DIALETTIINTESI

Concorso per la premiazione delle migliori tesi dedicate alla tutela e alla valorizzazione dei dialetti emiliano-romagnoli

 

Vol. 1

 

 

 

Cristina Fiandri

 

 

 

ITALIANO E DIALETTO A CONTATTO:

ASPETTI DEL MUTAMENTO DEL DIALETTO

A SASSUOLO (MODENA)

 


Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emlia-Romagna

 

 

via Galliera, 21 Bologna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

pubblicato nel mese di marzo 2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Copyright

creative commons

 


Dialetti·in·tesi

 

Concorso per la premiazione delle migliori tesi volte alla tutela e valorizzazione delle realtà dialettali emiliano-romagnole

 

Nel quadro del programma regionale annuale (2009) di attuazione degli interventi connessi alla L.R. 45 del 7 novembre 1994 “Tutela e valorizzazione dei dialetti dell’Emilia-Romagna”, l’Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna (IBACN) ha promosso un bando di concorso finalizzato alla premiazione delle migliori tesi, scritte in lingua italiana, dedicate alla dimensione dialettale emiliano-romagnola e discusse tra il 1994, anno di pubblicazione della legge succitata, e il 2009, anno in cui la Giunta della Regione Emilia-Romagna, con proprio atto rep. 2348 del 28 dicembre 2009, ha approvato il programma sopraindicato.

Le tesi, come previsto dal bando, potevano approcciare la materia vernacolare secondo molteplici prospettive: letterarie, storiche, storico-letterarie e linguistico-filologiche.

Le domande di partecipazione dovevano pervenire entro il 15 ottobre 2010. L’elevato numero di domande pervenute -in numero complessivo di quattordici- ha confermato l’attenzione profonda e tutt’altro che episodica per un tessuto linguistico che, oggi più che mai, abbisogna di un concorso di forze, provenienti tanto dalle istituzioni quanto dai singoli cittadini e da tutti i gruppi variamente costituiti sul territorio, orientato ad un’azione di tutela e rilancio dei dialetti, che rappresentano un segno imprescindibile della nostra identità.

Riportiamo di seguito le tesi presentate:

“Attraverso la cultura popolare e letteraria del dialetto reggiano: toni, generi, forme” di Maria Teresa Pantani;
“Bilinguismo e diglossia a Rimini. Un’indagine sul campo” di Fabrizio Colonna;
“Bilinguismo e dilalia a Sala Bolognese. Una ricerca sul campo” di Giacomo Govoni;
“Folklore e dialetto in Olindo Guerrini, Giovanni Pascoli, Tonino Guerra e Libero Riceputi” di Valentina Forlivesi;
“I dialetti di Santarcangelo e della vallata della Marecchia a monte di Santarcangelo” di Rino Molari;
“Il dialetto di Fiumalbo (MO): descrizione fonetica di una varietà linguistica di confine” di Michele Colò;
“Il lessico della canapicoltura nel territorio di San Cesario s/P (MO)” di Chiara Maccaferri;
“Italiano e dialetto a contatto: aspetti del mutamento del dialetto a Sassuolo” di Cristina Fiandri;
“L’esperienza poetica di Gianni Fucci e la tradizione della poesia romagnola” di Gabriele Della Balda;
“La poesia di Raffaello Baldini” di Ida Zicari;
“La variazione sociolinguistica: analisi degli usi linguistici a San Prospero (Modena)” di Alice Cavallini;
“La vicenda letteraria di Giuliana Rocchi” di Cinzia Lisi;
“Le Lettere di Lorenzo Foresti a Francesco Cherubini (1838-1843). Edizione, commento e studio” di Sara Rizzi;
“Tecniche e cultura materiale: tradizioni alimentari a Monterenzio” di Annalisa Marzaduri.

I lavori sono stati esaminati e valutati con parere insindacabile ed inappellabile da una commissione appositamente costituita. La commissione giudicatrice ha valutato gli elaborati sulla base dei seguenti criteri:

 

ü       rigore scientifico della ricerca e coerenza interna dell’elaborato;

ü       tutela e valorizzazione dei dialetti emiliano-romagnoli;

ü       attenzione allo stile e padronanza dei contenuti e del vocabolario tecnico.

Le tesi presentate hanno mostrato la copertura di ampie zone del territorio regionale: in particolare, si sono concentrate sulle province di Modena, Bologna, Forlì-Cesena e Rimini. Inoltre, le differenti angolature da cui gli autori hanno interrogato la realtà linguistica locale ci mostrano una ricchezza e un’originalità nei percorsi che gettano una luce vivida sulla complessità e sulle innumerevoli sfaccettature in cui si articola questa realtà.

I tre lavori più meritevoli sono stati premiati secondo la seguente graduatoria:

ü       1° posto: Euro 1.000,00;

ü       2° posto: Euro 500,00;

ü       3° posto: Euro 250,00.

 

La commissione ha esaminato i lavori e alla fine ha deciso per le seguenti premiazioni:

 

·         1° posto: tesi “Italiano e dialetto a contatto: aspetti del mutamento del dialetto a Sassuolo” di Cristina Fiandri: l’autrice ha compiuto una ricerca approfondita e pressoché esaustiva, coniugando l’acribia e il rigore scientifico dello studioso nell'individuazione e nell'esame dei materiali con la qualità della forma linguistica e stilistica;

 

·         2° posto: tesi “Bilinguismo e dilalia a Sala Bolognese. Una ricerca sul campo” di Giacomo Govoni: l'autore ha dimostrato di saper utilizzare le più aggiornate metodologie offerte dalla sociolinguistica per tracciare un profilo preciso della situazione linguistica attuale nel territorio di Sala Bolognese, offrendo al tempo stesso un esempio di ricerca che può essere esteso ad altri territori;

 

·         3° posto: tesi “La poesia di Raffaello Baldini” di Ida Zicari: l'autrice ha illustrato dettagliatamente l'opera di uno dei più importanti poeti italiani del secondo Novecento, evidenziando il rapporto tra il dialetto e lo stile orale che caratterizzano l'opera di Baldini e le tematiche da lui trattate.  

 

 

Inoltre, come recita il verbale della commissione “Due delle tesi succitate -quella di Cinzia Lisi e quella di Rino Molari- sono state escluse dal concorso rispettivamente per l’arrivo in IBACN oltre la scadenza indicata dal bando, e per la discussione all’università al di fuori dell’arco temporale menzionato nel bando. Tuttavia meritano di essere segnalate, la prima (quella di Cinzia Lisi) per aver affrontato lo studio di un'autrice dialettale di estrazione popolare di singolare originalità, la seconda (quella di Rino Molari) in quanto si tratta di una tesi di interesse "storico", che illustra la situazione dialettale nell'area santarcangiolese negli anni Trenta del Novecento.”

 

              Con la speranza che l’attenzione verso l’universo dialettale della nostra regione possa continuamente rigenerarsi secondo nuove forme stimoli ed indirizzi, vi invitiamo alla lettura delle tesi vincitrici.

 

 

Alessandro Zucchini

          Direttore dell’IBACN



Università degli Studi di Bologna

                                    FACOLTA DI LETTERE E FILOSOFIA

                                        Corso di Laurea in Lettere Classiche

 

 

 

 

     ITALIANO E DIALETTO A CONTATTO:

 

                                   ASPETTI DEL MUTAMENTO DEL DIALETTO

 

                                                    A SASSUOLO (MODENA)

   

  Tesi di Laurea in Dialettologia Italiana

 

RELATORE:                                                                                                     Presentata                                                                  PRESENTATA

 

Chiar.mo Prof.                                                                                                                 da:

 

 

Bruna Badini                                                                                           Cristina Fiandri

 

 

 

 

                              Sessione II

 

 

 

Anno Accademico 1997 – ‘98

 




CAPITOLO PRIMO

 

 

Prima di affrontare l'analisi della fenomenologia del contatto tra lingua e dialetti, ci sembra opportuno chiederci in base a quali criteri, in uno stesso repertorio, costituito da due sistemi o varietà linguistiche in relazione tra di loro, si assegni lo status[1] di lingua e quello di dialetto.

Berruto afferma che (1995:224) "in base alle sole caratteristiche linguistiche, non è possibile dire se un certo sistema linguistico o varietà linguistica X è una lingua o un dialetto (anzi la questione dal punto di vista linguistico interno, non ha senso)". Da questo punto d'osservazione, infatti, i due codici si equivalgono, essendo entrambi sistemi linguistici completi ed autonomi con un loro sistema fonetico/fonematico, delle regole morfologiche e sintattiche ben precise, ed un loro lessico esclusivo; inoltre, come evidenzia ancora Berruto (1995:224), "non vi sono differenze di natura; essi condividono in uguale misura le proprietà semiologiche costitutive di ogni sistema in quanto tale" .

I “criteri di dominanza" (secondo l'accezione di Weinreich 1974) che qualificano le varietà in gioco, assegnando ad una varietà lo status di "lingua" e alle altre quello di "dialetti", sono necessariamente di natura extra linguistica e sono costituiti dalle funzioni sociali nel tempo assegnate a quella particolare varietà. Esse si ricavano dalla definizione che del termine lingua è data da Berruto (1995:215): "Una lingua è ogni sistema linguistico socialmente sviluppato, che sia lingua ufficiale o nazionale in qualche paese, che svolga un'ampia gamma di funzioni nella società, che sia standardizzata e sia sovraordinata ad altri sistemi linguistici subordinati eventualmente presenti nell'uso della comunità (che se sono imparentati geneticamente con essi saranno i suoi 'dialetti')".

In base alla definizione una lingua deve essere innanzitutto un codice "socialmente sviluppato'' cioè deve essere parlato ed utilizzato da tutte le classi sociali e in particolare dalle classi più alte così da porsi come codice di prestigio a cui le classi più basse aspirano per ottenere promozione e riconoscimento sociale. In secondo luogo deve essere "lingua ufficiale e nazionale con un'ampia gamma di funzioni nella società", con tutto ciò che ne deriva: la legittimazione politica, la standardizzazione attraverso manuali di riferimento, la diffusione scolastica, l'altissimo valore comunicativo (la lingua ricopre e raggiunge un raggio demografico molto ampio), la funzione di modello di riferimento, la funzione unificatrice (in quanto veicolo di comunicazione sovraregionale) e nello stesso tempo separatrice (perché strumento in cui un membro di una nazione si identifica, unendosi con altri connazionali e nello stesso tempo si distingue da altri stati nazionali). Infine, la definizione afferma che un codice in quanto lingua è sovraordinato ad altri sistemi linguistici con un minor raggio funzionale e una minore risonanza.

Si entra così nel merito della nozione di dialetto: in via preliminare si possono definire dialetti (Berruto 1995:223) "le varietà linguistiche definite nella dimensione diatopica (geografica) tipiche e tradizionali di una certa regione, area o località". Il tratto peculiare che li contraddistingue è l'uso limitato ad aree geografiche particolari; in quanto tali non sono mai varietà standard pur potendo godere di un certo grado di standardizzazione e codificazione, hanno una diffusione limitata nello spazio, sono entità linguistiche necessariamente legate all'esistenza di una lingua, quindi eteronome e funzionalmente subordinate.

Questo non significa però che una proprietà definitoria della nozione di dialetto sia quella di essere parlato da gruppi socialmente inferiori. Si tratta in effetti di uno dei caratteri che spesso in molte comunità co-occorrono con la dialettofonia, come risultato di ragioni storiche e dinamiche sociolinguistiche, ma che non hanno pertinenza per distinguere concettualmente la nozione di dialetto. Allo stesso modo vengono correntemente attribuiti al dialetto, come proprietà definitorie, anche altri due caratteri dello stesso genere i quali in realtà, non costituiscono altro che "concrezioni esteriori venutesi ad identificare col dialetto in quelle particolari condizioni storico sociali" (Berruto 1995:225);essi sono da una parte, la natura orale del dialetto e la sua limitazione ai soli usi parlati e, dall'altra, la sfera prevalentemente o esclusivamente familiare e confidenziale del suo impiego. Questi elementi confermano la relatività del concetto di dialetto, i cui valori assunti di volta in volta nei singoli repertori, in rapporto alle altre varietà che vi coesistono, sono multiformi e variegati e, come puntualizza ancora Berruto "possono variare anche di molto rendendo così impossibile una concezione unitaria a questo livello di  generalizzazione" (1995:225).

In conclusione, rispondendo al quesito che ci siamo posti all'inizio, sono le effettive condizioni dell'uso fatto dei due codici che ne sanciscono lo status e la dominanza: in base a questi criteri in una situazione di contatto è la lingua che si pone come codice dominante[2] sui dialetti che saranno sempre irreversibilmente[3] subordinati ad essa.

 

Considerando queste definizioni e concetti teorici in riferimento alla situazione attuale italiana, possiamo rilevare che l'italiano oggi si pone certamente come codice dominante rispetto ai dialetti in quanto possiede tutti i caratteri e il prestigio propri di una lingua comune: gode di uno status socio politico culturale riconosciuto dallo stato, ha una codificazione affermata ed una tradizione letteraria consolidata, e un raggio di fruizione a livello nazionale. E' la storia stessa, come ricorda Grassi, che si fa garante di questi requisiti in quanto l'italiano nasce per assolvere questa funzione unificante "accanto alle parlate locali e in sostituzione dei volgari proprio per consentire gli scambi culturali ed economici tra comunità sociali distanziate geograficamente e come strumento indispensabile all'assetto amministrativo delle nuove entità territoriali che in epoca moderna si sono costituite intorno agli Stati nazionali "(1993:280).

Dall'altra parte 'i dialetti italiani' (e non dell'italiano' secondo quanto afferma Coseriu, perché rientrano nella categoria dei cosiddetti “dialetti primari”[4] rimangono oggi il codice di minor prestigio e con minore peso sociale e il loro uso è limitato alla comunicazione primaria, quella quotidiana e ai contesti più informali.

E' importante evidenziare, in ogni modo, che tra italiano e dialetti a partire dal momento storico in cui si è avuta una netta assegnazione di funzioni all'una e agli altri, si sono instaurati rapporti dinamici di contatto e di subordinazione spesso nuovi che hanno portato a diverse modificazioni ed evoluzioni nel repertorio linguistico della comunità italiana.

 

Come abbiamo già fatto notare, italiano e dialetto nel loro plurisecolare contatto non hanno mai creato rapporti fissi, monolitici ed immobili ma hanno dato luogo, nel tempo, a sempre diverse configurazioni qualitative di collocazione reciproca nel repertorio, a causa della loro evoluzione nello status e nelle funzioni ( a loro volta condizionate dalle differenti condizioni e istanze sociali ed economiche del paese). Volendo partire dal periodo dell'unità d'Italia, possiamo brevemente tracciare con Durante (1979) e Sobrero (1992:28-29) le tappe diacroniche fondamentali del rapporto e individuare i vari tipi di repertorio in cui i due codici via via si sono organizzati secondo linee direttrici che si ripetono con una certa costanza nel paese, senza dimenticare che in realtà, a seconda della diversa distribuzione sociolinguistica delle aree italiane, le situazioni da luogo a luogo si sono evolute autonomamente. Nell'arco cronologico indicato sono state distinte quattro fasi successive: (a) prima dell'unità d'Italia, (b) tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, (c) la metà del Novecento, (d) il periodo attuale. 

a) La situazione dell’Italia linguistica prima dell'unità d'Italia (all'interno di un contesto politico molto frammentato ed eterogeneo e un quadro economico-culturale molto sconfortante), si può definire di generalizzata diglossia: con questo concetto, mutuato dalla sociolinguistica, si vuole indicare "una situazione linguistica relativamente stabile in cui, oltre ai dialetti principali della lingua c'è una varietà sovrapposta assai divergente, altamente codificata (spesso grammaticalmente più complessa), veicolo di una letteratura scritta ampia e prestigiosa, di un periodo precedente o di un'altra comunità linguistica, che è appresa ampiamente con l'educazione formale ed è usata per la maggior parte di situazioni scritte e parlate formali, ma non è usata da alcun settore della comunità per la conversazione ordinaria" (Sornicola 1977:45)[5]. Personalizzando e adattando la definizione alla realtà nostrana, il repertorio della comunità linguistica italiana, in questa fase, è costituito da una parte dall'italiano, varietà alta, e lingua sovrapposta, dotata di maggior prestigio, che, al di là della Toscana e del Lazio, è appreso solo a scuola da un esiguo numero di persone appartenenti alla classi sociali più elevate ed è utilizzato quasi esclusivamente come strumento della comunicazione scritta e negli ambiti più formalizzati della comunicazione orale. Dall'altra parte, invece, il dialetto locale (o meglio i diversi dialetti locali) rappresenta la varietà bassa, conosciuta dall'intera comunità, e adottata nella comunicazione primaria propria quindi "della famiglia e della strada, del lavoro e dell'osteria, del municipio e della filanda"(Sobrero 1992:28). A causa di questa netta compartimentazione degli usi e delle funzioni e del differente peso sociale che essi sostengono e,che è ad essi attribuito, i due codici hanno pochi motivi e possibilità di venire in contatto reciproco; per questo raramente e solamente in base a specifiche coordinate sociolinguistiche, si incrociano o si influenzano a vicenda.

b) Tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, il quadro della comunità linguistica italiana comincia a cambiare: si può parlare infatti, di una compresenza di bilinguismo e diglossia; come ci ha illustrato per primo De Mauro (19670)[6]: si verificano, in questo periodo, fondamentali cambiamenti della società italiana che hanno altrettanti fondamentali ripercussioni sulla distribuzione delle competenze linguistiche: la diffusione dell'alfabetizzazione, l'intensificazione degli scambi e delle comunicazioni tra regioni sia a livello economico sia culturale, il servizio militare obbligatorio, l'industrializzazione, il commercio. "Fondamentale poi -secondo Durante (1979:21-22)-, è la crescita di una classe di imprenditori , tecnici, commercianti, burocrati, insomma la media borghesia, che già da secoli aveva un ruolo preponderante in altre nazioni europee. La borghesia, anche se pratica il dialetto nei rapporti confidenziali, abbisogna di una lingua media di più vasta portata, sia per i suoi traffici, sia per ottenere una patente di rispettabilità sociale". Con l'accesso del ceto medio all'italiano si riduce la distanza tra lingua e dialetto poiché l'italiano non è più lingua elitaria e riservata ad argomenti elevati ma diventa codice utilizzato anche in contesti informali e più quotidiani privandosi di quella patina letteraria e dell'alone che tanto lo distingueva; tutti questi elementi, che agiscono in sinergia, si rivelano determinanti per la diffusione dell'italiano in tutto il territorio nazionale e nelle differenti classi sociali. Infatti aumenta il numero dei parlanti bilingui con competenza attiva di italiano e dialetto che alternano a seconda delle situazioni e delle circostanze ancora fortemente istituzionalizzate e convenzionalizzate (ad esempio, il dialetto in famiglia, l'italiano con il sindaco, il dialetto parlando di sé e l'italiano discorrendo di politica.). La percentuale di dialettofoni, in ogni modo, non arretra di molto anche se ora questi parlanti cominciano ad attivare l'uso dell'italiano: il dialetto è ancora diffusissimo specialmente nei centri più piccoli, e nelle aree di campagna dove il processo di italianizzazione è più lento e difficoltoso.

c) Intorno alla metà del Novecento, continua nelle diverse regioni e nei diversi strati sociali, ma con ritmi differenti, il processo dell'età precedente. Durante (1979) sostiene che è questo il momento in cui si colloca, specialmente nelle grandi città e in particolari strati della popolazione, la svolta decisiva nel rapporto tra la lingua nazionale e il dialetto; in questi anni infatti si innescano alcuni meccanismi che accelerano enormemente la diffusione della lingua nazionale: il mezzo televisivo propaga nell'intimità delle famiglie un italiano di tipo medio, in città come in campagna; la meccanizzazione dell'agricoltura porta nuove condizioni di vita nel ceto contadino, che prende ad esempio i costumi della città, quando non si urbanizza, con la conseguenza che i vernacoli rustici vanno livellandosi; l'obbligo scolastico, protratto al livello della scuola media, debella il fenomeno dell'analfabetismo di ritorno, infine la diffusione di tematiche d'interesse nazionale quali la politica, la controversie sindacali, le nuove tecnologie, l'automobilismo, lo sport spingono all'impiego della terminologia italiana. Come diretta conseguenza dell'azione di questi fattori, si verifica inoltre un fenomeno di grande valore sociale (oltre che linguistico) che segna il regresso ormai inarrestabile dei dialetti e rivoluziona una consuetudine millenaria: l'italiano viene a costituire sempre più frequentemente la lingua materna, quella della socializzazione primaria (appresa cioè fin dalla nascita) mentre il dialetto viene recuperato in varia misura attraverso i rapporti con i coetanei. Il nuovo panorama socio-culturale così delineatosi conduce i due sistemi in contatto ad organizzarsi in una nuova forma che può definirsi di "bilinguismo senza diglossia". Infatti la maggioranza della popolazione conosce e usa sia italiano che il dialetto, ma la scelta dell'uno o dell'altra non è più stabilita da criteri estrinseci (cioè legati a convenzioni sociali), bensì è lasciata al parlante in base alla situazione specifica in cui si trova e ai fattori con cui di volta in volta interagisce. I due codici vengono frequentemente in contatto influenzandosi a vicenda: subiscono modificazioni significative nelle loro strutture (con l'intensificarsi dei fenomeni di dialettizzazione dell'italiano e di italianizzazione del dialetto) e anche nel corso della stessa conversazione, essi si alternano e si incrociano a volte così intimamente da creare formazioni ibride ed enunciati mistilingui. L'italiano guadagna spazio specialmente nei contesti informali in cui il dialetto aveva sempre detenuto il primato, mentre negli usi formali domina ormai largamente. Gli studiosi concordano sul fatto che questa situazione si respira ancor oggi in Italia, soprattutto in quei centri minori dove il dialetto possiede ancora un ampio raggio funzionale ed è ancora vivo come codice della socializzazione primaria .

d ) Per quanto riguarda lo scenario attuale, ancora una volta non si individua una situazione unitaria ma ci troviamo davanti ad un diversa distribuzione dei comportamenti tra regione e regione, provincia e provincia e città e città. Se nelle metropoli e nei centri molto grandi si sta assistendo al fenomeno dell'abbandono della dialettofonia e ci si avvia a percorrere la strada del monolinguismo italiano, nei centri piccoli, e soprattutto nelle campagne, e nelle classi sociali inferiori, si sta percorrendo la fase del bilinguismo senza diglossia. Ed esistono ancora in quella che Sobrero (1993:29) definisce "la solita Italia a più velocità", zone particolarmente conservative caratterizzate da permanenza di una situazione di diglossia.

