santi (a cura di) 1994 : 171-183]. Ancora una volta non è inopportuno legare il nome di Baldini a quello di Tessa. La circolazione intertestuale di nomi propri di luoghi e di persone è, infatti, una peculiarità anche della scrittura del milanese. Anzi, in quest’ultimo tale intertestualità comprende contemporaneamente l’opera poetica e le prose di Ore di città (negli scritti tessiani per esempio vengono ospitati più volte personaggi familiari all'autore come la signora Antonietta Gussoni e l’ingegnere Pier Giorgio Vanni).

[40] Le parole “gente” e “facce” nell’ambito di questa raccolta risultano, data l’occorrenza, semanticamente cariche. Analogamente, quelle stesse nella scrittura di Tessa risultavano parole – chiave di valenza tematica affine.

[41] Come visto, una caratteristica atmosfera kafkiana aleggia con una certa frequenza nella poesia di Baldini. La citazione è tratta ora dal racconto Essere infelici, in F.Kafka, Racconti, a cura di E.Pocar, Mondadori, Milano, 1970, p.134.

[42] Ha già scritto Brevini che il mondo della poesia di Baldini appare «popolato da personaggi che sembrano usciti da una commedia di Beckett» [Brevini 1990 : 156].

[43] Preso in prestito dalle ricerche sulla psicologia del linguaggio di J. Piaget, "monologo collettivo" è definito quella manifestazione del linguaggio, detto "egocentrico", in cui avviene il coinvolgimento degli altri nell'azione verbale ma senza il fine della comunicazione. A tale riguardo si confronti Il linguaggio in R.Canestrari, Psicologia generale e dello sviluppo, vol.I, CLUEB, Bologna, 1984, pp.305-325.

[44] Precedentemente solo in un caso Baldini non aveva fatto coincidere all'interruzione interstrofica quella frastica, e precisamente in uno di quei monologhi detti soliloqui: Cuntantès di E' solitèri.

[45] Ha rilevato Brevini, inoltre, che la poesia di Furistír è «meno raccontata e più parlata. Le cose, invece di essere descritte, semplicemente accadono. Il dato stilistico più vistoso di questo libro in presa diretta sulla trama degli avvenimenti è il massiccio ricorso ai ritmi e alle cadenze dell'oralità, con un impegno mimetico da trascrizione magnetofonica.» [Brevini 1988 : VI].

[46] «Nelle pause del suo lavoro / curava in un campo quasi arido / un piccolo allevamento di lumache, / molluschi che hanno paura dell'acqua. / Le metterai vive -mi disse- / in un infuso di latte e segale / e quando sono ben nutrite, cuocile.» [Cucchi & Giovanardi (a cura di) 1996 : 559].

[47] «Più vile di un lupanare / la macelleria firma come un affronto la strada. / Sopra la porta / una cieca testa di vacca / presiede la tregenda / di carne sgargiante e marmi finali / con la remota maestà di un idolo.», in J.L.Borges, Tutte le opere, vol.I, (a cura di Domenico Porzio), Mondadori, Milano, 1984, p.41.

[48] «l'è cm' u s smurtéss al luci, a n vèggh piò lómm, / pu gnénca, u n'è ch' séa schéur, / l'è tótt culòur dla zèndra, / l'è tótt cumpàgn, quèll che suzéd suzéd» ("è come se si spegnessero le luci, non ci vedo più, / poi neanche, non è che sia buio, / è tutto color cenere, / è tutto uguale, quel che succede succede", in I travès, p.40), e «si ucèl l'è 'nca piò schéur!» ("con gli occhiali è anche più buio!", in I ucèll, p.15), e ancora «mo zènd la luce, l'era schèur cumpàgn» ("ma accendi la luce, era buio uguale", in Nadèl, p.106).

[49] «pu a vagh, l'aria la s móv, / e' casca do tre fòi, óna la s pòunsa / da zétt, se tavuléin, vsina e' bicìr» ("poi vado, l'aria si muove, / cadono due tre foglie, una si posa / in silenzio, sul tavolino, vicino al bicchiere", in Me chiosco, p.112).

[50] «"Fértmi un mumént, Fafìn, che or' èll?" "L'è tèrd", / "O capéi, mo che or' èll?", "A t l'ò pò détt, / l'è tèrd", " Mo che oura ch' l'è?", "L'è sémpra tèrd, / e piò ch' ta la fé lònga e piò e' vén tèrd"», ("«Fermati un momento, Fafìn, che ore sono?», «E' tardi», / «Ho capito, ma che ora è?», «Te l'ho pur detto, / è tardi», «Ma che ore sono?», «E' sempre tardi, / e più la fai lunga, più viene tardi»", in Che or' èll?, p.115).