Potremmo quindi concludere, concordando con Grassi (1993) in particolare, che la storia linguistica del nostro paese ha visto lo spostamento graduale da una prevalente diglossia a un prevalente bilinguismo e ci si avvia a percorrere l'ultima fase che sarebbe, come detto, quella, non del tutto augurabile, del monolinguismo italiano.

Tuttavia proprio perché tale processo non ha un andamento uniforme e generalizzato, alcuni, come Trumper (1977; 1984; 1989), analizzando l'attuale configurazione sociolinguistica del rapporto tra italiano e dialetto, hanno ritenuto di dover adattare alla specificità italiana il concetto di diglossia suddividendola in due sottocategorie: quella di "macrodiglossia" e "microdiglossia" per designare due tipi diversi di situazioni fondamentalmente diglottiche così caratterizzate:

 

    Macrodiglossia

Microdiglossia

Entrambi i codici sono distribuiti su un ampio numero di domini

 

Formazione di una koinè dialettale

 

Ampia sovrapposizione tra codici in contesti funzionalmente ambigui

 

Enunciati mistilingui comuni nell'interazione quotidiana

 

I dialetti sono socialmente stratificati

Un codice è usato in pochissimi domini

 

Assenza di koinè dialettale

 

Netta separazione funzionale tra i due codici

 

 

   Le varietà di solito non si     mescolano

 

I dialetti sono socialmente indifferenziati

 

 

Il criterio fondamentale su cui si basa Trumper è la "forza" della varietà B, cioè il dialetto: la situazione di macrodiglossia è quella in cui il dialetto è sociolinguisticamente assai vitale, entra tuttora in concorrenza con la lingua (varietà A) in molti domini, si articola in varietà interne e dà luogo a mescolanze con la lingua all'interno della stessa produzione linguistica; e sarebbe tipica di regioni come il Veneto e la Campania. Al contrario nelle situazioni di microdiglossia, il dialetto ha poco peso sociale, è relegato ad usi e funzioni limitate senza mai entrare in sovrapposizione funzionale con la lingua, né all'interno del discorso in atto vi sono possibilità di interferenze reciproche: questa è per molti la situazione che si registra in Emilia Romagna[7]

Lo stesso Berruto (1995:246),infine, ha introdotto, per descrivere la situazione italiana, il concetto di "dilalia" che "si differenzia sostanzialmente dalla diglossia perché il codice A (quello dominante -nel nostro caso l'italiano-) è usato, almeno da una parte della comunità, anche nel parlato conversazionale usuale, e perché pur essendo chiara la distinzione funzionale di ambiti di spettanza di A e di B (il codice dominato -nel nostro caso i diversi dialetti locali-) rispettivamente, vi sono impieghi e domini in cui vengono usati di fatto, ed è normale usare, sia l'una che l'altra varietà alternativamente o congiuntamente". In base a questa categoria concettuale, la situazione media attuale delle regioni italiane sarebbe allora caratterizzata da "bilinguismo endogeno a bassa distanza strutturale con dilalia", cioè dalla compresenza negli usi (almeno di una parte consistente della popolazione, essendo oggi una un'altra parte monoglotta italiano e una piccolissima minoranza monoglotta dialetto) di italiano e dialetto (questo spiega l'etichetta di bilinguismo), che, per essere varietà strettamente imparentate (carattere endogeno), hanno una differenza strutturale non sensibile (rispetto ad altre realtà bilingui), sono impiegate tutte e due nel parlato quotidiano, svolgono funzioni ben diverse (alte l'italiano, basse il dialetto), e condividono classi di situazioni in cui c'è sovrapposizione funzionale (dilalia).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO SECONDO

 

 

Ormai è ben noto che il repertorio linguistico medio della comunità italiana[8] comprende essenzialmente varietà dell'italiano e varietà del dialetto[9]; esse non si collocano in una struttura a scala in cui ogni varietà è entità discreta e autonoma ma, non esistendo confini netti tra l'una e l'altra[10], costituiscono un continuum[11] di varietà intermedie che va dal polo dell'italiano standard (il quale non riflette e non risente di nessun influsso dal dialetto ma anzi ora si sta rinormativizzando), al polo del dialetto arcaico o rustico, non toccato da nessun condizionamento dell'italiano.

Non volendo qui analizzare il panorama di tutte le varietà linguistiche che lo compongono, quanto piuttosto le varietà che si formano ,che si "addensano", nella zona di contatto diretto tra i due codici, ai fini della nostra trattazione ci limiteremo ad esaminare solo tale zona di maggiore e più stretto contatto tra italiano e dialetto, e in particolare il versante che riguarda le varietà del dialetto più vicine all'italiano.

Le osservazioni che seguono riguarderanno perciò: (1) l'italiano regionale e la dialettizzazione dell'italiano, (2) le varietà ibride e il fenomeno dell'ibridazione, (3) le varietà italianizzate di dialetto, la koineizzazione e l'italianizzazione: come già sottolineato questo sarà l'ambito da noi direttamente approfondito nella nostra ricerca.

 

L'azione continua del dialetto sulla lingua nazionale porta alla formazione di una varietà di italiano[12] più o meno interferito dal sostrato dialettale, chiamata dagli studiosi italiano regionale[13] nella cui denominazione si coglie l'ampia gamma di fenomeni che riguardano l'azione dei dialetti sull'italiano[14]. Con l'etichetta di 'regionale', introdotta da Pellegrini nel 1960, si mette in rilievo come in Italia la prima fonte di diversificazione degli usi linguistici sia quella legata alla distribuzione geografica lungo l'asse diatopico[15]: infatti tutte le varietà dell'italiano risentono in gradi differenti dell'influsso del sostrato dialettale.

In questa sede ci interessa, in particolare, la varietà di italiano regionale più vicino al dialetto, caratterizzato cioè da una fortissima interferenza del dialetto e un alto grado di dialettizzazione: è una varietà soprattutto marcata a livello diastratico in quanto propria di ceti bassi della popolazione, aventi il dialetto come madrelingua e che cercano di acquisire la competenza dell'italiano. Per questo quasi tutti i modelli di repertorio che Berruto (1993b:26) illustra, presentano per questa varietà, denominazioni con una doppia connotazione: italiano regionale popolare evidenziando la significatività della dimensione diastratica.

Altri studiosi, invece, ne sottolineano soprattutto il carattere diafasico, intendendo questa varietà specifica delle situazioni più informali della comunicazione in italiano; altri ancora il valore diamesico in quanto questa varietà è propria dell'uso orale e presenta i tratti più marcati nell'uso parlato.

Al di là della differente nomenclatura assegnata, grande importanza riveste il fenomeno della dialettizzazione,cioè il processo di interferenza del dialetto che a questo livello agisce fortemente coinvolgendo tutti gli ambiti strutturali: quelli intonativo e fonetico (che ne mostrano chiari gli effetti anche nelle varietà di italiano regionale più alte), la morfologia e la sintassi, e sopratutto il lessico con l'introduzione massiccia di regionalismi lessicali[16] cioè di prestiti dialettali il più delle volte adattati foneticamente all'italiano. A questo proposito, possiamo notare con Telmon (1994) come fortissima sia la permeabilità dell'italiano all'ingresso di prestiti dialettali nonostante la sua maggiore grammaticalizzazione che dovrebbe garantire una certa resistenza alle entrate dialettali. In realtà i fattori più determinanti sono di natura extralinguistica, come mostra l'esempio -che riprendiamo dallo stesso Telmon- dell'ingresso preferenziale, nel repertorio piemontese del regionalismo ciapiamo (forma con tema lessicale dialettale e morfema suffissale italiano) rispetto ad un non attestato ma ipotetico italianismo *prenduma (che rappresenta il corrispondente dalla parte del dialetto della forma precedente, avendo tema lessicale italiano e morfema flessionale dialettale); interessante, a questo proposito il commento su questo caso fatto dallo stesso studioso che sottolinea come :"è probabile che a decretare l'effettiva aggregabilità nei rispettivi codici linguistici siano poi, in definitiva, fatti non già di linguistica interna, si piuttosto di pragmatica della lingua. Va osservato che, mentre ci si potrebbe attendere che in questo giudizio un elemento di valutazione consista nella maggior o minor grammaticalizzazione nel codice (nel senso che il codice più soggetto a regolamentazione grammaticale -nel nostro caso la lingua italiana- sia meno propenso a aggregare a sé elementi "spuri”), proprio l'esempio riportato qui sopra ci mostra come anche i codici meno grammaticalizzati e perciò meno normativi possano talvolta (ad onta di quanto si dice sui dialetti "italianizzati") provare delle difficoltà nell'aggregazione di elementi provenienti da altri codici, anche se la loro morfologia grammaticale potrebbe apparire rispettosa della norma. Ciò che probabilmente entra in gioco a questo punto è infatti la dimensione dell'utenza di codici che si montano: nel nostro caso ad esempio, il numero ampiamente superiore di utenti dell'italiano rispetto a quelli del piemontese fa si che si allenti l'attenzione normativa e che pertanto la soglia di aggregabilità di ciapiamo sia resa più larga di quanto non lo sia la soglia per l'aggregabilità di un *prenduma al codice piemontese" (Telmon 1994:601).

Ci è sembrato utile riportare l'intero brano perché anche noi, durante l'osservazione del comportamento linguistico della comunità sassolese esaminata nelle presente ricerca, ci siamo accorti di quanti siano, anche tra i parlanti sassolesi, gli sconfinamenti lessicali dal dialetto all'italiano (e non, come sarebbe automatico pensare, il contrario), che facilmente accoglie tipi lessicali del sostrato dialettale, a causa del maggior uso che di esso si fa. Come abbiamo infatti notato nel capitolo precedente, oggi l'impiego del dialetto è in netto regresso essendo diminuiti considerevolmente il numero dei dialettofoni e le occasioni stesse di impiego del codice[17].

 

Il fenomeno dell'ibridazione, cioè della parziale fusione dei sistemi dell'italiano e del dialetto, si situa all'interno del repertorio linguistico nella fascia dove il contatto fra italiano e dialetto è più stretto e continuo, interessando quindi, da un lato le varietà più basse e marcate di italiano popolare, e dall'altro le koinài regionali e subregionali e le varietà più italianizzate di dialetto. In questa zona di intimo contatto si verifica un aumento del trasporto di materiali fra i due sistemi che, in molte occasioni, conduce alla formazione di ibridismi cioè di"quelle voci lessicali alla cui forma contribuiscono assieme materiali e regole del dialetto e materiali e regole dell'italiano"(Berruto 1987: 170).

Queste nuove forme che si ritrovano facilmente sia nel discorso dei dialettofoni con scarsa competenza dell'italiano (o meglio competenza solo di varietà basse dell'italiano), sia nel discorso di parlanti che padroneggiano l'italiano e il dialetto (e li usano alternativamente)[18], sono difficilmente collocabili, in quanto poste a cavallo del discrimine che separa le forme prodotte in un sistema da quelle prodotte in un altro; esse possono essere frutto, secondo Berruto 1989, di due processi: o di un'ibridazione dall'alto (forme dialettali ibride con l'italiano), oppure dal basso (forme italiane ibride con il dialetto).

Particolarmente rappresentato è il secondo tipo in cui si ha un lessema con tema dialettale e morfema grammaticale italiano: Berruto cita i casi tra, i sostantivi e aggettivi, dell'it. popolare piemontese armognino "albicocca" (dial. armu 'nin),dell'it. marcatamente regionale trentino slamegato "perdere forma" (dial. slamegàr) (1987:170); tra i verbi, dell'it. popolare biellese favo "facevo" (dial. fava, imperf. I sing.), dei piemontesi finisciva "finiva" (dial. finisia imperf. 111 sing.) e prontare "preparare, procurare" (dial. prunté )(1993 : 31).

Ma anche sul versante del dialetto, in cui agisce quella che è stata chiamata "ibridazione dal basso') Berruto registra il neologismo 'tfener[19] "cenere" (dial.'fendra) appartenente al dialetto di Cevio (nel Canton Ticino) in cui si è mantenuta la regola dialettale di elisione della vocale finale diversa da -a ma altre regole dialettali sono state sostituite dalle corrispondenti regole italiane.

Tutti gli esempi che abbiamo visto, come la maggior parte degli ibridismi lessicali, possono sempre essere ricondotti a una varietà di italiano molto interferita o ad una varietà molto italianizzata di dialetto in quanto i morfemi grammaticali intervengono come criteri discriminanti e decisivi per l'attribuzione di una forma ad un sistema "secondo la gerarchia morfemi flessionali> morfemi derivazionali> morfemi lessicali" (Berruto1987:170): quindi se una parola ha morfema lessicale italiano ma morfema grammaticale dialettale sarà dialetto, mentre se ha morfema lessicale dialettale e morfema derivazionale italiano, sarà assegnata al sistema dell'italiano.

Il problema si complica quando si presentano ibridismi che non possono essere aggiudicati all'uno o all'altro sistema o perché morfemi e regole del dialetto e dell'italiano in quel caso coincidono, o perché i morfemi grammaticali sono essi stessi ibridi: nel primo caso si hanno termini omonimi in una varietà di italiano e in una varietà di dialetto che saranno attribuiti "al sistema a cui appartengono le forme che co-occorrono nella frase" (Berruto 1987:171): ad esempio, riprendendo Berruto (1987:171), nel piemontese basta parèj "basta così", basta omonimo in italiano e in dialetto, sarà considerato dialetto perché inserito in un contesto frasale dialettale. Nel secondo caso, è davvero difficile ogni tipo di interpretazione: infatti davanti ad una forma come giustarse (sfruttiamo ancora una volta un esempio di Berruto 1987:171) usata da un parlante lombardo per "aggiustarsi" non è possibile alcuna assegnazione in quanto non vi sono criteri significativi che decidono se attribuire il termine ad una varietà bassa di italiano o ad una varietà italianizzata di dialetto.

Ad oggi casi del genere, tali da rendere problematica l'aggiudicazione di un'espressione o una forma ad una varietà di italiano o di dialetto, sono molto rari e sporadici e riguardano singole entità lessicali sparse; per questo tutti gli studiosi[20] concordano sul fatto che l'esistenza di queste forme ibride non è condizione sufficiente per affermare come attuale "l'incipiente formazione di un sistema fuso" (Berruto1987:171) con una nuova grammatica e un nuovo lessico né la nascita di varietà ibride, quasi "creoli casalinghi" (Berruto 1993b:31), sorte dal contatto fra italiano e dialetto, da inserire tra le varietà del repertorio a disposizione del parlante lungo il continuum italiano-dialetto.

 

I1 dialetto italianizzato si può ritenere correlato in maniera plurivoca con le dimensioni fondamentali di variazione: in base al primato di una o dell'altra dato dagli studiosi si hanno differenti denominazioni per questa varietà che nasce dall'intenso condizionamento esercitato dall'italiano sulle strutture del dialetto.

Per la maggior parte degli studiosi il dialetto italianizzato, è varietà essenzialmente diatopica, in quanto sembra assodato che il dialetto urbano sia, a parità di altri criteri, più italianizzato di quello dei piccoli centri o dei centri di campagna e, in particolare, sempre rimanendo su quest'asse di differenziazione, tutti concordano nell'individuare un netto carattere di italianizzazione nelle koinài regionali o subregionali: infatti nel dialetto italianizzato i tratti più propriamente locali e particolaristici sono attenuati per dare spazio a tendenze sovramunicipali, che più accomunano le diverse parlate. Pellegrini (1960) per primo riconosce, all'interno della sua quadripartizione del repertorio ,la koinè dialettale come uno dei tasti usati dai parlanti ( il più usato, anzi, insieme agli italiani regionali). Muljacic (1971:15) inserisce la koinè regionale e, come varietà più bassa, la varietà della koinè regionale caratterizzata da un maggior grado di interferenza con le parlate locali; Sobrero-Romanello (1981) distinguono due varietà di dialetto, una alta (dialetto1) e I'altra bassa (dialetto2),in relazione alla sempre maggior marcatezza diatopica. Sabatini (1985: 171 -77) sottolinea del dialetto regionale, oltre che la dimensione diatopica, anche la variazione diamesica: infatti questo dialetto regionale è, secondo lo studioso, una varietà essenzialmente parlata.

Altra dimensione caratterizzante la varietà più italianizzata di dialetto è quella diafasica perché tendenzialmente un dialettofono adotterà una varietà più alta di dialetto con largo uso di italianismi, trovandosi in situazioni formali "meno legate all'immediatezza interna al piccolo gruppo" (Berruto 1993:28) e parlando di argomenti propri di sfere lessicali che "riguardano fatti e cose tipiche della società moderna e lontane dai tradizionali ambiti semantici tipici del dialetto."(Berruto 1993:28). Mioni (1980), per primo, individua come proprietà pertinente e qualificante di questa varietà l'essere utilizzato in ambiti e contesti meno colloquiali e familiari, oltre che in settori del lessico e registri particolari; egli riconosce come varietà alta di dialetto il dialetto di koinè e/o dello stile più elevato e, subito sotto, il dialetto del capoluogo di provincia, in un secondo momento (1983) enfatizza maggiormente la preferenza per questa dimensione di variazione, etichettando la varietà come dialetto formale in contrapposizione con il dialetto informale urbano e il dialetto informale rurale.

Alla dimensione diamesica, si rifanno invece Berruto e Trumper che considerano il canale scritto (più codificato e grammaticalizzato) variabile determinante per classificare la varietà di dialetto più italianizzata: Berruto (1993) distingue infatti dialetto letterario (a livello scritto come varietà più vicina all'italiano) e dialetto urbano (come modello parlato meno italianizzato), mentre Trumper/Maddalon (1982) e Trumper (1984) dialetto di koinè (come varietà scritta di dialetto più vicina all'italiano) e dialetto urbano.

C'è chi infine, definisce questa varietà proprio in base al forte grado di avvicinamento all'italiano, correlandola cioè, ad un criterio strettamente interno, strutturale, non sociolinguistico: Canepari (1975) e Sanga (1981), parlano infatti di dialetto italianizzato, mentre Sthel (1995) di dialetto con numerose interferenze dall'italiano o dialetto difettivo che corrisponde "alla seconda lingua della seconda generazione di parlanti"[21] e che "gli stessi parlanti, almeno nel Meridione, designano spesso con il nome di "dialetto civile" o "dialetto "moderno"(Sthel 1995:57).

Come si nota la dimensione diastratica è stata considerata poco significativa per classificare varietà interne al dialetto perché, come giustamente evidenzia Berruto, "il riflesso della stratificazione e differenziazione sociale si riverbera assai di più sull'opposizione di italiano e dialetto che non nella variazione sociolettale interna a quest'ultimo (la differenza sociale fra un parlante colto e uno incolto sarà meno evidente nel dialetto che non nell'italiano, e nel fatto che il primo tenda ad usare l'italiano e il secondo il dialetto"(1993:21).

 

La koineizzazione e l'italianizzazione rappresentano certamente i due fenomeni linguistici che più contraddistinguono la varietà più alta di dialetto: per questo essi si rivelano, ai fini della nostra trattazione, processi fondamentali a cui riservare uno spazio ed un approfondimento particolare.

Il fenomeno della koineizzazione dei dialetti locali è stato studiato a fianco ed insieme a quello dell'italianizzazione perché anch'esso rappresenta un processo di standardizzazione delle varietà dialettali locali pur con un raggio meno ampio di influenza (vedi Grassi 1997:176). Si verifica quando le varietà locali si orientano sul dialetto del capoluogo (o del centro più importante dell'area) mutuando da quello forme e costruiti, e persino fonemi e varianti fonetiche.

E' una dinamica assai antica che consiste in pratica nell'eliminazione delle forme avvertite come troppo locali, o stigmatizzate come "rozze" e nella conseguente formazione di varietà dialettali condivise da un territorio relativamente ampio (dell'ordine di grandezza di un comprensorio, o di una provincia, o anche - in certi casi- di una regione), le koinè dialettali appunto, che valgono, date certe condizioni, come codice usato tra parlanti di varietà dialettali diverse, ovvero come varietà dialettale sopralocale non marcata. La koineizzazione è in stretta correlazione con l'italianizzazione perché l'eliminazione di tratti localmente marcati coincide in molti casi con l'adozione di regole e forme italianizzanti.

Il primo ad utilizzare il termine koinai è stato Pellegrini che, nel 1960, citava le koinai dialettali o dialetti regionali come uno dei quattro tasti a disposizione degli italofoni, accanto all'italiano standard, all'italiano regionale e al dialetto locale; da qui l'etichetta si è stabilizzata e diffusa, presso molti studiosi ed in molti modelli di repertorio per indicare la varietà di dialetto più vicina all'italiano.

La koineizzazione ha agito in modo differente nelle diverse regioni italiane a causa principalmente di motivi di ordine storico- politico ed economico legati al prestigio delle città, al loro potere di irradiazione e alla loro capacità di attrazione; in base a queste variabili la situazione delle koinè dialettali in Italia è molto eterogenea e complessa potendosi distinguere: (1) regioni caratterizzate dalla presenza di un'unica koinè regionale, (2) regioni caratterizzate dalla presenza di diverse koinè a carattere subregionale o provinciale, (3) regioni caratterizzate dalla presenza di un dialetto illanguidito con caratteri sovramunicipali, (4) regioni caratterizzate dall'assenza di koinè.

Facendo riferimento all'analisi del fenomeno in Italia condotta da Pellegrini 1960, si inseriscono, nel primo gruppo, il Veneto, la Campania, la Lombardia ed il Piemonte (anche se con qualche riserva che vedremo di illustrare). Quello del Veneto è l'esempio più chiaro e indiscusso di koinè dialettale: fin dal XV-XVI secolo, infatti, il veneziano si è imposto come varietà di prestigio in tutta la regione, soppiantando dialetti come il padovano, il vicentino, il rodigino, il trevisano, il veronese. Anche Berruto enfatizza il primato della regione in questo senso (1989:111): "non v'è alcun dubbio che il veneziano costituisca l'esempio più tipico di koinè dialettale regionale in Italia, usata in tutta l'area in cui sono parlate varietà indigene appartenenti al gruppo dialettale veneto". Bisogna ricordare inoltre come nel Veneto l'uso del dialetto sia ancora moto vivo presso tutte le classi di età e gli strati sociali a dimostrazione della forte lealtà linguistica dei parlanti della regione. In Campania, Napoli rappresenta certamente il centro unificatore o meglio il modello di alto prestigio per tante parlate locali e "si può parlare di espansione idiomatica del napoletano e di formazione di una specie di koinè italianizzante fondata sul dialetto della metropoli"(Pellegrini 1960: 18). La situazione è più complicata e discussa in Lombardia: infatti da una parte Sanga (1984) riconosce l'esistenza di una koinè, che "coincide in larga misura con il milanese, accoglie le isoglosse comuni ai dialetti della zona, elimina i tratti più vistosi e per il resto si riferisce al dialetto del centro principale, che è anche il dialetto più italianizzato" (Sanga 1984:25). Dall'altra Massariello Merzagora (1985:428) esprime qualche perplessità sull'effettiva esistenza di una koinè dialettale lombarda affermando che "nel più ristretto ambito delle rispettive province funzionano da dialetti provinciali il bergamasco, il bresciano, il pavese". Concordano Trumper/Maddalon (1988:233) i quali sostengono che nonostante il "Milan's dialect circuit" cioè l'area di influenza diretta del dialetto milanese sia molto ampia tuttavia "esso non ha dimensioni tali da giustificare il riconoscimento di una koinè dialettale milanese a validità pan-lombarda". In Piemonte ci si trova di fronte ad un uso particolare della koinè: infatti una koinè basata sul torinese medio non solo è in uso in ampie aree della regione e coesiste per lo più come registro nei repertori individuali coi dialetti locali delle varie subaree, ma essa penetra anche, per esempio, come lingua veicolare del commercio, in Valle d’Aosta. "In certe zone del Piemonte -afferma Berruto studiando i dati di Grassi- sembra però vigere il principio comunicativo di reciprocità dialettale, per cui i parlanti delle diverse varietà locali interagiscono solitamente a livello dialettale mantenendo ciascuno le proprie varietà."(Berruto1989:111); quindi lo studioso riconosce anche altri fenomeni di koineizzazione che si manifestano in aree non urbane piemontesi ed in particolare, ricorda il caso studiato da Grassi, di piccole località del canavese in cui si registra la presenza, "accanto alla parlata locale, sia del torinese, sia di una varietà dialettale/subregionale che deve essersi formata negli stabilimenti industriali canavesani e che costituisce una sorta di compromesso tra la parlata locale ed il torinese."

Il secondo gruppo comprende: la Calabria, in cui si può eventualmente riconoscere un inizio di formazione di parlate sovramunicipali, ma nell'ambito provinciale, non di certo in quello regionale; la Puglia, in cui si trovano tre modelli egemoni nelle città di Lecce, Brindisi e Taranto con particolarità locali piuttosto modeste anche se in realtà la situazione è variabile perché la generazione degli adulti mantiene stabilmente un sistema municipale senza tendenza alla koinè, mentre i giovani utilizzano un dialetto locale sempre più "neutro” processo dovuto soprattutto ad una rapida italianizzazione). In Sicilia, invece, i poli di prestigio culturale e pertanto di irradiazione dialettale sono due, e cioè Palermo e Catania e perciò, nonostante l'antica diffusione di un antico palermitano illustre, non si ha nemmeno l'inizio di una koinè regionale generale siciliana. Infine, del tutto particolare è la situazione in Sardegna dove sono le singole parlate dei centri cittadini, assai varie tra di loro, ad agire sui dialetti periferici.

Nel terzo gruppo, inseriamo le regioni dell'Italia mediana e meridionale: qui, sostiene a più riprese Pellegrini "più che di koinè dialettale si deve sottolineare la presenza, accanto a vari patois, più o meno vitali, di un idioma dialettale annacquato e illanguidito che ha quasi perso l'antica individualità la quale un tempo era sicuramente più accentuata. Tale dialetto ha sostituito il generale i termini più tipici e municipali con forme ispirate ali'italiano o modellate su di esso" (1960:17). E' questo il caso di regioni come l'Abruzzo e le Marche ma anche a Roma "si può riconoscere ora soltanto un romanesco illanguidito che viene spesso a confondersi con l'italiano regionale laziale: un dialetto che risulta paradigmatico per i vari dialettofoni della regione che tuttavia continuano spesso ad usare i vari patois locali, assai diversi dal linguaggio della capitale."(Pellegrini 1960:18).

Infine nel quarto gruppo in cui sembra non esistano tracce di koinè, si colloca la nostra regione Emilia Romagna; in essa, Pellegrini (1960:16-17) rileva una situazione diametralmente opposta rispetto a quelle riscontrate altrove e afferma che non vi si può riconoscere "un ben che minimo processo di formazione di una dialetto regionale o sovramunicipale e interprovinciale". Questo perché nessuna città emiliano-romagnola è stata riconosciuta come un modello sotto l'aspetto linguistico e nessun idioma locale è fornito di particolare prestigio per essere imitato da altri. Il motivo di questa mancanza di irradiazione che superi i confini municipali, va ricercato soprattutto nei particolarismi politici di cui si sono avuti esempi paradigmatici già nel medioevo, negli esasperati campanilismi e nel policentrismo che ha caratterizzato anche lo sviluppo economico-sociale più recente della regione. Nel repertorio regionale emiliano-romagnolo, di conseguenza, non può trovare collocazione una varietà dialettale sovramunicipale che occupi lo spazio comunemente assegnato al dialetto di koinè nel continuum dialettale.

 

Sul versante del dialetto l'italianizzazione rappresenta il corrispettivo della dialettizzazione dell'italiano: costituisce, infatti, un processo di innovazione e di standardizzazione dei dialetti dalla portata molto più ampia e più complessa rispetto alla koineizzazione precedentemente analizzata.

E' un fenomeno antico che assume differenti forme in relazione ai diversi repertori sociolinguistici che via via italiano e dialetto hanno configurato nella comunità linguistica italiana: in situazioni di diglossia, in cui pochissime erano le occasioni di contatto tra i due codici linguistici (cfr. capitolo 1) l'innovazione italianizzante è avvenuta secondo la "diffusione a macchia d'olio" (Grassi-Sobrero-Telmon 1997:220), o più spesso in modo "radiale" : il dialetto delle grandi città che per conto suo risente soprattutto della pressione dell'italiano- produce delle innovazioni, le estende alle città di provincia, le quali a loro volta le riversano sui centri più piccoli: di qui le innovazioni si estendono alle campagne e alle valli circostante. A causa di questa dinamica, molti studiosi (in particolare Grassi-Sobrero-Telmon 1997) ritengono che le campagne siano solitamente più conservative dei piccoli centri, e questi a loro volta più conservativi dei centri maggiori.

In situazioni di bilinguismo come quella attuale, aumentano considerevolmente, come abbiamo già visto, le occasioni di contatto, quindi di scambio e di interferenza reciproca, tra italiano e dialetto. In questa fase molto attivo è stato il modello di innovazione detto delle "forme paracadutate" (Grassi-Sobrero-Telmon 1997:220): a causa del massiccio incremento della mobilità della popolazione (soprattutto per lavoro, studio e turismo, oltre che per il commercio) e della diversa organizzazione della società industriale (che si è affermata sulla società contadina tradizionale), l'innovazione si diffonde direttamente, senza più mediazioni o passaggi intermedi, da un centro all'altro anche a distanza: dalla città al centro turistico, o al paese all'imbocco della valle (sarà questo il caso, come vedremo di Sassuolo, il centro da noi analizzato), o al mercato più importante.

Nell'ultimo ventennio poi, una forte spinta all'affermazione di questo modello è stata la diffusione dei mass media ed i particolare della televisione. Infatti grazie al grande prestigio di cui gode la TV, l'innovazione arriva dal centro nazionale a tutti i punti linguistici, grandi, medi e piccoli e tende ad imporsi[22]. Così, ad esempio, nell'area circostante Milano (dati forniti da Massariello Merzagora 1984:435) 'fender "cenere", 'sira "sera", kan'dila "candela", diventano rispettivamente 'tfener, 'sera, kan 'dela, non per influsso del milanese ma per azione diretta della lingua italiana attraverso i mezzi di comunicazione. Ancora Massariello Merzagora 1984 fa notare come la presenza nel territorio milanese di poche varianti intermedie tra forme arcaiche e forme innovative italianeggianti, sia spesso spia di un processo di italianizzazione più recente e più diretto; al contrario, l'esistenza di più varianti più o meno italianizzanti testimonierebbe un processo di italianizzazione più antico e prolungato nel tempo.

 

Così come il fenomeno della dialettizzazione dell'italiano, anche l'italianizzazione del dialetto è un processo ancora non generalizzato e variabile, all'interno di un punto linguistico, per grado e intensità a seconda dell'età, dello status sociale, della generazione di inurbazione, della rete sociale e del sesso dei parlanti.

L'età costituisce uno dei fattori fondamentali in quanto tendenzialmente il dialetto più arcaico resiste nei parlanti più anziani, mentre i parlanti più giovani sono di solito anche gli elementi più attivi nell'adozione e nella diffusione delle innovazioni linguistiche[23]: tutti gli studi condotti sulla variabile "età" confermano l'ipotesi di una scelta più orientata verso il "basso" (cioè verso le forme più arcaiche) da parte degli anziani e riconoscono che il ricambio generazionale è indubbiamente un potente fattore di allontanamento delle varietà più italianizzanti dai dialetti sottostanti o comunque di sganciamento dalla caratteristiche lessicali geograficamente più caratterizzate.

Grassi (1993:288) sottolinea come, più del fattore età (o in ogni modo inscindibilmente legato a questo), sia determinante la variabile grado di istruzione: egli dichiara che " che ciò che caratterizza le più giovani generazioni rispetto a quelle più anziane è soprattutto il "grado di istruzione", una variabile che ha sicuramente gran peso nei processi di italianizzazione dei dialetti" tanto più se essa è considerata in senso allargato non soltanto come "il più o meno lungo periodo di frequenza della scuola, ma anche l'effetto della già ricordata urbanizzazione globale del territorio e della simultaneità dell'informazione che hanno ridotto le differenze socio-culturali un tempo esistenti tra città e campagna" (1993:289). In questo ambito molto interessante è il comportamento linguistico dei diplomati siciliani che, secondo Mocciaro 1992[24] rappresentano la classe motrice del cambiamento entro la comunità siciliana e quella che maggiormente attua ipercorrezioni in direzione di un maggior adeguamento al modello italiano perché forte è per loro il desiderio di "iperdistanziarsi dall'idioma materno"(Mocciaro 1992:35) alla ricerca di una maggiore riconoscimento sociale.

Anche lo status sociale[25] ha rappresentato una variabile molto attiva nel passato, quando la dialettofonia era condizione generalizzata in tutto il territorio italiano; infatti nell'uso orale chiare ed evidenti erano le differenze tra il dialetto parlato dalle classi alte e quello adottato dalle classi inferiori: l'uno caratterizzato da un forte grado di interferenze del 'superstrato' italiano, da una maggiore ricchezza di italianismi e, in generale dalla presenza massiccia di forme adeguate foneticamente al modello italiano; l'altro, più rustico e pieno di arcaismi. Oggi ,come abbiamo già notato nel primo capitolo, il dialetto è in netto regresso nelle città e nelle classi sociali moderne (borghesia, ceto medio amministrativo, operai e tecnici) che ormai attivano in ogni ambito l'uso dell'italiano, e tende a conservarsi (ma secondo gli studiosi, non per molto) in quello che fu il suo ambiente originario: la campagna e le classi sociali premoderne (contadini e artigiani). Quindi la più importante distinzione che oggi si deve operare è certamente tra classi alte italofone e classi basse dialettofone; bisogna, in ogni modo, riconoscere che dove il dialetto mantiene una notevole vitalità, presenta ancora una sua variazione interna in relazione allo status sociale dei parlanti che lo utilizzano.

L'appartenenza ad aree rurali o urbane ha costituito una variabile importante e fondamentale, specialmente negli anni passati in cui alcune aree di campagna non erano raggiunte da mezzi di comunicazione e quindi si trovavano in una posizione di isolamento tale che difficilmente la parlata locale aveva modo di evolversi; per questo un individuo che si sia trasferito in città dopo aver vissuto sempre in campagna o in zone molto isolate, tenderà a parlare un dialetto ancora molto marcato localmente a cui restano estranei molti nuovi termini dialettali, mutuati dalla lingua italiana, appartenenti ad ambiti sematici attinenti alla nuova civiltà tecnologica, ai nuovi costumi di vita, alle nuove attività lavorative che la città veicola.

Altra variabile che orienta il comportamento innovativo o conservativo di un individuo, è la posizione occupata da questo individuo nelle reti sociali[26] della comunità: generalmente il parlante in-rete[27], nelle sue produzioni linguistiche dialettali rimane ancorato alle forme conservative, e alle regole morfosintattiche tradizionali del dialetto e si mostra poco sensibile alle innovazioni italianizzanti. Il parlante periferico[28], invece mostra un comportamento più incerto e oscillante tra la conservazione di forme arcaiche e innovazione; infine il parlante extra-rete[29], attivando raramente l'uso del dialetto di cui possiede una competenza dialettale inferiore a quella delle categorie di parlanti precedenti, è molto più disponibile ad accettare innovazioni e trasformazioni della struttura dialettale.

Infine l'appartenenza ad uno invece che all'altro sesso ha un ruolo importante soprattutto per il " processo di trasmissione del linguaggio alle nuove generazioni" (Grassi-Sobrero-Telmon 1997:193): in questo ambito certamente le donne rivestono un ruolo centrale. Infatti tutta la letteratura concorda nel mostrare la tendenza femminile a trasmettere la variante più standardizzata della lingua: le donne desiderano meno degli uomini che i figli parlino dialetto e sono contrarie ad esperimenti di dialetto a scuola. Fortissima è la tensione per lo standard o per lo meno per le varianti più innovative del dialetto in quanto le donne hanno una particolare consapevolezza, e una forte sensibilità, per le connotazioni sociali legate alla scelta linguistica.

 

       Se ora affrontiamo dal punto di vista più strettamente linguistico il problema dell'italianizzazione, possiamo osservare come vi siano livelli della descrizione linguistica (intonazione, fonologia, morfologia, lessico, semantica, sintassi) che più palesemente veicolano gli scambi dall'italiano al dialetto ed altri che sono meno sensibili e impermeabili alle innovazioni italianizzanti. Seguendo le indicazioni di Grassi (1993:291)[30] possiamo procedere ad una gerarchizzazione mettendo al primo posto il lessico e la semantica dialettale, quindi la fonetica/fonematica, ed infine la morfologia e la sintassi[31] mentre per quanto riguarda il livello intonativo, nulla e nemmeno presa in considerazione è l'influenza dell'italiano sul dialetto[32].

 

 

2.8.1 Livello lessicale

Nella fase di diglossia (cfr. capitolo 1 pag. 5) il tipo più frequente di innovazione era costituito dall'introduzione di prestiti lessicali, costituiti da termini che designavano strumenti, attività, nozioni nuove, estranee al mondo tradizionale; si trattava solitamente di tecnicismi lessicali che non trovavano corrispondenti nel patrimonio linguistico dialettale, ma anche di incroci tra una parola indigena e l'innovazione italiana, o italianeggiante, e di calchi di un sistema linguistico sull'altro.

Nella condizione di bilinguismo cambia la tipologia dell'innovazione: i calchi e gli incroci sono molto rari mentre avvengono fenomeni macroscopici: la terminologia locale viene abbandonata, insieme ai designata corrispondenti; in particolare sono i nomi degli strumenti e delle lavorazioni in disuso, le nozioni di flora, di fauna, di medicina popolare che escono dalla conoscenza di base delle nuove generazioni, le quali non sentono più l'esigenza di rimetterli in circolazione anche attraverso altre più moderne denominazioni[33].

Come contraltare a questo processo, aumenta velocemente il numero di

neologismi, cioè di forme prive di corrispettivi dialettali, che designano oggetti e concetti nuovi entrati nell'uso con la trasformazione della società e il progresso tecnologico[34]; questi prestiti di necessità che colmano vuoti venutesi a creare nel lessico dialettale, possono essere più o meno adattati alla fonetica e alla morfologia dialettale[35].

Un altro fondamentale fenomeno che incide profondamente sul lessico dialettale è I'affiancamento accanto alle parole dialettali tradizionali d'uso comune (quindi non tecnicismi) di sinonimi italiani, per lo più adattati foneticamente; i due termini coesistono venendo a creare coppie sinonimiche in cui un elemento è proprio del dialetto tradizionale e l'altro è italiano adattato al dialetto e, per un certo periodo di tempo, si distribuiscono secondo variabili sociolinguistiche (l'età, il grado di integrazione del parlante nella comunità, il grado di formalità della situazione, la posizione nella rete sociale). In seguito si può verificare uno di questi casi: (1) o una delle due varianti (di norma quella innovativa italianizzata) si afferma definitivamente nell'uso comune, ricoprendo esattamente il significato della forma abbandonata così da originare ma rilessicalizzazione (Berruto 1989, Foresti 1992) profonda dei dialetti, dal momento che la nuova forma introduce tipi lessicali completamente nuovi[36]; (2) oppure, entrambe le forme convivono ma con specializzazioni lessicali diverse (cfr. paragrafo seguente): in questo modo la forma tradizionale trova lo spazio per mantenersi viva ed attiva e si conserva nel lessico.

A volte, invece, la coppia resiste a lungo, perché si trova in condizioni di anisomorfia lessicale, e cioè di non equivalenza di significato: le sostituzioni di id'rawlik a trum'be "idraulico", o di farma'sesta a spi’ sje "farmacista", o di salumir a lardarol "salumiere" nel dialetto bolognese, ad esempio, segnalano non solo delle innovazioni di significanti ma anche un'evoluzione dei significati legata alle rilevanti trasformazioni avvenute nelle competenze, nelle tecniche, nelle funzioni, nei ruoli di mestieri e professioni; per l'ultimo caso, ad esempio colui che, un tempo vendeva soprattutto lardo, oggi vende soprattutto salumi, e questo semplice cambio di etichetta consente di leggere, in filigrana, una rivoluzione alimentare[37].

Per quanto riguarda i settori lessicali privilegiati dall'italianizzazione, a quanto afferma Grassi 1993[38] (ma non solo), "le innovazioni linguistiche introdotte dall'italiano interessano soprattutto le sfere semantiche con un carattere più o meno pubblico, in cui cioè con maggior forza e insistenza si fa sentire il bisogno del parlante di istituire contatti che vanno al di là dei limiti della propria comunità e della propria regione mentre colpisce anche la scarsità di esempi riguardanti le attività agricole e la vita familiare, o comunque gli ambiti meno esposti al confronto con il mondo esterno"(1993:295).

 

2.8.2 Livello semantico

Le innovazioni lessicali italianeggianti hanno avuto importanti riflessi anche nelle strutture lessicali-semantiche dei dialetti. Si tratta di un punto al quale, malgrado la sua importanza, gli specialisti non hanno riservato molta attenzione a causa, secondo Durante[39], del presupposto diffuso negli studi di dialettologici che soltanto le forme variano entro e tra i domini dialettali mentre i significati sono evocati soltanto in funzione delle forme.

Si possono verificare quattro casi: (1) I'italianismo può portare ad un livellamento delle distinzioni semantiche preesistenti, introducendo una voce generica al posto di termini locali specifici: in bolognese[40], per esempio, I'italianismo generalizzante puchtén[41] "piccola quantità" sta sostituendo le voci specifiche murèl balòch, tròch che indicano rispettivamente "una piccola quantità di salciccia, burro, carne". In, si verifica un impoverimento del dialetto tradizionale che perde molte delle sue differenziazioni interne e della sua ricchezza lessicale.

Oppure (2) si può verificare il caso in cui l'italianismo introduca una distinzione lessicale dove prima non esisteva: Grassi 1993 riporta il caso, in napoletano, dei derivati dal latino coxa che indicano tanto la "coscia" quanto la "gamba". L'accettazione in atto dell'italianismo gamba "gamba" provoca contemporaneamente una differenziazione dei due significati mediante due distinti termini, come in italiano. E' evidente come attraverso questo tipi di mutamento, il dialetto trova nell'italiano, al contrario di (1), fonte di rinnovamento ed espansione del proprio vocabolario.

Può accadere, invece, (3) che l'innovazione italianeggiante provochi una specializzazione semantica del termine dialettale. Così, stando a Massariello Merzagora, nel milanese la voce italianizzata pavimént ha sostituito, nel significati generico di "pavimento", la voce del dialetto tradizionale soi che continua tuttavia ad essere conosciuta ed impiegata nel suo significato "specializzato" di "pavimento sporco"[42]E' molto importante questa conservazione specializzata del termine arcaico perché gli consente di sopravvivere storicamente.

Talora, infine, (4) l'italianismo può aggiungere un nuovo significato al termine dialettale (cfr. il bolognese tra'tawr che oggi indica sia "l'oste" sia "la macchina agricola"): si parlerà in questo caso di estensione semantica della voce tradizionale.

 

2.8.3 Livello fonetico

I mutamenti che investono il livello fonetico erano già evidenti nei precedenti esempi di italianizzazione lessicale, nei quali è chiaro che i prestiti italiani, quando non sono assunti integralmente nella loro forma originaria, entrando nel lessico, subiscono un adattamento fonetico al dialetto. E' stata, quindi, l'introduzione di parole nuove a dare avvio ad un processo di "rifonetizzazione" (Foresti 1992:31) cioè di modificazione della fonetica dialettale che coinvolge anche i termini tradizionali, i quali si vedono affiancati delle forme, con la stessa base etimologica, ma che hanno subito un maggiore adeguamento al modello italiano. A volte tale rimodellamento fonetico è talmente vistoso che le voci adattate sono così diverse dalle forme di partenza da essere percepite dai parlanti come voci entrate ex novo nel lessico dialettale. A questo proposito significativo è l'esempio citato da Grassi 1993 per il tipo lessicale "acqua" nel piemontese: in questo dialetto, infatti si è verificata la sostituzione della forma locale eva/awa con la forma più adeguata d'italiano, akwa; in fonetica storica il passaggio alla seconda forma si può spiegare come la restaurazione dell'occlusiva velare sorda intervocalica latina K attraverso la pressione dell'italiano; è quindi considerata, per i dialettologi una modificazione decisamente di natura fonetica. "'Ma per i parlanti -afferma Grassi- si tratta piuttosto di un'innovazione lessicale, introdotta dalla lingua; una parola nuova dunque che sostituisce quella precedentemente usata"(Grassi 1993:291).

Come si constata anche dall'esempio piemontese precedente, può accadere che I'italianizzazione fonetica si presenti in realtà non come processo di innovazione bensì di "restaurazione di strutture fonologiche che i singoli dialetti avevano già conosciuto e successivamente avevano abbandonato" (De Mauro 1963:155)[43] e quindi come una sorta di "regressione verso fasi arcaiche"(id.) che si collega al "carattere conservativo della fonologia del toscano arcaico, e quindi dell'italiano", rispetto alle altre lingue romanze e agli stessi altri dialetti italo-romanzi. De Mauro cita il caso dell'accoglimento in piemontese della forma fradèl e poi fratèl in sostituzione di frèl che ha comportato un avvicinamento sia nel vocalismo sia nel consonantismo alla forma italiana comune fratello.[44]

 

2.8.4 Livello morfologico e sintattico

A questo livello, si registra ad oggi una minore intensità di italianizzazione a causa della maggior inerzia e resistenza al cambiamento proprio delle strutture morfologiche e sintattiche dove si annidano forme-bandiera alle quali è spesso affidata l'identità linguistica del gruppo sociale o della comunità. Ma negli ultimi decenni anche a questo piano di analisi la situazione sta mutando velocemente seppure secondo modalità particolari; tutti gli studiosi infatti concordano sulla ''teoria della diffusione lessicale" (Sobrero 1992:81) fondata sulla convinzione che il verificarsi di innovazioni morfologiche e sintattiche sia dovuto in primo luogo "all'ingresso di nuovi tipi lessicali che aprono le prime brecce nelle regole morfosintattiche le quali poi si ristrutturano in modi via via più vicini alla lingua nazionale" (Telmon 1994:261). Allo stesso modo anche la sintassi del periodo "può aver subito mutamenti in seguito all'introduzione di nuove congiunzioni, vale a dire in conseguenza dell'adozione di una parola nuova" (Grassi 993:291).

A livello morfologico, si possono verificare, seguendo la scia lessicale, passaggi di genere, sia dal maschile al femminile sia viceversa, o cambi di declinazione, o, per i verbi, di coniugazione. Grassi 1993 registra il caso del tipo "fiore", che nell'Italia settentrionale è di genere femminile, mentre in toscano e nelle altre parlate italo-romanze è maschile. L'innovazione consiste nella modificazione del genere da femminile a maschile nell'area settentrionale quando ci si vuol riferire al

Senso proprio di fiore, e alla permanenza del genere femminile nel senso figurato di “fior di farina”, “fiore (panna) del latte”. La differenziazione semantica tra senso proprio e senso figurato è stata garantita dalla distinzione morfologica tra maschile e femminile, quasi si trattasse di due nomi diversi.

              Ancora, l’italianizzazione morfologica ha condotto ad altre importanti modificazioni come nel caso del ricambio dei suffissi in bolognese dove, per esempio, stira’trits “stiratrice” si sta sostituendo a stira’dawra o dell’arretramento dei plurali in –ora nel salentino, odell’adozione del suffisso –isim per i superlativi nel dialetto milanese registrata da Massariello Merzagora.

              Allo stato degli studi attuali, dunque, si può concludere con Berruto (1993:29) che “il processo di italianizzazione dei dialetti risulta per ora molto più evidente in superficie che in profondo nelle strutture costitutive”; infatti come si è visto, fonetica e morfosintassi rimangono le strutture bandiera, lo zoccolo duro alla definitiva ristrutturazione delle parlate dialettali in direzione dell’italiano[45].             

 

CAPITOLO TERZO

 

 

La linea pedemontana che separa l'Appennino tosco-emiliano dalla pianura padana è costellata senza soluzione di continuità da una serie di paesi (piccoli poco più che borgate, o sufficientemente grandi da diventare importanti città) quasi tutti nati e cresciuti sugli interscambi tra piano e monte e lungo le vie di comunicazione che valicano la catena montuosa.

Sassuolo è un tipico esempio di questi insediamenti urbani nati e cresciuti, in luoghi relativamente elevati rispetto a paludi e fiumi, ma accessibili sia dai residui dell'organizzazione viaria antica, sia dalle vie d'acqua, quasi sempre di portata irregolare ma pur sempre sostenuta, inadatte per lunghi tratti e per molti mesi alla navigazione, ma utilissime quali forza motrice o risorsa irrigua o via di comunicazione alternativa in caso di strade impraticabili.

Il primo nucleo dell'attuale Sassuolo è infatti nato non a caso lungo l'asse di comunicazione Nord-Sud rappresentato dal fiume Secchia che raggiunge (coi suoi vari affluenti) il passo del Cerreto e delle Radici in una direzione, e si avvicina nell'altra al bacino fluviale del Panaro in prossimità di Modena, fino a raggiungere, lento e navigabile, il fiume Po in territorio mantovano. In particolare Sassuolo è situata dove il Secchia esce dalle strette valli a cavallo tra reggiano e modenese e incontra la pianura, intersecando quell'altro grande asse di comunicazione che si snoda in direzione irregolarmente Est-Ovest, seguendo la linea dei primi contrafforti montuosi da Piacenza fio al pesarese .

Sassuolo conta all'incirca quarantamila abitanti, e si è ormai conurbata con le vicine Fiorano e Maranello (a cui è stata d'altronde legata amministrativamente fino al 1861). Dopo una florida agricoltura gradatamente affiancata e poi superata da un prodigioso incremento del commercio e dell'artigianato (tra il 1550 e il 1700), l'economia sassolese ha visto il nascere e l'espandersi di una fiorente e ben più redditizia industria ceramica (a livello artigianale, conosciuta ed apprezzata fin dai diciottesimo secolo[46]) che ha consentito lo sviluppo (a partire dagli anni '50) del "distretto delle ceramiche"(Sassuolo e i comuni contigui) centro di rilevanza mondiale per qualità e volume del prodotto. Sopravvivono in ogni modo, anche se a livello marginale, numerose e piccole imprese artigianali e agricole.

Ancora molto scarsi sono i collegamenti con la rete viaria e ferroviaria nazionale (anche se la ferrotramvia elettrificata Sassuolo- Modena ha compiuto da poco un secolo). Gli allacciamenti principali sono assicurati dalla Strada Statale delle Radici in direzione Sud-Nord fino all'imbocco con la Strada Nazionale Giardini (che risalgono entrambe alla seconda metà dell'Ottocento) che porta a Modena, dalla strada Pedemontana lungo l'asse Bologna-Bazzano-Vignola-Sassuolo-Scandiano (da poco rinnovate e con un nuovo tracciato ad alta percorribilità in costruzione), e dalle due ferrovie ad un binario che la collegano a Reggio e Modena (la prima costruita dalle FS, la seconda a gestione provinciale); per migliorare il sistema delle vie di trasporto sono inoltre in progetto da molti anni collegamenti autostradali e potenziamenti ferroviari, bloccati nelle "secche" delle lungaggini burocratiche e dei contrasti politici ma ormai indilazionabili.

Urbanisticamente si presenta come molte delle cittadine emiliane eutrofizzate dallo sviluppo artigianale ed industriale degli ultimi quarant'anni: viali larghi, spesso dritti e perpendicolari, quartieri periferici residenziali, con villette e giardini ben curati, palazzi dormitori per gli immigrati di prima generazione, un centro storico di bella presenza, ma di scarse ambizioni, solo ultimamente recuperato alle bellezze seicentesche del suo castello (poi, come si vedrà, divenuto Palazzo Ducale) e dei suoi portici.

Per quanto riguarda la storia remota della cittadina, essa posta sulla sponda destra del fiume Secchia, è, per molti studiosi, di origini antichissime, sorta quasi certamente in una una zona strategica, a presidio delle irrequiete vallate appenniniche abitate da tribù celtiche recalcitranti alla dominazione romana. A lungo bizantina, poi longobarda, Sassuolo finisce con l'appartenere al Contado Parmense ed è a quest'ultimo periodo che risale il primo documento scritto che la citi. E nominata infatti, in un atto notarile del 980 in cui si redige una permuta di terreni tra Gisalberto, figlio del conte Ragimundo, "abitante in Sassuolo, nel comitato parmense" e la badessa Berta del Monastero di S. Giulia a Brescia. Passata quindi a far parte dei domini del vescovado Parmense, diventa, nel 1039, proprietà di Bonifacio di Canossa (padre di Matilde) e rimane corte matildica e poi corte dipendente da Carpineti fin verso il 1160 o il 1170 mentre nel 1178 è sicuramente comune, ed all'epoca risale probabilmente l'inizio della signoria dei Della Rosa (o "Da Sassuolo"), famiglia guerriera che tiene Sassuolo tra alterne vicende ed in forte contrasto con il comune di Modena fino al 1373 e poi per un breve periodo dal 1396 al 1417. Dopo un periodo di dominio degli Estensi di Ferrara, in seguito ad una permuta, diventa nuovamente signoria autonoma sotto il dominio dei Pio di Carpi dal 1499 fino al 1599, tornando da allora, definitivamente sotto il dominio estense come podestaria dipendente direttamente dalla camera di Modena. e seguendo da allora il destino del ducato di Modena e Reggio fino al 1861 in cui è annessa al nascente Regno d'Italia[47].

Con l'adesione al regno del Piemonte, Sassuolo è comune governato per quasi quarant'anni dal partito liberale conservatore e poi dal partito radicale, appoggiato dai socialisti. Dopo gli anni tumultuosi del fascismo e della Resistenza, nel dopoguerra si assiste, ad una rapida ,ma non inaspettata industrializzazione (grazie al boom dell'industria ceramica e delle sue attività indotte) che provoca l'abbandono massiccio delle campagne vicine e specialmente l'afflusso di un gran numero di immigrati, prima dalla montagna, poi, in massa dal centro Italia, e soprattutto dal Meridione. La cittadina cambia totalmente la sua fisionomia: da piccolo centro agricolo progressivamente a capitale dell'industria ceramica conosciuta a livello mondiale.

Sono almeno tre gli indicatori che ci documentano il grande salto operato da Sassuolo dal 1861 ai nostri giorni: innanzitutto il dato demografìco; considerando infatti i censimenti della popolazione dall'unità ad oggi notiamo come la popolazione sia moltiplicata con un

  ritmo molto intenso:

 

 

anno

abitanti

anno

abitanti

anno

abitanti

1861

5921

1945

14409

1970

34644

1871

6245

1950

15295

1974

38370

1895

7089

1955

18865

1985

39845

1901

7709

1961

24191

1995

40370

1915

7936

1965

28861

 

 

 

Questo impressionate incremento demografico (si confrontino solamente i 6000 abitanti del 1861 con i 40000 attuali) è dovuto certamente all'aumento della natalità e alla drastica diminuzione della mortalità, specialmente infantile, collegati al miglioramento delle condizioni economiche ed igieniche, ma soprattutto, alla fortissima immigrazione. Tra il 1861 e il 1961 si verifica un saldo migratorio fortemente attivo, indice di una grande capacità attrattiva del centro che ricerca sempre più manodopera per le industrie ceramiche. Le provenienze di lavoratori sono legate a movimenti di medio-corto-raggio, in un primo momento (già a partire dagli ultimi anni del diciannovesimo secolo), dall'Appennino, dai comuni limitrofi del pedemonte, spesso dal reggiano e dal Frignano; poi si verifica dal dopoguerra fino agli anni ottanta, l'ondata ben più massiccia di immigrati dal centro Italia e dal  Meridione (Basilicata, Campania in particolare) specie negli anni sessanta[48]. Questo fenomeno ha un enorme rilievo nell'analisi della realtà sassolese, poiché ha modificato in profondità l'organismo sociale della comunità, innestando al suo interno numerosi sottogruppi sociali e culturali la cui reciproca integrazione ed amalgama non è stata cosa facile, “ammesso -evidenzia Sorrentino (1995:241)- che si sia concretamente realizzata". La "forte effervescenza demografica” (Sorrentino1995:244) conduce inequivocabilmente ad un intenso sviluppo edilizio: come molte altre città, Sassuolo, soggetta ad una troppo rapida espansione sotto la spinta di un incontenibile aumento demografico, senza la presenza di un piano regolatore, ha visto evolversi in modo caotico e spesso irrazionale il suo sviluppo urbanistico. Le nuove costruzioni dapprima lungo le principali direttrici viarie, si affollano poi intorno al nucleo storico, infine formano veri quartieri residenziali e quartieri operai.

Un altro importante, indicatore dell'intenso sviluppo sassolese, specie ai fini della nostra trattazione, e il grado di alfabetizzazione raggiunto dai suoi abitanti. Premesso che la cittadina, rispetto al resto della provincia, ha sempre goduto di un tasso di alfabetizzazione molto più alto fin dai rilevamenti fatti dopo l'unità d'Italia[49] (nel 1862 a Sassuolo il 25% della popolazione sapeva leggere e scrivere contro una media provinciale del 17%), soprattutto negli ultimi decenni si verifica un aumento della scolarizzazione che ha evitato il pericolo dell'analfabetismo di ritorno. Ad oggi, su una popolazione di 40563 abitanti gli analfabeti rappresentano solo l'1%, mentre i diplomati sono ben il 25%. La realtà "scolastica" sassolese è delle più incoraggianti: sono presenti tutti i principali ordini di scuole a parte il liceo classico e l'università e moltissimi sono gli studenti pendolari, provenienti dai comuni vicini e dalla montagna, che frequentano le scuole sassolesi.

 

Nel tracciare i lineamenti dell'evoluzione linguistica di Sassuolo[50], potremmo distinguere due fasi cronologiche precise per le quali adotteremo le scherzose espressioni di uno scrittore locale che distingue da una parte la Sassuolo a.C., dall'altra la Sassuolo d.C. intendendo come punto di riferimento e coordinata storica non certo la nascita di Cristo quanto la nascita dell'industria "Ceramica" che ha rivoluzionato e trasformato radicalmente non solo l'aspetto e il ruolo economico della nostra cittadina, (come già evidenziato nei paragrafi precedenti) ma anche le abitudini linguistiche della popolazione residente, come vedremo ora.

La Sassuolo "avanti Ceramica" (fino alla seconda guerra mondiale) è sì centro egemone della Valle del Secchia, crocevia importante fra pianura e valle e fra le diverse zone del pedemonte modenese e reggiano, ma rimane pur sempre un "borgo" agricolo abitato quasi esclusivamente da persone nate a Sassuolo (tanto che le fonti più anziane sottolineano ironicamente come a quei tempi ''per sentire parlare con accento meridionale e di altre regioni, occorreva recarsi negli uffici pubblici, come in Pretura, al Registro o alle Imposte") che si conoscono vicendevolmente; caratterizzata prevalentemente da una società contadina in cui il dialetto locale rappresenta il codice più usato in ogni ambito della comunicazione, anche laddove più costanti sono i rapporti con i furas'te:r, "i forestieri", come nel commercio. D'altro canto, l'italiano è parlato da poche persone che appartengono alle classi più abbienti (nel nostro caso i grandi proprietari terrieri e i commercianti) e spesso, a detta di molte fonti, in modo insicuro e "storpiato" oppure da una fetta più ampia di popolazione nei contesti e rapporti più formali (per esempio con il prete, con il dottore, con il padrone).

E' dunque legittimo parlare a Sassuolo nei primi anni del ventesimo secolo di una situazione di diglossia estremamente produttiva ed equilibrata, che consente di mantenere la pregnanza comunicativa e le distanze sociali, non eliminabili in una società come quella sassolese ancora sostanzialmente conservatrice nonostante il commercio, che annovera una tradizione plurisecolare, abbia creato evidenti tracce di apertura a circuiti comunicativi più ampi.

Con l'avvento dei primi, grandi stabilimenti ceramici intorno agli anni trenta-quaranta, si innesca un inarrestabile procedimento che nel giro di pochi decenni cancella, quasi totalmente la società contadina sassolese e contestualmente l'equilibrio linguistico. La "cosiddetta" Sassuolo dopo Ceramica presenta caratteristiche linguistiche completamente differenti e dovute alla convergenza di numerosi fattori che hanno catalizzato un veloce processo di diffusione dell'italiano nell'uso orale. Fondamentali e determinanti sono l'industrializzazione e la massiccia immigrazione che trasformano Sassuolo in una sorta di "Italia linguistica in miniatura" in cui si mescolano e convivono gente differente che parla idiomi diversi e che trova nell'italiano (spesso nelle sua varietà più basse) il codice più idoneo per comunicare. Come ci riferiscono molte fonti durante l'inchiesta sociolinguistica, in molti casi non sono i sassolesi "di nascita" a modificare le loro abitudini, perché si assiste da parte dei nuovi arrivati ad un atteggiamento emulativo e mimetico (proprio della situazione linguistica degli immigrati delle grandi città del Nord): gli immigrati cercano, cioè, da una parte di ridurre l'uso del loro dialetto dall'altra di assorbire quello locale per avere risultati più immediati nella comunicazione e nelle comprensione e per ottenere una maggiore considerazione sociale ed integrarsi meglio nel tessuto economico del paese[51]". Ma casi del genere costituiscono più l'eccezione che la regola: infatti la convivenza con gli immigrati porta i sassolesi ad accantonare la parlata locale a favore di un italiano che si comincia a possedere sempre di più grazie all'azione concomitante della scuola. Inoltre l'uso del dialetto nei luoghi di lavoro perde la sua significanza linguistica perché non è più adeguato alla nascente ed invadente realtà industriale e la terminologia tecnologica che di essa è il portato. Il dialetto rimane invece il codice ancora più usato nei contesti informali e familiari (specialmente secondo specifiche coordinate sociolinguistiche: infatti nelle generazioni più giovani e nelle classi più istruite è evidente il suo regresso a favore della lingua nazionale).

Anche la scolarizzazione e il grado di istruzione raggiunto dai parlanti rappresentano due fattori che contribuiscono ad accelerare

l'evoluzione linguistica della popolazione sassolese. Specialmente durante l'età fascista e nel dopoguerra, a Sassuolo come altrove, la scuola ha un ruolo determinate nel combattere sia l'analfabetismo che la dialettofonia ma a Sassuolo come in pochi altri luoghi il fenomeno è stato accelerato a causa dell'inusitata esplosione industriale, economica e demografica di cui si è parlato e per questa sua rapidità la nostra città rappresenta certamente un caso molto particolare. Molti anziani, ma non solo loro, non dimenticano la severità e la durezza dei loro maestri di fronte all'uso del dialetto, una sorta di "caccia alle streghe" continuata anche dai genitori a casa. Questo atteggiamento dialettofobo degli insegnanti e dei genitori unito ad un forte desiderio di promozione sociale raggiungibile anche attraverso l'autocensura dialettale, rappresenta, o meglio ha rappresentato secondo noi, elemento di grande rilievo nel processo di italianizzazione della società sassolese sempre più proiettata al futuro e sempre meno propensa a portarsi sulle spalle la vergogna della povertà e del passato; sono ipotesi tutte da provare ma intuitivamente, anche dalle interviste da noi effettuate, ci sembra che questa componente per così dire "psicologica" abbia agito in modo significativo sul comportamento di molti sassolesi, specie in quelli che, arricchitisi in breve tempo, hanno voluto immediatamente legittimare la propria appartenenza alla società degli istruiti e dei ricchi rinnegando gli aspetti più eclatanti della vita contadina, primo fra tutti la lingua.

Ultimo elemento, in ordine di tempo, fondamentale per capire e comprendere la situazione linguistica è, effetto naturale dello sviluppo economico, la forte crescita del settore terziario e di in particolare lo svilupparsi di nuove forme di commercio che vedono la cancellazione delle piccole botteghe e la diffusione esorbitante nel territorio sassolese di ipermercati e grandi magazzini richiamati dalle prospettive di guadagno. Essi modificano le abitudini di vita perché incentivano la già diffusa standardizzazione dei consumi e delle nuove terminologie le quali soppiantano sempre di più quelle tradizionali. Come anche evidenzia Coco "la civiltà industriale a tecnologia avanzata, con l'immissione sul mercato di una varietà eccezionale di prodotti (attrezzature, utensili, ecc.) sostitutivi o del tutto nuovi rispetto a quelli dell'artigianato locale tipicamente legato ad un particolarismo della civiltà agricola e al particolarismo dialettale, ha operato ed ha imposto un'azione di standardizzazione di molte realtà oggettuali e quindi di standardizzazione linguistica. Grazie anche alla pubblicità dei prodotti commerciali ed industriali si sono imposte non solo nuove cose ma anche nuove denominazioni con la conseguenza di determinare il tramonto di molti termini tradizionali schiettamente dialettali trapiantati da tempo nella lingua e l'accettazione di termini nuovi da parte degli stessi dialetti" (1982:30).

Per concludere, si può dire, in base alla mia esperienza diretta e al materiale raccolto attraverso l'inchiesta, che ad oggi la dialettofonia a Sassuolo è in evidente crisi: solo la fascia degli anziani e degli adulti oltre i quarant'anni ancora attiva con una certa regolarità e frequenza l'uso del dialetto locale o spesso italianizzato mentre le giovani generazioni ne hanno scarsa competenza attiva e a volte nemmeno passiva o in ogni modo essa, nella maggior parte dei casi, si limita alla conoscenza quasi "aneddotica e folcloristica" di specifiche locuzioni o espressioni che non segnalano certamente una competenza di fondo ma si qualificano come semplici citazioni, conosciute perché ricorrenti e quindi assorbite e poi riutilizzate. Il dialetto sassolese, come tanti dialetti italiani, ha assunto quindi una nuova dimensione funzionale: il suo uso, è soprattutto un elemento demarcativo nei rapporti generazionali e costituisce, in determinati contesti sociali strumento di rivendicazione della propria identità di origine.

 

Se esaminiamo la Carta dei dialetti italiani realizzata da G.B. Pellegrini[52] (1977) verso la fine degli anni settanta che rappresenta, secondo la maggioranza degli studiosi, la più completa rappresentazione cartografica finora realizzata sulle parlate italiane, abbiamo gli strumenti più idonei per inserire e collocare il dialetto da noi analizzato, quello di Sassuolo, all'interno di tutto l'orizzonte dialettale italiano. Innanzitutto, esso fa parte, come è evidenziato "cromaticamente" dalla carta, del gruppo dei dialetti alto-italiani che comprendono tutta l'Italia settentrionale ed in particolare della famiglia delle parlate gallo-italiche, a sostrato celtico, estese nell'area centro-occidentale e sud-orientale dell'Italia del Nord con le quali condivide i tratti generali più importanti[53].

Come si colloca il sassolese entro questa macrodistinzione? Il sassolese non può semplicisticamente definirsi dialetto "gallo italico emiliano romagnolo" perché anche all'interno dei confini della nostra regione si riscontra la mancanza di unità linguistica ed adottata ormai tradizionalmente la suddivisione, storico-culturale prima che linguistica, tra territorio ad occidente con la diffusione dei dialetti emiliani occidentali (parlati a Piacenza, Parma, Reggio Emilia e Modena), e territorio ad oriente, con il fiume Panaro posto a discrimine, a sua volta caratterizzato da altre due diverse sottovarietà dialettali: quella dei dialetti emiliani orientali (nelle province di Bologna e di Ferrara) e quella dei dialetti romagnoli (Forlì, Ravenna, Rimini).

Questa rigida spartizione non tiene però, conto della collocazione vera del modenese che in realtà si pone più che ad occidente, in una zona di transizione (Bertoni, il più importante studioso ad oggi della, parlata modenese, la classifica infatti come varietà "mediana") tra est e ovest condividendo tratti soprattutto fonetici dell'emiliano occidentale e tratti dell'emiliano orientale (il bolognese in particolare).

Il nostro dialetto si inserisce, inoltre, ai margini della varietà modenese pur appartenendo sostanzialmente ad essa: Bertoni stesso, tracciando l'area di diffusione del vernacolo di Modena, sottolinea che è parlato lungo una striscia che, delimitata ad est da Bologna, ad ovest da Reggio Emilia, comprende Modena al centro, a sud va da Sassuolo a Vignola e a nord si allontana da Modena, per esaurirsi verso Carpi, senza però comprenderla.

Il sassolese è un dialetto quindi che risente moltissimo della speciale collocazione in cui si trova il paese , assorbendo molte influenze non solo da Modena ma anche dal territorio reggiano e bolognese così da assumere una fisionomia tutta particolare. Riteniamo utile qui delineare brevemente solo quei tratti che accomunano il sassolese con il dialetto del capoluogo e i pochi tratti che invece isolano il sassolese dal modenese in base al confronto con i vocabolari esistenti del dialetto modenese, Maranesi e Neri.

Partendo dalla considerazione dei fenomeni vocalici che avvicinano più i due dialetti ai dialetti orientali che a quelli occidentali (come prevede la classificazione di Pellegrini) distingueremo i seguenti casi:

a) la palatalizzazione della vocale [a] del latino, lunga e breve, che presenta come esito, il pieno sviluppo della vocale in [e] allungata: 'me:r  ' mare ', a'me:r  'amare', vu 'le:r, 'volare'. Il passaggio avviene nelle specifiche condizioni di sillaba libera e davanti ad [r] e [l] seguite da consonante ed è esito caratteristico dei dialetti romagnoli e del bolognese mentre verso occidente (non a Reggio dove si ha ancora [e] ma già a Parma) da [e] si passa ad una vocale [a] turbata, e a Piacenza, non c'è più

traccia di questa alterazione[54]. Davanti a nasale, la parlata modenese si

distingue da tutte le altre varietà dialettali confinanti e anche dal dialetto

di Bologna perché non presenta questo passaggi[55]: modenese e sassolese 'ra:na contro bolognese 're:na ,'rana', modenese e sassolese kam pa:na contro bolognese. kam 'pe:na, 'campana'.

b) presenza di vocali toniche di durata lunga: nel modenese e nel sassolese più che in altre varietà occidentali dell'Emilia le vocali toniche in sillaba libera, quando non dittongano si presentano allungate: a'me:r, 'amare, ka'ti:v 'cattivo' , du:r ,'duro contro dur a Parma, ro:da contro roda a Parma, 'ruota' (gli ultimi esempi presentano inoltre vocali turbate tipiche anche dei dialetti lombardi, piemontesi e liguri).Questo fenomeno è spiegato da Coco come effetto dell'eccezionale valorizzazione assegnata alle sillabe toniche e in particolare alla vocale tonica che ne costituiscono "il fulcro sonoro" (Coco 1982:246), che hanno provocato effetti distruttivi sulle vocali atone e d'altro canto hanno concentrato su di loro, in misura rilevantissima, le proprietà distintive, fonologiche e morfologiche, delle parole [56].

c) Esito diverso di [u] lunga latina in sillaba chiusa : la vocale non si limita ad uno stadio di apertura in [o](come troviamo a Reggio Emilia e a Parma), ma arriva ad [a] (come a Bologna) anche se forte è l'oscillazione della parlata sassolese e di quella modenese tra questa forma e quella con [o]:dial. sassolese 'grasta"crosta", a 'gast "agosto", pjamb "piombo".

Passando ora alle differenze tra i due dialetti notiamo come il sassolese rispetto al modenese presenta due forme di dittongazione di vocali toniche non presenti nel dialetto del capoluogo; e cioè:

a) Il dittongamento della vocali toniche latine le [e] lunga e [i] breve (che in latino volgare si sviluppano in [e])in sillaba libera, in [ej] documentato nella generalità della regione e dell'area gallo-italica ma non a Modena in cui compare [e] da intendere, secondo Coco, come una chiusura recente del dittongo in esame, piuttosto che una conservazione di una fase moto antica, anteriore alla dittongazione stessa (concorda anche Rohlfs, che riconosce in questo fenomeno uno stadio della riduzione da un precedente [ej], ovvero [ej]): sassolese savejr, 'sapere’,teja, 'tela', kandejla, 'candela' contro al modenese sa've:r,' te:la, kan 'de: la

b) Il dittongamento della vocale tonica latina [o] lunga e [u] breve ([o] in latino volgare) in [ow] e in [aw]: al dittongamento in [ej],corrisponde, nell'emiliano orientale e nella zona di Bologna e Reggio, la mutazione di [o] in[ow][57]: du'towr "dottore", du'lovr "dolore" mentre nell'emiliano occidentale non avviene la dittongazione. A Modena il comportamento si allinea a quello dell'emiliano occidentale con esito [o] e le corrispondenti forme du 'to:r, du 'lo:r, du 'tu:r, du 'lu:r che lasciano il campo a qualche dubbio su una necessaria e generalizzata preesistenza del dittongo [owJ. Nella parlata sassolese, come nel bolognese, si verifica invece, un'ulteriore apertura del primo elemento così da ottenere come esito il dittongo [aw]: dial. sassolese du'tawr, fjawr, dulawr. Davanti a consonante nasale invece il modenese dittonga ma si ferma al primo stadio in [ow] di contro al sassolese che presenta ancora l'ulteriore apertura in [awJ: modenese frownt –sassolese frawnt "fronte", kan 'town-kan 'tawn, "angolo".

Nel consonantismo, il dialetto sassolese condivide tutte i fenomeni del modenese[58]; l’unica differenza rispetto al dialetto del capoluogo è costituita dal diverso trattamento della palatale [tf] in posizione iniziale e interna: mentre infatti nel modenese (e in tutto l'emiliano orientale) la palatale ha dato luogo all'affricata [ts], nel dialetto di Sassuolo (e anche in quello di Reggio e della zona emiliana occidentale) prevale la realizzazione [s] giustificabile come un ulteriore sviluppo del suono che perde la sua "appendice" dentale: modenese tser’ve:l -sassolese ser've:I, "cervello", 'pj:atsa - 'pja:sa "piazza", pasti’tse:r -

pasti 'se:r, "pasticcere".

 

CAPITOLO QUARTO

 

 

Come abbiamo visto, nel repertorio linguistico della comunità italiana si sta verificando una ristrutturazione, con conseguente riorganizzazione, delle varietà linguistiche "in gioco" ed, in particolare, delle varietà dialettali che per la massiccia influenza dell'italiano mutano completamente la loro facies esterna. Il fenomeno, già in atto da tempo, negli ultimi decenni ha registrato una accelerazione improvvisa (anche se non inaspettata) sotto la spinta delle trasformazioni socio-economiche che hanno modificato nella società, il modo di vivere e, per riflesso immediato, anche il comportamento e le scelte linguistiche dei parlanti.

L'esame delle numerose teorie e riflessioni elaborate dagli studiosi di dialettologia sulle variazioni del dialetto e sulla tipologia del suo rapporto con l'italiano, ha consentito di verificare come esse siano sempre in fase di definizione e ridefinizione, tanto da rendere difficile ed insidiosa la costruzione di un modello teorico che abbracci e spieghi l'intera situazione linguistica italiana. Anche Sornicola evidenzia questo limite metodologico (1977:61): "una tipologia del rapporto lingua- dialetto non è costruibile una volta per tutte secondo un certo schema, ma il modello teorico proposto può essere valido solo se la sua formulazione viene operata tenendo il più possibile conto delle esperienze di situazioni concrete particolari, la determinazione è ogni volta a posteriori, ricavabile cioè in base all'esame di una particolare casistica".

Scopo dell'inchiesta condotta è proprio quello di passare dalle "ipotesi di lavoro" (Sornicola 1977:37), ai dati concreti, accertando 'sul terreno' la validità delle teorie. Si è voluto, in particolare, documentare il processo di italianizzazione, cioè di adeguamento del dialetto all'italiano, ed indagare le sue modalità di diffusione e la sua distribuzione sociolinguistica nel "microcosmo sociale "(Politi Marcato 1974:97) di Sassuolo: centro che, più di altre città emiliane, ha assistito in pochi anni ad una trasformazione convulsa e totale della sua struttura economica, demografica, sociale e che si rivela, per questo, osservatorio molto interessante.

L'indagine prevedeva due fasi importanti: la prima, attraverso un questionario sociolinguistico, mirava ad individuare le funzioni che oggi assolve il dialetto della città di Sassuolo, cioè a conoscere gli usi della lingua e del dialetto presso i parlanti che appartengono a questa comunità urbana, ponendoli in relazione con alcune variabili demografiche e sociologiche, e con fattori della situazione comunicativa. Abbiamo poi effettuato una raccolta di informazioni sulle valutazioni e sugli atteggiamenti degli intervistati riguardo al comportamento linguistico, alla loro percezione dei due codici e dei relativi cambiamenti[59].

Dopo questo primo "avvicinamento sociolinguistico esplorativo", nella seconda fase (quella fondamentale) l'inchiesta si proponeva di andare in profondità, all'interno delle strutture del dialetto di Sassuolo, per determinare il grado di innovazione e di modificazione del dialetto stesso; l'obiettivo diventava quindi quello di fotografare la dinamica effettiva tra conservazione e innovazione attraverso il reperimento di materiale lessicale e il suo successivo confronto con il corpus lessicale antico già a disposizione.

 

Focalizzati gli obiettivi, ci si è chiesti quali fossero le tecniche di elicitazione, cioè di reperimento di materiale sul campo, più adeguate a questa ricerca e si è deciso di impiegare la tecniche più tradizionale cioè il questionario.

 

    4.2.1 Il questionario "sassolese"

                  E' stato strutturato in due diverse sezioni che hanno indagato dall'esterno e dall'interno la situazione attuale del dialetto di Sassuolo: La sezione sociolinguistica[60], costituita da 50 domande, consta di cinque parti. La prima, (formata da 16 domande) mirava a raccogliere i dati fondamentali del parlante intervistato, rilevandone le variabili socialmente pertinenti: età, luogo di nascita, luogo di residenza, luogo di nascita dei genitori, scolarità, professione, stato civile. Quattro domande, in particolare, indagavano l'integrazione nella rete sociale, variabile, quest'ultima, che, come abbiamo fatto rilevare precedentemente (cfr. capitolo 2.7), si sta rivelando dagli ultimi studi, determinante e fortemente significativa per le successive scelte linguistiche dei parlanti. Nella seconda parte veniva richiesta la lingua "materna", quella che si è per prima appresa, e si cercava di rilevare quale fosse la consapevolezza dell'intervistato circa la propria competenza passiva e attiva del dialetto e circa l'uso dei due codici. La terza parte della sezione sociolinguistica interrogava l'intervistato sulle fondamentali varietà di lingua usate di solito in una serie di prevedibili interazioni tipiche, distinte in base ai tre fattori della situazione giudicati di maggior rilevanza: interlocutore, ambiente microsociologico o "luogo", e argomento. La quarta parte mirava a conoscere le valutazioni dell'intervistato su alternanza di codice e enunciazioni mistilingui all'interno della conversazione. L'ultima parte, infine, intendeva sollecitare e raccogliere opinioni in merito al futuro del dialetto in generale e di quello di Sassuolo in particolare, e captare eventuali pregiudizi.

 

Questa parte del questionario è stato somministrata all'inizio dell'intervista; le domande sono state spesso adattate alle particolari caratteristiche della fonte intervistata, invertendo l'ordine o formulandole in modo leggermente diverso, quando la situazione lo richiedesse. Per quanto riguarda la resa e i risultati, conoscevamo in partenza i limiti insiti in un questionario di taglio sociolinguistico: infatti, per definizione di metodo, "l'intero panorama concettuale che scaturisce da inchieste basate su tale tipologia di domande, ha una chiara impronta soggettiva e si fonda su autovalutazioni" (vedi Grassi/Sobrero/Telmon 1997:287) così da ottenere non un'immagine oggettiva della realtà indagata ma filtrata attraverso l'occhio degli intervistati. Pur con questa consapevolezza riteniamo, in ogni modo, insieme a Berruto (1977: 49-50), che inchieste del genere siano opportune ed utili perché permettono di rilevare e analizzare "i criteri di scelta dei codice che il parlante crede di mettere in opera: e questa -come evidenzia ancora Berruto- è certo cosa non irrilevante per definire gli orientamenti culturali della comunità e gli stereotipi eventuali vigenti riguardo al repertorio linguistico ed alle sue varietà, difficilmente rilevabili con l'osservazione partecipante"[61]. La sezione linguistica del questionario, ha richiesto particolare cura ed attenzione perché la presente ricerca è fondata principalmente sui dati lessicali ricavati in questa fase. E' costituita da una questionario lessicale: infatti, come rilevato (cfr. capitolo 2.8), è l'italianizzazione del lessico dialettale il fenomeno che più sta modificando la struttura tradizionale del dialetto. Durante le interviste ci siamo, però, accorti di come attraverso il lessico, anche nella situazione sassolese, si siano verificati e si stiano verificando fenomeni di ristrutturazione fonetica e morfologica che non abbiamo mancato di sottolineare e di sottoporre ad una ulteriore analisi.

Gli obbiettivi dell'inchiesta hanno richiesto la formulazione di domande dal taglio onomasiologico[62]: attraverso di esse, in altre parole, si volevano reperire, per poi confrontarle e analizzarle, le diverse denominazioni dialettali di uno stesso referente all'interno del punto designato, così da documentare l'eventuale evoluzione ed innovazione grazie alla successiva comparazione dei tipi lessicali raccolti dalle fonti prescelte.

Purtroppo non è stato possibile, come per altri lavori dialettologici[63], consultare ed operare confronti con i dati degli atlanti dialettali (frutto di inchieste sul campo), per cui ci siamo affidati alla consultazione dei vocabolari dialettali a disposizione; in mancanza di un vocabolario specifico della parlata sassolese, siamo ricorsi al dialetto modenese (con il quale, come abbiamo visto nel capitolo precedente, il sassolese condivide le caratteristiche strutturali e lessicali principali) per il quale abbiamo a disposizione due lessici molto importanti: il Maranesi (1893) e il Neri (1971 nella prima edizione, e 1981 nell'edizione aggiornata, corretta ed arricchita). Si è proceduto quindi a consultare, prima singolarmente, poi parallelamente, i due vocabolari e si sono selezionate tutte quelle voci che, in base alla mia competenza (attiva e passiva, in quanto membro ben integrato all'interno della comunità sassolese) e intuizione, mi sembravano ormai desuete o, per lo meno, non più ricorrenti in quella particolare forma, nel dialetto sassolese e che potevano essere "fortemente indiziate come segnalatori di una fase di destrutturazione (o ristrutturazione) lessicale" (Sobrero 1991:46).

Durante questo spoglio, sono stati annotati anche i termini dubbi, su cui cioè forte era l'incertezza circa una loro possibile modificazione, ma che ci sembrava comunque corretto sottoporre a verifica; i termini selezionati, alla fine, erano più di 1000, ma durante inchieste di prova, molti si sono rivelati sconosciuti agli informatori (anche per competenza passiva), per cui sono stati eliminati dal questionario.

Per il restante materiale, entrambi i dizionari sono stati preziosi punti di riferimento per documentare le trasformazioni e le evoluzioni (anche semantiche) delle denominazioni dialettali, nonostante le loro "strutture" e le finalità che li sorreggono fossero molto diverse. Ci sembra opportuno, quindi, presentarne le caratteristiche essenziali, i punti di "forza" e i punti "deboli", in quanto essi rappresentano le uniche fonti, da noi utilizzate, del dialetto "tradizionale" dalle quali partire per giustificare e comprovare le eventuali innovazioni.

 

Il "Vocabolario modenese- italiano" del Maranesi

Pubblicato nel 1893, è un dizionario molto interessante perché riesce

ad assolvere due funzioni fondamentali: da una parte, l'istanza pratica, immediata, di dare ad una comunità ancora profondamente dialettofona come quella di Modena e dintorni[64] uno strumento per apprendere, con tavole di raffronto, la lingua nazionale (della cui conoscenza almeno le classi più agiate sentivano urgentemente la necessità), fornendo così, all'unità politica da poco raggiunta ,un collante umano che vistosamente  mancava. Maranesi stesso, alla fine della sua prefazione, indica quali siano gli unici e veri destinatari della sua opera: "il mio vocabolario non è fatto per i linguisti, ma per il nostro popolo modenese, e per i suoi usi quotidiani", in questi termini si inserisce a pieno titolo tra i dizionari dialettali ottocenteschi che sentono fortissima l'esigenza di dare, nel modo più preciso possibile, le corrispondenze italiane dei termini dialettali per tutte le parti del discorso (siano esse verbi, sostantivi o aggettivi). Dall'altra parte, si nota come sia vivo il desiderio, espresso chiaramente nelle pagine introduttive, di raccogliere tutta la parlata viva di Modena per documentarne la ricchezza e la bellezza delle espressioni e per far conoscere, attraverso la lingua, le tradizioni popolari, gli usi, le credenze, tutti gli aspetti, cioè, della cultura materiale che riguardano la vita vivace e "frizzante" della comunità modenese. A questa tensione descrittiva, si riconduce il desiderio di registrare tutta la terminologia possibile riguardante mestieri e professioni, quelli che, in etnografia, sono definiti i "temi ergologici" (in particolare il lavoro nei campi, ,la tessitura, la lavorazione della canapa, i mestieri artigianali, che il Maranesi riunisce sotto la categoria "arti e mestieri"), la vita domestica, gli animali (anche se definiti senza precisione scientifica -come farà invece il Neri- ma con spiegazioni molto impressionistiche e "personalizzate"), le caratteristiche fisiche e psichiche degli uomini, non solo limitandosi all'accezione letterale ma anche registrando tutte le eventuali estensioni metaforiche e figurate che ogni voce possiede.

E' un vocabolario molto ricco sia per le descrizioni lessicali (servendosi dei vocabolari italiani dell'epoca ci fornisce definizioni molto approfondite e precise, specialmente quando si tratta di oggetti e attrezzi di uso quotidiano), che per le abbondanti informazioni morfologiche: la fraseologia, le varianti diastratiche e diatopiche (vengono segnalate le forme cittadine e quelle proprie del contado), quelle diafasiche ( si registra l'uso familiare dei termini e quello tecnico, quello letterario e quello gergale). Anche i rimandi ai sinonimi sono ricorrenti, così come i rinvii a varianti della stessa forma, ma con prefissi o suffissi diversi: da questo punto di vista la frequenza costante di questo tipo di alternanze e oscillazioni di varianti per uno stesso referente ci ha indicato chiaramente il dinamismo strutturale, la dinamica interna tra conservazione e innovazione, già presente e attivissima alla fine dell’Ottocento; inoltre il Maranesi ci attesta tutte le forme alterate dei sostantivi (diminutivi, accrescitivi, dispregiativi e anche forme vezzeggiative), i sostantivi deverbali e i verbi che derivano da sostantivi.

Prezioso strumento di lavoro è poi la ricca esemplificazione, differente a seconda che il termine sia usato in senso assoluto, o all'interno di modi di dire, proverbi, locuzioni particolari; abbiamo notato, al riguardo, che più il termine è usato, più ricco è il corredo di esempi: questo dato ha costituito una preziosa chiave di lettura ai fini dello spoglio dei lemmi per la nostra ricerca in quanto permetteva di capire ,difronte a due sinonimi, quale nella realtà fosse il più utilizzato: molto spesso è capitato di rilevare (e se ne è avuta la controprova anche in sede di raccolta sul campo) come il termine più arcaico fosse quello ancora più ricorrente nonostante l'esistenza e l'attestazione dell'italianismo più recente.

Il Maranesi possiede, però, anche alcuni spiacevoli difetti: da una parte non rispetta sempre l'ordine alfabetico, per cui a volte è stata difficile la consultazione dei lemmi, dall'altra parte utilizza, per rappresentare i suoni particolari, segni grafici molto soggettivi e poco scientifici che rendono talora difficile l'esatta interpretazione della pronuncia del termine dialettale. Il lessicografo, già nella prefazione si dichiara consapevole di questa sua lacuna ("quanto alla rappresentazione de'suoni so benissimo che avrei dovuto attenermi ai segni generalmente accettati dalla moderna linguistica"), ma sembra non preoccuparsene eccessivamente e si giustifica con i lettori parlando "di gravissime difficoltà tipografiche" che lo hanno portato a rinunciare ai segni stabiliti dalla scienza e a ricorrere "a una convenzione speciale "con il lettore attraverso l'ausilio di una specchietto convenzionale posto prima del vocabolario vero e proprio che illustra tutte le corrispondenze tra suoni del dialetto e segni adottati.

 

   Il "Vocabolario del dialetto modenese" del Neri

Al contrario del precedente, questo lessico è molto più sobrio di informazioni. Pubblicato la prima volta nel 1970 e andato esaurito, l'autore ne ha poi curata una nuova edizione "aggiornata" nel 1981 ed è di questa che ci siamo serviti. Tra le tante le differenze che lo distinguono dal vocabolario precedente sottolineiamo la diversa area dialettale inquadrata dall'opera: infatti mentre Maranesi ha concentrato la sua attenzione su Modena città e le zone del contado più vicine, Neri allarga i confini e dichiara di volere raccogliere il lessico di tutta la varietà del dialetto modenese, definita mediana e comprendente Modena al centro ,Sassuolo e Vignola a sud e tutta l'area a nord del capoluogo fino a Carpi esclusa. In ogni modo Neri sottolinea come questa varietà mediana poco si discosti dal modenese cittadino, rispetto al quale include solo "un certo numero di voci e di locuzioni più proprie del contado e della montagna"(pagina XIV).

Per quanto riguarda le fonti utilizzate, esse sono, per diretta ammissione dell'autore, essenzialmente scritte; quindi non la documentazione orale di prima mano, ma i lessici precedenti (il Maranesi ma anche altri manoscritti anteriori che il Neri ha avuto il merito di riscoprire), le opere di letteratura dialettale, le pubblicazioni, le riviste, tutto quello che in dialetto modenese (sia della pianura che delle zone appenniniche) è stato scritto, si è confermato, per lui, strumento di consultazione e fonte preziosissima[65]. Questo primato delle fonti scritte ci dimostra come Neri, in qualità di cultore del dialetto modenese, più che di lessicografo addetto al mestiere, si proponga essenzialmente di raccogliere i termini più antichi e peculiari della parlata modenese

attingendoli soprattutto dalla letteratura: per questo nella scelta delle voci per il suo corpus dialettale privilegia le forme che differiscono dalla lingua italiana ed include molti meno italianismi rispetto a quelli reperibili nel Maranesi.

Altra particolarità dell'edizione del 1981 è l'appendice che ha richiesto da parte nostra una doppia consultazione: l'autore ammette di non essere riuscito, per problemi di costo, a ristampare interamente il dizionario, e così alla fine ha aggiunto un aggiornamento con correzioni e nuove parole, alla quale, parallelamente alla consultazione del dizionario originario, ci si è rifatti per verificare eventuali cambiamenti ed evoluzioni. In un secondo tempo, analizzando invece autonomamente questa ultima sezione, abbiamo notato come la maggior parte delle 1300 voci che Neri dichiara di aver aggiunto, non sia rappresentata da italianismi entrati recentemente nell'uso, ma da termini arcaici che non erano stati segnalati precedentemente; questo dato è molto significativo, a nostro parere, perché ci fornisce una prova ulteriore sul fine che ha spinto Neri a raccogliere in un dizionario il lessico modenese: quello di salvare le voci più caratteristiche del dialetto per mantenerle vive almeno nella memoria dei modenesi e non tanto di registrare i cambiamenti e le modificazioni dei significanti (che in ogni modo, in alcuni casi, sono segnalati) e dei significati.

Consultando l'opera ci siamo accorti, poi, come un'altra caratteristica di questo vocabolario è quella di non fornire la definizione dettagliata dei termini, ma solo il corrispondente italiano ed eventualmente l'uso figurato; non sono inoltre registrati né i sostantivi alterati, né quelli derivati e anche la fraseologia è piuttosto limitata, se confrontata con quella dell'altro lessico. Anche l'esemplificazione, non solo è scarsa e ridotta all'essenziale, ma, nella maggioranza dei casi, è ricavata da testi letterari (anche del '400) che ci documentano poco le modalità d'uso del termine nella lingua parlata (nel Maranesi, al contrario, ogni termine era contestualizzato in frasi che riguardavano la vita di tutti i giorni quindi legate alla comunicazione quotidiana).

Se finora abbiamo ricordato solo le assenze importanti di questo dizionario, non possiamo dimenticare le importanti presenze: la ricca raccolta, in appendice, di proverbi, modi dire, locuzioni; la lista di paraetimologie che ci testimoniano le difficoltà dei parlanti (specialmente in passato) di adattare al dialetto le nuove forme dell'italiano e di interpretare i nuovi significati, e soprattutto il preziosissimo repertorio finale italiano -dialetto in cui ad ogni voce italiana corrispondono tutte le voci dialettali, arcaiche e recenti attestate nel lessico: qui abbiamo trovato registrate forme (specialmente italianismi) non attestate poi all'interno del vocabolario vero e proprio e che portano a difficili problemi di interpretazione sull'uso effettivo che queste stesse hanno. Per gli scopi della presente ricerca queste forme nuove erano preziosissime, per cui non abbiamo mancato di sottoporle a verifica, accorgendoci che effettivamente esse sono entrate a pieno titolo nell'uso della comunità da noi indagata.

Nel Neri è sempre presente l'attestazione di termini ormai sconosciuti e desueti, contraddistinti da una specifica segnalazione grafica (*): in alcune pagine è significativa la maggiore presenza di questi termini rispetto a quelli ancora ricorrenti (prova della preferenza già evidenziata, data da Neri alle forme più antiche del patrimonio lessicale modenese e presumibilmente, anche sassolese).

Infine, non si può dimenticare il grande spazio riservato da Neri a determinati settori del lessico: soprattutto i giochi dell'infanzia a cui dedica lunghe spiegazioni e approfondimenti, oltre che un'appendice finale, e la vita dei campi, con una particolare predilezione per la terminologia legata alla viticoltura (si trovano, al riguardo, termini arcaici che nemmeno il Maranesi attesta)[66].

La selezione di voci compiuta sui dizionari di Maranesi e Neri ci ha permesso di costruire la sezione linguistica del questionario sassolese: per maggior praticità abbiamo raggruppato i termini selezionati in campi semantici (i più cospicui sono risultati quelli relativi al "mondo domestico", alle "attività lavorative ed attrezzi", al "comportamento dell'uomo" e alle "caratteristiche psichiche e fisiche dell'uomo"). In tal modo sono state facilitate le interviste stesse, dal momento che si è potuto inserire il materiale lessicale in un "co-testo", che ha reso meno aride e più discorsive le nostre verifiche.

Il criterio adottato per somministrare il materiale linguistico agli informatori è stato quello di creare un "questionario a domande fisse, secondo la metodologia di nominare un referente" (Berruto 1977: 129-130); per ogni termine da sottoporre a verifica si è costruita cioè una domanda indiretta: per ottenere, per esempio, il corrispettivo dialettale del termine italiano "arrotino", si è chiesto: "come si chiama chi affila i coltelli?". Abbiamo scelto di adottare questo tipo di formulazione perché ci è sembrato più funzionale ai nostri scopi rispetto alla tecnica della domanda diretta (del tipo: "come si dice gomitolo?") che avrebbe condizionato troppo la fonte, suggerendole già, inconsciamente, il modello lessicale a cui fare riferimento. Per lo stesso motivo anche la tecnica della formulazione di frasi da tradurre non ci è sembrata in questo caso adeguata in quanto avrebbe affaticato ancora di più la fonte.

 

Riflettendo sulla scelta degli informatori per la nostra inchiesta ci siamo trovati perfettamente d'accordo con Sobrero quando, ponendosi il problema metodologico nella scelta delle fonti per il suo lavoro di ricerca nel Salento, ammetteva che "scartati per motivi (l'uno teorico, l'altro pratico) i due estremi della rappresentatività secondo criteri sociologici (rapporto statisticamente significativo campione/universo) e dell'informatore unico, qualunque criterio concretamente applicabile, è teoricamente insoddisfacente, e viceversa." (Sobrero1992:45).

Anche per la nostra inchiesta la soluzione migliore sarebbe stata quella di sottoporre ad intervista, non un unico informatore, ma l'intera popolazione: essendo ciò impossibile considerato l'alto numero di abitanti (45000 circa secondo l'ultimo censimento), si è ricorsi alla selezione di un campione di popolazione. Come sottolineano Grassi, Sobrero e Telmon "(la campionatura), operazione delicatissima per più ragioni, deve garantire innanzitutto che la sua entità globale sia tale da poter essere considerata statisticamente rappresentativa dell'universo, cioè dell'insieme dei soggetti, della comunità indagata e, in secondo luogo, che il suo complesso riproduca la variegazione e la stratificazione dell'universo stesso"(1997:291).

Noi, tenendo conto delle caratteristiche sociali della nostra comunità che più incidono al suo interno, abbiamo cercato di individuare un campione stratificato della popolazione, che fosse rappresentativo almeno dal punto di vista qualitativo scegliendo 24 fonti. Naturalmente le tutte le fonti dovevano, come requisiti necessari, essere nati a Sassuolo e possedere una buona competenza attiva del dialetto locale.

Quanto alla stratificazione del campione, abbiamo previsto la divisione innanzitutto per età, in tre fasce[67]: meno di 35 anni (fonti giovani), tra i 35 e i 60 anni (fonti adulte) e più di 65 anni ( fonti anziane).

Altro importante parametro considerato è stato il tipo di occupazione/attività[68] svolto dalle fonti: agricoltura (attività tradizionale di Sassuolo), industria, settore terziario; non abbiamo operato una suddivisione in parti uguali ma, tenendo realisticamente conto dell'attuale situazione socio-economica di Sassuolo che ha pochissimi addetti attivi nell'agricoltura, si è pensato di selezionare il campione rispettando il più possibile queste tre categorie: ceto operaio, comprendente contadini, operai, piccolissimi artigiani, commessi, casalinghe; piccola borghesia, comprendente impiegati, insegnanti elementari, commercianti; borghesia, comprendente insegnanti (delle scuole medie e superiori), imprenditori, professionisti, funzionari, dirigenti.

Definiti i parametri e i criteri secondo cui orientarsi nella selezione, si sono cercati gli informatori nella cerchia delle conoscenze, in modo da avere informazioni ulteriori grazie alla frequentazione anche al di fuori del momento dell'inchiesta, in ambiti e situazioni comunicative "normali" con cui integrare i risultati dell'inchiesta e conseguire una più corretta interpretazione delle loro scelte lessicali. Inoltre, la vicinanza, in alcuni casi quotidiana, con queste fonti mi ha permesso di verificare in modo ancora più autentico la veridicità del comportamento esibito in sede di inchiesta, dove, anche riducendo, con diversi accorgimenti (vedi paragrafo successivo), la rigidità della situazione intervista, permaneva comunque, da parte degli intervistati, un controllo e una artificiosità e una sorta di "falsificazione" (soprattutto inconscia) degli atteggiamenti.

Di seguito forniamo la tabella della composizione effettiva del campione selezionato, in cui sono indicati rispettivamente: il numero corrispondente di ogni fonte (che diventerà essenziale durante la schedatura), l'età, l'occupazione, la scolarità, il sesso e quindi un breve profilo sociolinguistico delle fonti:

N

ETA

PROFESSIONE

LIVELLO D’ISTRUZIONE

SESSO

1

25

elettricista

licenza superiore

M

2

26

assistente sociale

laurea

F

3

27

operaia

licenza media

F

4

28

operaio

licenza media

M

5

29

commerciante

licenza superiore

M

6

30

operaia

licenza superiore

F

7

34

impiegata

licenza superiore

F

8

35

insegnante scuola media

laurea

F

9

44

operaia

licenza media

F

10

48

impiegato

licenza media

M

11

45

maestra elementare

licenza superiore

F

12

51

imprenditore

licenza media

M

13

55

vigile urbano

licenza media

M

14

59

operaia

licenza elementare

F

15

60

camionista

licenza elementare

M

16

61

casalinga

licenza elementare

F

17

63

imprenditrice

licenza media

F

18

65

ex operaia

licenza elementare

F

19

72

ex netturbino

licenza elementare

M

20

73

ex impiegato

licenza media

M

21

74

contadina

terza elementare

F

22

74

ex impiegato

Licenza media

M

23

80

contadina

terza elementare

F

24

87

contadino

terza elementare

M

 

FONTE 1: è nato a Sassuolo dove ha sempre vissuto. La madre proviene da un comune limitrofo (il cui dialetto coincide con quello di Modena), mentre il padre è nato a Modena. La fonte dice di capire abbastanza bene il dialetto (ma non le espressioni del più antiche e appartenenti alla "vita di una volta") pur ammettendo di non usare il codice molto spesso e "nemmeno in modo corretto".

FONTE 2: nata e residente "da sempre" a Sassuolo. La madre, ha abitato in campagna, in una frazione a pochi chilometri da Modena (Saliceta San Giuliano), poi si è sposata, ed è venuta ad abitare a Sassuolo, paese d'origine del marito (e padre della fonte). I genitori parlano sempre dialetto tra di loro e il più delle volte (specie "quando sono arrabbiati"), anche con lei. Afferma di capire benissimo il dialetto, ma la sua competenza attiva è molto scarsa: solo in casa, con la madre, e con i parenti più anziani (in particolare una vecchia zia, dialettofona esclusiva) utilizza regolarmente il codice dialettale mentre fuori, con amici, l'uso si riduce a brevi frasi, o espressioni, modi di dire, intercalari, ("scelti" consapevolmente, per rendere il discorso più espressivo, enfatico e "colorito".) per poi ridursi ulteriormente e in modo proporzionale alla diminuzione della familiarità con I'interlocutore (fattore per lei fondamentale nel guidare le sue scelte linguistiche).

FONTE 3: è nata e vissuta sempre a Sassuolo; la madre proviene da Fiorano (comune quasi attaccato al nostro ), mentre il padre e i nonni appartengono a Sassuolo da molte generazioni (facevano parte dei cosiddetti "roke'dejant”, cioè di coloro che abitavano nel nucleo più antico della città, intorno al palazzo ducale, la Rocca). Dichiara di capire perfettamente il dialetto imparato fin da piccolissima dai nonni dialettofoni integrali, ("forse -afferma- ho imparato prima il dialetto che l'italiano"), con i quali ha trascorso quasi tutti gli anni dell'infanzia. La sua competenza attiva è invece molto limitata; sostiene infatti che usa pochissimo il codice dialettale perché, dice, "ho la sensazione assurda che quando parlo in dialetto, specialmente con i miei nonni, li voglia prendere in giro e poi ho paura di sbagliare le parole, e quindi di essere presa in giro a mia volta"; sente molto di non essere "all'altezza" di parlare dialetto. Paradossalmente, parla più italiano con i genitori, i nonni e le persone anziane che con gli amici i quali non possono, vista la loro ridotta competenza dialettale, correggerla o stigmatizzare la sua pronuncia o il suo lessico.

FONTE 4: nato a Sassuolo, ha abitato per alcuni anni in alcuni comuni limitrofi (Magreta e Corlo, piccole cittadine con pochi abitanti); ora si è sposato e vive a Sassuolo; i genitori sono nati e vissuti nel rione più antico, intorno alla rocca Estense, nel cuore di Sassuolo. Capisce il dialetto anche se ne ha dimenticato numerosissime forme. Normalmente si sforza di parlare italiano in ogni situazione comunicativa, con i colleghi di lavoro, con i familiari, con gli amici coetanei e soprattutto con i bambini perché per lui, il dialetto, parlare dialetto è segno di ignoranza, e di "non cultura".

FONTE 5: nato a S. Michele (una frazione, sulle colline sassolesi) ora vive, con la moglie e la figlia, nel centro storico della città. Il suo lavoro di barista (gestisce una pasticceria insieme ai genitori) lo porta in contatto quotidianamente con persone di ogni tipo e condizione sociale: "tutti passano in pasticceria", afferma con orgoglio. In casa, e in bar ha sempre sentito parlare in dialetto, fin da bambino. Pensa di avere un'ottima competenza sia attiva che passiva della parlata locale che ama moltissimo perché rappresenta un segno di appartenenza alle proprie radici e al proprio passato, alla "sassolesità". Afferma di usare moltissimo il dialetto specialmente in pasticceria, luogo in cui trascorre quasi tutte le ore del giorno.

FONTE 6: nata a Sassuolo dove tuttora vive con i genitori[69] (anch'essi nati in questa città ) e la nonna paterna (nata e vissuta per 30 anni a Modena).Conosce bene il dialetto parlato quotidianamente dai genitori e soprattutto dalla nonna modenese (particolare importante, come vedremo); la sua competenza attiva è limitata all'uso in famiglia con i parenti più anziani e con qualche amico ("quando mi sento legata ad una persona") mentre negli altri ambiti e con altri interlocutori, utilizza prevalentemente l'italiano, inserendo raramente e "solo quando voglio essere espressiva", frasi o locuzioni dialettali. Ha recuperato l'uso del dialetto da grande: prima l'intervento "dialettofobo" della madre poi l'esperienza della scuola elementare, frequentata presso un istituto religioso sassolese le hanno inculcato l'uso corretto della lingua italiana.

FONTE 7: è nativa di Sassuolo, cosi come la sua famiglia da molte generazioni. E' sposata, con tre figli, e vive alla periferia sud di Sassuolo, ai piedi della collina. Ammette di riservare il codice dialettale ad interlocutori e a situazioni ben codificate: con il marito in casa, con la nonna, con il fratello maggiore ma non con quelli minori, con alcuni amici.

FONTE 8: è nato a Sassuolo dove vive insieme alla madre che è originaria di Reggio Emilia, mentre il padre era di Modena. Si ritiene perfettamente bilingue: il dialetto è la sua madrelingua ("mia madre non sa l'italiano e mi parla sempre in dialetto") e in casa con l'anziana madre si esprime solo con questo codice; fuori, a scuola parla invece italiano ma a volte, intuendo la curiosità degli studenti, usa espressioni e modi di dire della nostra parlata. Con gli amici e conoscenti, il suo comportamento è cambiato rispetto agli anni della sua giovinezza: prima parlava quasi esclusivamente dialetto, ora, dipende dall'interlocutore e dal rapporto che lo lega a lui o dalla situazione particolare che si viene a creare: "aspetto sempre la mossa dell'interlocutore e se riesco porto la conversazione in dialetto perché è più rilassante e familiare".

FONTE 9: nata e vissuta sempre a Sassuolo, considera il dialetto la sua lingua materna, avendolo appreso sin da piccolissima quando viveva in campagna: i suoi genitori erano bilingui anche se il dialetto era la lingua sicuramente verso la quale propendevano maggiormente e che "maneggiavano" con maggior sicurezza. E' stata educata a parlare italiano perché genitori ed insegnanti le avevano inculcato che il dialetto è la lingua dei contadini, degli ignoranti. Ora ritiene di conoscere entrambi i codici e ammette di preferire l'italiano anche se usa moltissimo il codice dialettale in casa, specialmente con la suocera ed il marito. Fuori, la scelta dialettale è orientata a seconda del rapporti con l'interlocutore: con parenti della stesse età usa il dialetto così come con le amiche più strette.

FONTE 10: vive a Sassuolo dove è nato. Si considera bilingue anche se sostiene di utilizzare pochissimo il dialetto (solamente rivolgendosi alle moglie e a vecchi amici) e di esprimersi nella maggior parte della sua giornata in italiano.

FONTE 11: nata a S. Michele (frazione collinare di Sassuolo) come i suoi genitori, appartenente a famiglia contadina. Afferma di capire perfettamente il dialetto di Sassuolo perché i genitori usavano sempre questo codice; lei invece, fin da piccola si è sforzata di parlare in italiano[70]. Anche il suo lavoro l'ha portata a sanzionare certe scelte linguistiche dei suoi scolari ritenute "poco adatte e segno di incultura ed ignoranza" (fortissima è per la fonte la stigmatizzazione sociale del dialetto). In famiglia ,con i figli e il marito parla esclusivamente italiano (solo quando è molto arrabbiata, "inveisce" in dialetto), mentre fuori con le zie anziane o i genitori la scelta è forzatamente orientata verso il dialetto. Con amici, conoscenti, o in situazioni particolarmente standardizzate (al forno, in macelleria, con il prete), le capita di inserire volutamente frammenti di discorso dialettale per colorire e rendere più appassionato, e vivace il discorso.

FONTE 12: nato e vissuto a Sassuolo; anche il padre è di Sassuolo mentre la moglie della collina modenese (Prignano). Afferma di usare la varietà dialettale in casa con la moglie e a volte con i figli, ma in cantiere, sul luogo di lavoro molto difficilmente parla in dialetto perché -sostiene- "non sarei capito: anche solo con quelli di Vignola, faccio fatica, figuriamoci con i meridionali." Con gli amici capita spesso di parlare in dialetto perché in fondo gli piace, è più rilassante e, almeno un tempo, più facile, mentre adesso fa meno fatica in italiano, trova più immediatamente le parole della lingua.

FONTE 13: è nato a Reggio Emilia ma ha sempre vissuto a Sassuolo; si ritiene perfettamente bilingue perché parla moltissimo sia l'italiano sia (con grande piacere) il dialetto. "Parlo dialetto quasi sempre in casa (con la moglie, con i figli e a volte anche con i nipoti)". Se una persona gli rivolge il discorso in dialetto, risponde con lo stesso codice; al contrario quando qualcuno gli parla italiano, risponde in italiano ma , certe definizioni, le fornisce in dialetto.

FONTE 14: nata e vissuta a Sassuolo, considera il dialetto la sua lingua materna che ha imparato dai genitori in campagna, ed è il codice che usa per esprimersi quotidianamente in famiglia, sul posto di lavoro, con i figli (anche se alterna con l'italiano), con i parenti e le amiche, nei negozi, e con gli estranei.

FONTE 15: il dialetto è la sua madrelingua: usa questo codice sempre, eccetto con persone che non conosce, (specialmente se si tratta di giovani, o di "fura'ste:r”,cioè di persone che non provengono da Sassuolo) o nei negozi che non frequenta spesso.

FONTE 16: nata e vissuta a S. Michele, prima di sposarsi ed andare a vivere a Sassuolo. Si ritiene bilingue, con una competenza maggiore (e una preferenza personale) verso l'italiano: usa, infatti, il dialetto solo in certe situazioni fissate, "istituzionalizzate", solo con alcune amiche più strette, con i parenti anziani, con i figli e in certi negozi in cui ha maggior famigliarità con i negozianti

FONTE 17: figlia di contadini sassolesi, è nata a Sassuolo dove vive tuttora, concedendosi, però, lunghi soggiorni (sia in estate che in inverno) in un paese sull'Appennino Modenese al confine con la Toscana (il paese si chiama S. Annapelago). Da piccola ha imparato subito il dialetto, l'unica lingua che si parlava in famiglia; successivamente grazie, da una parte alla scuola (specialmente quella media), dall'altra ai genitori (che si sforzavano di parlare con lei in italiano), ha iniziato ad esprimersi in italiano "senza più smettere": infatti adesso è perfettamente bilingue: ritiene di saper gestire bene e con una certa disinvoltura entrambi i sistemi linguistici. Afferma, però di usare molto di più l'italiano, specialmente con i nipoti e quando si trova in montagna "dove pochissimi parlano il dialetto modenese e tutti parlano il toscano". Con il marito alterna moltissimo anche se le piacerebbe usare solo il dialetto, così come con parenti ed amici.

FONTE 18: nata e vissuta a Montegibbio da genitori contadini da più generazioni, residenti in questa frazione di Sassuolo; dichiara di possedere una buonissima competenza passiva del dialetto ma di usarlo solo con poche persone (alcune amiche e le sorelle più anziane) e in situazioni particolari (soprattutto quando è arrabbiata, o molto agitata).Vorrebbe parlarlo di più, perché ama questa lingua e adesso con i figli grandi è ritornata a parlarlo e a volte anche con i nipoti.

FONTE 19: nato nel reggiano vive a Sassuolo da solo dopo la morte della madre anziana. Dialettofono quasi esclusivo: fa molta fatica ad esprimersi in italiano di cui parla una varietà molto bassa ricca di regionalismi e inserzioni dialettali. Parla con tutti (anche con bambini piccoli), dialetto perché e l'unica lingua che abbia realmente conosciuto.

FONTE 20: nato a Sassuolo; ha la moglie reggiana. Frequentando molto i mercatini in giro per l'Italia, ha imparato ad utilizzare frequentemente e correntemente l'italiano mentre fino a quando non è andato in pensione , ha sempre comunicato in dialetto sassolese specialmente fuori dall'ambito familiare.

FONTE 21: non è sposata e vive con sua sorella (fonte 23); si considera bilingue anche se ha imparato a parlare italiano tardi attraverso i libri e la televisione (oltre che i pochi anni si scuola elementare frequentati): con la sorella e i fratelli parla sempre il dialetto mentre con tutti gli altri si sforza di usare l'italiano.

FONTE 22: vive a Sassuolo pur soggiornando per molti mesi all'anno in una località dell'Appennino modenese. Si ritiene competente sia in italiano sia in dialetto anche se adesso "gli viene più naturale e spontaneo" parlare italiano dal momento che solo in casa, con la moglie ed il genero usa il dialetto

FONTE 23: ha sempre vissuto a Sassuolo come contadina. E' dialettofona integrale, conosce poco e male l'italiano che ha appreso soprattutto attraverso la televisione.

FONTE 24: sassolese del centro, si dichiara un perfetto conoscitore del dialetto sassolese che parla quotidianamente con ogni tipo di interlocutore. Si lamenta che "il dialetto di oggi non è più quello di una volta" perché "i giovani non lo sanno parlare bene, anzi ce lo hanno imbastardito".

 

Le interviste sono state eseguite in casa dell'informatore perché, come sottolinea anche Mocciaro (1995) tendenzialmente l'intervistato, nell'ambiente per lui naturale, mantiene la sua naturalezza e in ogni modo un atteggiamento più disteso e rilassato.

Si è cercato sempre ogni tipo di espediente o accorgimento per rendere la situazione più informale possibile e naturale, senza arrivare mai a forme di irrigidimento o nervosismo o di impazienza da parte nostra di fonte a risposte non corrette, o a richieste di ripetizioni, o pause prolungate ed incertezze ricorrenti. Abbiamo messo in pratica molti dei consigli suggeriti da Grassi-Sobrero-Telmon (1997:303): "ascoltare con grande attenzione ciò che dice l'informatore, dando la sensazione di valorizzare le sue informazioni e i sui giudizi; (...) evitare di interrompere o comunque di mostrare impazienza; annotare con discrezione gli appunti relativi a gesti, risa, atteggiamenti e comportamenti cinesici o paralinguistici dell'informatore"; si è cercato anche di evitare di mettere in imbarazzo la nostra fonte con domande di carattere delicato (sfera sessuale, morale, religiosa economica , o su usi , superstizioni, credenze) in presenza di terze persone; nei limiti del possibile si sono osservati con attenzione i segni di affaticamento dell'osservatore, considerata la lunghezza del nostro questionario: infatti a causa di questo, la somministrazione del questionario ha richiesto molto tempo, almeno 4 sedute da 3/4 ore ciascuna. A seconda dei casi abbiamo ritenuto opportuno mettere in opera altre strategie e tecniche: per esempio, per tenere desta l'attenzione della fonte, utilissima si è rivelata la tecnica dell' "eco" o "dello specchio", (Grassi/Sobrero/Telmon- 1997:303) consistente nel ripetere la parola o la frase, con il doppio scopo di incoraggiare a proseguire o, nel caso di incomprensione, a correggere. A volte per ottenere nuove e più chiare informazioni, si fingeva intenzionalmente di non aver capito e si riformulava la domanda. Un altro suggerimento che abbiamo accolto da Grassi e stato quello di servirsi della tecnica del "buco nero" per mantenere l'inchiesta in un'atmosfera di spontaneità e naturalezza: la tecnica consiste nel mascherare il vero interesse o il vero fine di una certa domanda o di un certo argomento. Nel nostro caso, per fare un esempio, volendo ottenere informazioni di carattere lessicale, si è finto un interesse puramente formale e fonetico o grammaticale così da orientare la fonte verso il controllo della forma ma non dei contenuti, che erano quelli, in quel caso, che più importavano.

In ogni seduta era prevista la presenza unica dell'informatore in modo da impedire condizionamenti esterni nelle risposte o imbarazzi ed esitazioni nelle risposte a domande più delicate. In alcune interviste, però, è stata fatta intervenire volutamente una terza persona conosciuta dalla fonte stessa e informata sui fini e gli scopi dell'inchiesta, la quale si è rivelata molto utile in quanto ha favorito, alla fine dell'inchiesta, l'inizio di una conversazione spontanea, un dialogo vero e proprio in cui poter "toccare con mano" certi comportamenti esibiti e dichiarati. Si sono create situazioni interessanti: per esempio durante l'intervista della fonte 6, è intervenuta la madre, con la quale la fonte ha utilizzato termini ed espressioni che erano in contraddizione con quanto aveva mostrato (o aveva voluto mostrare) nel corso della somministrazione del questionario[71].

Ci siamo serviti in un'occasione anche di un "complice" ,di una guida[72] (la figlia della fonte) per raggiungere un informatore che aveva caratteristiche importanti ai fini del nostro reperimento di dati sulla situazione dialettale sassolese: era presente anche durante l'intervista e si è rivelata molto utile perché di fronte a risposte decisamente italianizzanti da parte del padre, spesso interveniva sostenendo che nell'uso quotidiano le scelte erano molto più frequentemente orientate alle forme conservatrici.

Infine per quanto riguarda la registrazione delle interviste, si è ricorsi all'uso del registratore che era mostrato alle fonti e ha provocato, specie nei testimoni più anziani, un certo imbarazzo e irrigidimento, quasi sempre superato già alla fine della somministrazione della sezione sociolinguistica in cui si favoriva immediatamente la conversazione spontanea.

 

Al termine di ogni seduta di inchiesta, si sono riascoltate le registrazioni per verificare "l'ineccepibilità tecnica" e per annotare eventuali supplementi di informazioni da richiedere nelle sedute successive. Inoltre finché il ricordo era vivo, si sono opportunamente riordinati gli appunti e le annotazioni fatti durante l'inchiesta, per poter più agevolmente precisare e spiegare con considerazioni sulla particolare situazione linguistica, le informazioni paralinguistiche.

Alla fine di ogni intervista, si è quindi proceduto alla trascrizione per la quale ci siamo comportati in modo diverso a seconda della tecnica di raccolta dai dati da noi adottata ( questionario e intervista guidata finale).

Per la sezione sociolinguistica del questionario, abbiamo trascritto interamente tutte le risposte; quindi, per ogni fonte si è delineato un profilo con i dati sociolinguistici fondamentali, una sorta di carta d'identità linguistica che ci è servita come "cartina di tornasole" in sede di analisi dei dati lessicali. Di fronte a parole, frasi, periodi in dialetto, ci siamo serviti della trascrizione fonetica (adottata anche per le altre tecniche) "adattata e semplificata" sul modello fornitoci dall' Associazione Fonetica Internazionale.

Per quanto riguarda, invece, il materiale lessicale, ricavato dalla sezione linguistica del questionario, il lavoro è stato più complesso e si è suddiviso nelle seguenti fasi: trascrizione, ordinamento in schede e analisi.

Per la trascrizione, il materiale è stato tutto trascritto, adottando il sistema di trascrizione dell'Associazione Fonetica Internazionale, semplificandolo in base alle nostre esigenze: (cfr. tabelle alle pagine successive)

consonanti

bilabiali

labiodentali

dentali e alveolari

palato-alveolari

velari

occlusive

p b

 

t d

 

k g

nasali

m

 

n

Ŋ

ŋ

laterali

 

 

 

l

λ

vibranti

 

 

r

 

 

fricative

 

f v

s z

∫z

 

affricate

 

 

ts dz

tf

dz

 

 

 

 

vocali

anteriori

centrali o arrotondate

posteriori

chiuse

i

 

u

semichiuse

e

 

o

semiaperte

є

 

o

aperte

 

a

 

Le semivocali sono trascritte con i segni [w] e [j], la lunghezza di vocali è stata segnalata proponendo il segno [:] ai foni interessati: es. pe:der, “padre”, me:dra[73],”madre”, ma’ne:da, “mangiata”, ed infine il segno dell’accento,[‘] è posto prima di ogni sillaba contenente vocali toniche, eccetto che nei monosillabi.

Una volta trascritti, è stata predisposta una scheda per ogni voce così organizzata: in alto, al centro, la voce guida italiana, relativa al referente indagato. Immediatamente sotto è stato riportato il corrispondente in dialetto testimoniato prima dal Maranesi (in sigla M), poi dal Neri (in sigla N) se la voce era documentata in entrambi i vocabolari; oppure solo dall'uno o dall'altro se la voce da verificare era stata ritrovata in uno solo dei due dizionari. Si sono trascritte precisamente le definizioni, i sinonimi, gli usi figurati e anche gli esempi per permettere un successivo confronto con la definizione del vocabolario italiano.

Per quanto riguarda la trascrizione, abbiamo mantenuto le grafie adottate rispettivamente dal Maranesi e dal Neri senza costruire schede di tipizzazione[74].

Sotto le due voci dialettali, è stato riportato il corrispondente italiano, verificato nello Zingarelli 1997 (XII edizione) con particolare attenzione al significato da esso attestato, per confrontarlo con quello offerto invece dai vocabolari dialettali: già da questo confronto, si è constatato come spesso l'italiano sia meno differenziato semanticamente del dialetto e come, in molti casi, tenda a livellare le differenze che invece emergono ancora dal dialetto. Dopo le attestazioni delle fonti di partenza (i vocabolari dialettali e quello italiano), quindi, la scheda è stata completata con le risposte di ogni singolo informatore-testimone (ognuno identificato con un numero corrispondente, secondo lo schema che si è dato nella tabella 1 relative all'uso della voce posta a verifica. Dal momento che le fonti spesso ci hanno fornito più di una risposta, queste sono state tutte trascritte insieme agli usi particolari e diversi dei termini attestati e ai sinonimi eventualmente documentati.

Nell'analizzare i dati ottenuti, si è fatta particolare attenzione alle variazioni lessicali, semantiche, fonetiche, e morfologiche che le nostre fonti hanno prodotto rispetto alle voci attestate dai lessici dialettali . Data la ricchezza dei risultati ottenuti, è stato interessante fare un confronto incrociato sia delle risposte tra loro, sia tra queste e le voci documentate dai due vocabolari dialettali di riferimento, Maranesi e Neri.

Dopo avere considerato, in ogni suo aspetto, il materiale linguistico, lo abbiamo classificato in tre gruppi fondamentali, che tengono conto dei principali mutamenti del dialetto sassolese (emersi dalla nostra inchiesta) nei diversi livelli di analisi (lessicale-semantico, fonetico, morfologico), nel processo di rinnovamento o depauperamento sul modello della lingua nazionale (per cui si rimanda al capitolo successivo).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO QUINTO

 

 

Tutte le voci raccolte sono state suddivise in tre gruppi in base al tipo di italianizzazione che più le caratterizza.[75]

Gruppo A: italianizzazione lessicale e semantica: essa porta all'introduzione di due ordini di termini:(1) termini che subentrano a forme dialettali preesistenti di etimo diverso attestate dei vocabolari con lo stesso significato; (2) termini che subentrano a forme dialettali preesistenti con una modificazione del significato[76].

Gruppo B: italianizzazione fonetica : comprende le forme conservanti lo stesso etimo delle forme dialettali che sostituiscono, in confronto alle quali presentano una più accentuata affinità fonetica con il modello italiano.

Gruppo C: italianizzazione morfologica: comprende le forme conservanti lo stesso etimo delle forme dialettali che sostituiscono, in confronto alle quali presentano una più accentuata affinità morfologica con il modello italiano.

      Per ogni gruppo è stato compilato il glossario delle voci seguito dal commento con gli esempi più significativi e le osservazioni più importanti riguardanti la linea di tendenza linguistica anche in correlazione con variabili più propriamente sociali.

All'interno dei glossari, le voci italiane, cercate sullo Zingarelli 1997, corrispondenti ai termini dialettali sottoposti a verifica, sono disposte in ordine alfabetico sopra ad una scheda, divisa in tre colonne, che evidenzia: nella prima colonna le forme attestate dai vocabolari dialettali di riferimento (per il Maranesi abbiamo usato la sigla M per il Neri quella N) scritte mantenendo la grafia dei dizionari che ce l'hanno trasmesse, nella seconda e nella terza le risposte delle nostre fonti e rispettivamente nella seconda le risposte conservative (con eventuali varianti fonetiche), nella terza quelle innovative, trascritte adottando il sistema di trascrizione fonetica dell'Associazione Fonetica internazionale (cfr. capitolo 4.5). a lato di ogni voce, tra parentesi, sono riportate le fonti che le usano, indicate con i numeri corrispondenti ai campioni, secondo l'ordine espresso nella tabella a pag.67. Segue quindi (ma solo per il gruppo A) una frase esemplificativa nella quale è inserita la voce nuova o eventualmente un secondo esempio con la voce antica se essa è ancora viva in un significato o contesto particolare; infine in nota forniamo spiegazioni più precise sul rapporto tra la voce antica - voce nuova e le indicazioni più opportune forniteci dalle fonti durante le interviste.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5.2 Gruppo A : italianizzazione lessicale e semantica

Glossario

ABBAINO, LUCERNARIO

M: luminaró1

N: luminarôl

siminéll

 

lumina'ro:1

(10,14,15,16,17,19,22,23)

 

luser'na:ri (2)

lulfer'na:ri

(4,8,11,12,13,20,21,24)

lulfer'ne:r (l,7)

abbaj'sjn (3)

abba'i:no 5,6,9,18

 

 

 


[1] Lo status di un sistema linguistico è determinato da ciò che con esso si può fare, dal punto di vista pratico, legale, culturale, economico, politico, sociale, ecc., all'interno di una certa entità di riferimento. Per funzione si intende invece ciò che effettivamente con un con un certo sistema linguistico viene fatto, ciò a cui un sistema linguistico serve in una società; status e funzione sono strettamente interrelati, ma si configurano più precisamente l'uno come potenziale dell’altro (o de iure) e l'altra come attuazione (de facto)”. (Berruto 1995:202)

[2] Si veda per un discorso più approfondito mi sistemi linguistici in contatto e le situazioni di dominanza, Weireich 1974, e l'ampio uso, in riferimento al rapporto italiano e dialetto, che ne fanno Grassi 1992 e Berruto 1995.

[3] Come fanno notare Grassi-Sobrero-Telmon (1997:17) "i tentativi di fare del dialetto una lingua accanto o, addirittura in sostituzione di quella già esistente per consolidato consenso sociale sono regolarmente falliti": esemplare in tal senso il tentativo di Manzoni di imporre il dialetto fiorentino parlato come lingua comune italiana.

[4] Berruto (1995:223), riprendendo la classificazione operata da Coseriu distingue i dialetti in dialetti primari e dialetti secondari e terziari: "i primi sono le varietà geografiche sorelle, coetanee, del dialetto da cui si è sviluppata la varietà standard di quella lingua e che esistevano prima della promozione e costituzione di questa a standard "( in questo gruppo quindi si trovano i vari dialetti italo romanzi che hanno una storia parallela a quella del toscano su cui si è formato l'italiano standard); "i dialetti secondari e terziari sono invece le varietà geografiche formatesi per differenziazione diatopica, locale della lingua comune -nel primo caso-o della lingua standard, dopo la sua diffusione- nel secondo caso- (tra questi, per esempio, si possono inserire varietà standard di quella lingua e che esistevano prima della promozione e costituzione di questa a standard "( in questo gruppo quindi si trovano i vari dialetti italo romanzi che hanno una storia parallela a quella del toscano su cui si è formato l'italiano standard); "i dialetti secondari e terziari sono invece le varietà geografiche formatesi per differenziazione diatopica, locale della lingua comune -nel primo caso-o della lingua standard, dopo la sua diffusione- nel secondo caso- (tra questi, per esempio, si possono inserire gli attuali italiani regionali che rappresentano le differenti forme in cui l'italiano si manifesta nelle diverse regioni).

[5] La studiosa qui traduce la definizione data da Ferguson nel suo articolo classico su questo argomento che risale al 1959. Per una prospettiva più ampia, si veda anche Berruto 1995: 227-242.

 

[6] Ormai numerosa e lunga è la bibliografia sui fattori extralinguistici che hanno favorito la diffusione dell’italiano: Migliorini 1961, De Mauro 1963, Bruni 1984, Serianni-Trifone 1994, Grassi/ Sobrero/Teimon 1997.

 

[7] In realtà, secondo Foresti all'interno della regione esistevano ancora una decina di anni fa microaree in cui il dialetto aveva ancora grandissima influenza e si pone da pari ,in molti domini, con le varietà dell'italiano: egli afferma infatti che molti sono gli indizi che documentano " nella regione, la compresenza di più norme dialettali (anche all'interno di una medesima provincia), sorrette da processi di adeguamento e di standardizzazione micro-territoriali che , pur necessitando di ampi approfondimenti rinviano ad un impiego diffuso e a una forte vitalità dei dialetti e contrastano con l'interpretazione diglossica"(1988:571).

 

 

[8] Inteso come l'insieme delle varietà di italiano e dialetto simultaneamente disponibili ai parlanti della comunità italiano attuale.

 

[9] In altre parole la maggioranza degli italiani conosce, o almeno capisce, alcune varietà dell'italiano, e molti italiani conoscono, o capiscono, una o più varietà dialettali.

[10] Bisogna comunque segnalare come alcuni studiosi preferiscono questa interpretazione: cfr,Stehl 1987, Telmon 1990.

 

[11] "Il concetto di continuum è d'origine sociologica, e indica un rapporto di continuità fra due fatti o situazioni sociali, in cui non si può stabilire una polarità assoluta, un confine preciso: si passa dal primo al secondo attraverso una gamma di varietà intermedie, che sfumano lentamente dall'una all’altra"(Grassi/Sobrero /Telmon 1997:174).

 

[12] Riferendosi all'italiano regionale Telmon 1994 preferisce parlare non tanto di varietà di lingua ma di interlingua, cioè di sistema linguistico autonomo, coerente, dinamico, relativamente strutturato ad ogni stadio della sua valutazione.

 

[13] Per la bibliografia relativa e gli studi più importanti sull'argomento, si è fatto riferimento a De Mauro 1963, Telmon 1990,1995, ,Berruto 1993, Serianni-Trifone 1994.

 

[14] Per Cortelazzo (1977:145) la nozione di italiano regionale conduce ad alcune perplessità. "resta una comoda quanto semplicistica etichetta per capire una svariatissima serie di fenomeni che toccano fondamentalmente i rapporti della lingua col dialetto, anzi con i diversi dialetti, non reagenti tutti in uguale misura''.

 

[15] Qui di seguito adotteremo la terminologia ,ormai largamente in uso, che chiama diatopiche le varietà geografiche diastratiche quelle sociali (relative agli strati sociali), diafasiche quelle situazionali (relative alla funzione svolta nel contesto).

 

[16] Si vedano per una panoramica generale sui dialettismi entrati nell’'uso comune Zolli 1986, Avolio 1994.

 

[17]Anche questo caso ci dimostra come sia importante la considerazione degli aspetti funzionale e pragmatico dei fenomeni linguistici: la pragmatica del dialetto, in particolare, rappresenta un campo nuovo ma ricco di interesse per gli studi dialettologici, che non può più essere dimenticato. Infatti, concordiamo con Grassi-Sobrero-Telmon (1997:31), quando ne ribadiscono l'importanza: "il dialetto non può solo essere identificato con la sua specifica configurazione socio- genealogica o strutturale, ovvero in quanto varietà distinta rispetto alla lingua o ad altri dialetti. Esso deve venire di volta in volta attualizzato in rapporto alle valutazioni che ne danno e agli usi che ne fanno i parlanti nelle singole situazioni comunicative".

 

[18] E non avvertono più la forte stigmatizzazione sociale assegnata al dialetto e la conflittualità con l'italiano.

 

[19] Fondamentali, ai fini della nostra ricerca ed esperienza diretta saranno casi del genere in cui un termine italiano entra nel lessico dialettale adeguandosi foneticamente e morfologicamente alle regole del nuovo sistema.

 

[20] Eccetto Sanga (1981) che ha ritenuto necessario inserire nel suo modello di repertorio linguistico, le varietà italiano dialettale e italiano -dialetto ma, secondo Berruto (1897,1989) senza spiegarne effettivamente i caratteri peculiari

 

[21] Come si vede per lo studioso è fondamentale, per determinare le diverse varietà linguistiche, anche la variazione diagenerazionale, cioè lo scarto tra prima generazione dialettofona e seconda italofona

 

[22] De Mauro, a questo proposito, nel 1963, distingueva I'italianizzazione diretta in cui l'innovazione incide senza mediazioni nell'area interessata, dall'italianizzazione indiretta in cui l'innovazione passa dai centri più grandi a quelli più piccoli attraverso la mediazione del centri intermedi.

 

[23] Anche se molti studiosi fanno notare come questo dato non sia sempre confermato: si confrontino i dati di Giannnelli sulla Toscana, di Tempesta sul Salento, di Lo Piparo sulla Sicilia, di Sobrero su Casale Monferato (in Grassi Telmon, Sobrero 1997:191).

 

[24] Ma ci fornisce esempi significativi anche Sobrero 1992.

[25] Cioè la posizione occupata da una persona rispetto alle altre, nel sistema sociale, i cui componenti fondamentali dello status sono l'istruzione, il reddito, la valutazione sociale delle attività professionali, dello stile di vita e dei comportamenti.

 

[26] Le reti sociali sono quelle "strutture sociali intermedie" (Berruto-Sobrero-Telmon 1997:214) attraverso cui ogni individuo, in una società organizzata comunica con gli aliri individui. Esse sono costituite da un insieme di relazioni che determinano diverse tipologie di rete: quando le relazioni sono molto fitte, cioè tutti si conoscono e si hanno gruppi ristretti si parla di rete chiusa;quando invece le relazioni sono numerose e sempre con persone diverse si hanno reti aperte; ma per un approfondimento su questa variabile sociale importante, si rimanda aila trattazione di essa all'interno di Grassi-Sobrero-Telmon 1997:215-219.

[27] "Sono coloro il cui orizzonte sociale si esaurisce all’interno della comunità, che hanno famiglia, lavorano e passano tutto il tempo libero nel paese, spesso sono poco scolarizzati ma hanno ruoli attivi nell'organizzazione della vita sociale"(Grassi-Sobrero-Telmon 1997:217).

[28] Questi parlanti "intrattengono rapporti sistematici con persone estranee alla comunità; parte delle loro occupazioni, o del tempo libero, ha referenti estranei al paese; hanno una scolarità mediamente più alta del gruppo in-rete (spesso hanno studiato fuori),ma sono comunque inseriti nella vita sociale della comunità" (Grassi-Sobrero-Telmon 1997:217).

 

[29] Questi parlanti "occupano i nodi periferici della rete, istituendo relazioni numerose ma poco diversificate sia con membri della comunità sia con membri di altre reti, anche esterne da località; sono sostanzialmente estranei ali'organizzazione alla vita sociale del paese"(Grassi-Sobrero-Telmon 1997:217).

 

[30] Ma quasi tutti gli studiosi, implicitamente o implicitamente concordano su questa gerarchizzazione.

[31] Per questo livello, Grassi 1993 sottolinea la diversità e spesso l'inconciliabilità dei giudizi dovute alla scarsa conoscenza della sintassi dialettale.

 

[32] Al contrario l'intonazione rappresenta, come si è già fatto notare, il piano in cui maggiormente agisce il sostrato dialettale sull'italiano anche nelle sue varietà più alte e codificate.

[33] Questo è un processo di natura socio-culturale e di costume prima che di carattere linguistico.

 

[34] Secondo Foresti "la disposizione all’accoglimento ex uovo di forme lessicali si è resa più ampia man man che i 'tempi' di affermazione di un nuovo tipo di cultura, materialmente e spiritualmente intesa, si sono abbreviati”(1974:244).

[35] Ad esempio, nel dialetto sassolese, possiamo citare i prestiti televi'zjawn "televisione", te'le:fon,'"telefono", a 'sen"assegno"(adattati), lava’tri:tfe, an 'tenna (non adattati ); a volte poi si può avere l'alternanza ,per uno stesso referente, della forma adattata e di quella non adattata: ancora nel dialetto di Sassuolo evidenziamo per il tipo lessicale "frigorifero", sia la forma frigo’rifer sia frigo’rifero.

 

[36] Per molti studiosi questo ricambio lessicale costituisce un processo del tutto fisiologico e nomale nell'evoluzione di una lingua (tra questi Radke1995); per altri, invece (Foresti 1974, Sobrero 1992) sarebbe segno di una fase di impoverimento e progressiva destrutturazione del dialetto.

 

[37] Casi di questo genere, di mancata corrispondenza semantica tra sinonimi sono evidenti anche dal materiale da noi raccolto sul campo specialmente per quanto riguarda il settoredei mestieri (cfr. capitolo 5.)

[38] Analizzando i materiali raccolti da Tropea per una città siciliana

[39] Lo studioso critica apertamente il disinteresse, assolutamente ingiustificato, per la semantica dialettale da parte degli studi dialettologici; è indubbiamente un settore di studi fondamentale anche al di là del suo legame con il fenomeno dell'italianizzazione perché i significati tipici sempre si raccordano alla storia culturale di un territorio.

[40]  Accogliamo i dati forniti da Foresti 1992 per il dialetto bolognese.

[41] Si riprendono i segni grafici adottati da Foresti 1992:30 da cui attingiamo l'esempio.

 

[42] "Rimandiamo per una casistica più numerosa al nostro materiale sul dialetto di Sassuolo (cfr. capitolo 5.3).

 

[43] E continua sottolineando come "soltanto rammentando ciò (...) s'intende pienamente il singolare fenomeno per cui le più recenti innovazioni dei dialetti dei centri maggiori di una determinata zona possano avere talora creato delle concordanze con i dialetti più tenacemente arcaizzanti della stessa zona" (De Mauro 1963:155).

 

[44] Anche noi abbiamo notato e rilevato, nei nostri materiali lessicali, numerosi casi di questo genere che si manifestano,per esempio, nella restaurazione di vocali atone o consonanti iniziali sincopate o nello scioglimento di assimilazioni tra consonanti come nelle forme (si rimanda l'esemplificazione al capitolo 5).

 

[45] Bisogna comunque sottolineare che attualmente le trasformazioni del livello morfologico hanno subito una accelerazione così forte da intaccare queste certezze fino a parlare più correttamente non di “ristrutturazione” innovativa, ma di incipiente “destrutturazione” del dialetto (Sobrero 1992:82).

[46] Infatti l'attività ceramica, per quanto presente a Sassuolo, fino a quasi tutta la prima metà del Settecento, rappresentò un artigianato senza pretese e con smercio limitato. il primo tentativo di impiantare una manifattura ceramica su basi nuove risale al 1741.

 

[47] Questi brevi cenni di stona strettamente politica o militare, probabilmente di scarsa rilevanza in questa trattazione, sono comunque molto interessanti perché ci permettono di rilevare alcune note a partire dal primo dato in nostro possesso: infatti il legame di epoca medioevale di Sassuolo con il comitato parmense prima di quello modenese o è tutt'altro che casuale in quanto indica l'appartenenza della città a quel sistema difensivo che i bizantini articolarono sull'appennino tosco- emiliano facendo proprio perno sul territorio parmense che controllava le fortezze dislocate anche ad oriente. Quindi Sassuolo è evidentemente e strettamente legata fin dall’antichità ai rapporti con  le retrostanti alture, rapporto che in senso politico continua fin quasi in età rinascimentale e in senso economico certamente fino ad oggi (il"sito"di Sassuolo ha sempre rappresentato un centro di passaggio e un riferimento ai traffici da e per la montagna e ha assistito costantemente a flussi di montanari che settimanalmente, in occasione dei mercati o delle fiere annuali di Ottobre, "scendevano" a Sassuolo per sbrigare i loro affari e che in molti casi si sono insediati stabilmente nella nostra cittadina). Ecco quindi che quanto detto d'inizio su Sassuolo come punto di incrocio di due perpendicolari vie di comunicazione, assume lo spessore di seicento anni di vita politica militare.

 

 

[48] Ricordiamo che in questa particolare fase economica, gli industriali favoriscono ed incoraggiano l'arrivo della indispensabile manodopera procurando gli alloggi a condizioni favorevoli, agli immigrati.

 

[49] Ricordiamo che sotto gli Estensi ,Sassuolo, capitale estiva del ducato, vede i ritmi della vita quotidiana scanditi delle villeggiature dei principi; l'influenza della vita di corte contestualmente ad un maggior benessere generale, trasformano sempre più Sassuolo che perde l'aspetto di piccolo centro di provincia, per assumere lo stile di una cittadina borghese con immaginabili influenze sul linguaggio e sul grado di istruzione.

[50] Dal momento che manca una letteratura specifica sull'argomento, in questa parte della nostra trattazione, ci siamo rifatti quasi esclusivamente alle informazioni e ai dati ricavati dall'osservazione partecipante e dalle risposte delle fonti al questionario sociolinguistico.

 

[51] In base a ciò si spiega la competenza dialettale di molti immigrati di antica generazione che spesso "esibiscono" frasi e discorsi in dialetto locale sassolese suscitando a volte il riso. Nelle ceramiche stesse, a detta di molte persone da noi ascoltate, gli operai parlavano dialetto.

 

[52] Ricordiamo che altre importanti classificazione dei dialetti italiani sono state quelle operate da Ascoli, primo in assoluto nell'1880 (lui che con "l'Italia dialettale" si può senza dubbio considerare il fondatore della dialettologia italiana), da Merlo 1924, da Rohllfs 1937 e 1967).

[53] Per una panoramica più ampia delle caratteristiche di questo gruppo di dialetti gallo- italici, rimandiamo a Coco 1982 115-116, Devoto-Giacomelli 1979, Grassi/Sobrero/Telmon 1997:72-160.

[54] Coco 1988 ipotizza che sia stata la Romagna il "centro di irradiazione del fenomeno, lungo la direttiva della via Emilia, in contrapposizione alla sporadicità del passaggio in altri territori gallo-italici (manca nel lombardo, compare nel piemontese soltanto negli infiniti in -è da lat. -are)" (1988 :246) unendosi in questo modo a Schurr 1974 che più in generale enfatizza il ruolo dell’area orientale nell'elaborare e poi esportate fenomeni fonetici tanto da arrivare a sostenere che l'emiliano non sarebbe altro che "un gruppo di parlate lombarde gradualmente romagnolizzate".; ma Foresti 1998 critica questo posizione e sottolinea come molti fenomeni hanno motivazioni "interne, indipendenti dall'influsso del romagnolo"(Foresti 1988:576) restituendo così ai dialetti emiliani (sia orientali sia occidentali), una loro fisionomia autonoma.

 

[55] A causa, secondo Bertoni 1925, dell'influsso letterario che ha restaurato la vocale originaria.

 

[56] Anche in sillaba chiusa si hanno in sassolese ed in modenese casi di allungamento della vocale tonica (e conseguente abbreviamento della consonante) non riscontrati in altre varietà emiliane: dial. sassolese kur'te:l, dial. reggiano kurt'ell "coltello"(vocale breve e consonante lunga).

 

[57] Anche se in confronto ad [ej],questa dittongazione è meno diffusa e meno nitida.

 

[58] Per quanto riguarda i fenomeni consonantici, la parlata sassolese e quella modenese hanno in comune con tutti i dialetti della regione le caratteristiche proprie dei dialetti settentrionali (anche se alcuni fenomeni hanno nelle altre regioni una maggiore intensità) fortemente innovativi rispetto ai dialetti toscani contermini (e quindi rispetto alla lingua italiana): essi sono la degeminazione (o scempiamento) delle consonanti doppie, la sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche: fur’mi:ga "formica", ka 'dejna"catena", ed in fine la spirantizzazione delle originarie occlusive sonore (fino, ad arrivare, in alcuni casi, alla definitiva scomparsa): 'e:va, "ape", rava'ne:l "rapanello", ra’i:za"radice" (con successiva ricomparsa della [d] già in antico per cui ra'di:za 'radice'

 

[59] Come si vede, l'inchiesta vuole assegnare un ruolo importante alla figura dell’intervistato, vero protagonista dell'inchiesta, e del mondo in cui vive. infatti come molti linguisti ed etnolinguisti fanno notare, è fondamentale per chi affronta una ricerca sul campo, recuperare la prospettiva "emica"(Carpitelli-Iannacaro 1995), che consiste nell’entrare all’interno della comunità indagata cercando di coglierne gli aspetti distintivi e la visione del mondo; solo contestualizzando l'informatore si potrà capire veramente il suo comportamento linguistico.

 

[60] Ci si è serviti dell'utilissimo questionario redatto da Berruto 1977, integrato con quello proposto da Grassi-Sobrero-Telmon 1997.

 

[61] Attraverso questo tipo di indagine, praticata in particolare dagli antropologi e dagli etnologi, l'osservatore partecipa alla vita della comunità indagata per un tempo abbastanza lungo, senza mai porre domande, ma osservando attentamente i comportamenti linguistici dei membri di quella comunità e "sceverando al tempo stesso ciò che della situazione è dovuto alle modificazioni conseguenti alla sua presenza"(Grassi/ Sobrero /Telmon 1997:275).

 

[62] All'interno delle inchieste che si occupano della 'parola' e dei suoi significati esiste una differenza che si è soliti ridurre all'opposizione tra 'onomasiologia' e 'semasiologia': in particolare, si parla di ricerca semasiologica quando si indaga sui diversi significati che uno stesso significante (o, in casi di dialetti diversi, significanti riconducibili ad una stessa matrice etimologica) può assumere." (Grassi-Sobrero- Telmon 1997: 284-285)

 

[63] Come quelli svolti da Mocciaro 1989 a Mandanici, Parry 1990 a Savona, Falcone1974 a Catania: tutti questi dialettologi hanno raccolto, attraverso inchieste sul campo, corpora abbastanza consistenti di materiale lessicale li hanno confrontati "in tempo apparente", con i dati raccolti nell'AIS.

 

[64] Anche se bisogna sottolineare, seguendo le indicazioni che lo stesso Maranesi ci fornisce nella prefazione, che la situazione linguistica modenese era già avviata verso un crescente bilinguismo contro un monolinguismo dialettale diffuso in tutta Italia

 

 

[65] Anche dalla lettura della bibliografia finale si nota chiaramente quanto la letteratura sia stata fondamentale nella compilazione di questo vocabolario.

 

[66] Possiamo anticipare che già, attraverso lo spoglio dei dizionari e il loro confronto parallelo, pur tenendo conto dei diversi obbiettivi dei compilatori, abbiamo potuto evidenziare importanti caratteri della dinamica innovazione/conservazione del dialetto modenese: innanzitutto il modenese già prima dell'inizio del secolo era soggetto a profondi scambi e contatti con varietà di italiano (in effetti il Maranesi è ricchissimo di forme italianizzanti che si sono conservate fino ad oggi); inoltre poche sono state le estensioni di significato di voci registrate da Maranesi rispetto alle stesse voci del Neri; allo stesso modo gli usi figurati e traslati non solo non sono aumentati, ma anzi sono diminuiti; infine (dato questo di grande significato) tra i due dizionari si è verificata la caduta dell'uso di molti termini tradizionali che sono stati segnalati con segni specifici per evidenziarne il loro carattere arcaico

             

[67] Infatti statisticamente il campione doveva includere (per avere un rapporto almeno uno a mille) 45 soggetti; ne abbiamo scelti 24 consci anche della nostra inesperienza e dell'imperfetta preparazione nella raccolta di materiali sul campo: ci siamo comunque proposti di garantire la validità e la generalizzabilità delle conclusioni dalla profondità dell'osservazione, e dell'analisi del materiale linguistico ed extra linguistico ricavato da queste 24 inchieste, sopperendo a un "vuoto" quantitativo e dall'intensità con un approfondimento qualitativo. Premettiamo, già in questo caso, che è stato molto difficile rispettare queste categorie dal momento che pochissimi sono rimasti i giovani dialettofoni a Sassuolo con competenza attiva, mentre la percentuale aumenta considerevolmente nella fascia 'adulta 'dai 35 anni in poi.

 

[68] Si è ritenuto, infatti, che il tipo di occupazione fosse, in fondo, ancora un criterio sufficientemente valido per ascrivere, almeno grosso modo, gli intervistati a diverse classi sociali.

 

[69] In particolare ricordiamo la madre, che non solo è intervenuta durante l'inchiesta della figlia ma è anch'essa stata intervistata ed inclusa nel campione (è la fonte 9).

 

[70] Specialmente a scuola, tanto da stupire la maestra stessa per il suo italiano correttissimo, e tanto da essere oggetto di scherno dei compagni, che parlavano quasi esclusivamente dialetto.

 

 

[71] Anche con altre fonti sono intervenute terze persone: è il caso della fonte 14 (con l’arrivo del marito), della fonte 22 (con l'intervento della moglie), della fonte 13 (con la partecipazione del fratello).

[72] Come sottolinea anche Politi Marcato (1974, p.100): "la funzione della guida, già sperimentata nella ricerca antropologica, andrebbe ulteriormente approfondita (...) sotto l'aspetto di elemento che favorisce il momento stesso della osservazione, permettendo un rapporto tra intervistatore ed intervistato più naturalmente dialogico, a tutto vantaggio dell'autenticità dei dati raccolti".

 

 

[73] In questo caso la sillaba è aperta anche se la vocale è seguita da due consonanti perché esse sono muta più liquida (vedi Canepari 1970).

[74] Anche se Cortelazzo 1979 le ritiene metodologicamente necessarie in lavori come questi quando tra le fonti non c'è concordanza formale ma diversità di resa grafica: ci siamo comportati in questo modo dal momento che non eravamo sicuri dell'esatta corrispondenza tra i suoni e i grafemi dei due lessici e i suoni attuali che il sistema IPA rappresenta (cfr. per un maggior approfondimento sul problema del rapporto tra scrittura fonetica ed alfabeti storici, RID 1).

[75] Infatti, come si vedrà, molte forme inserite nel gruppo A sono soggette anche contemporaneamente a fenomeni di adeguamento fonetico e morfologico al modello italiano.

[76] In questa sede non classificheremo né analizzeremo i numerosi neologismi dialettali ricavati durante la raccolta di etnotesti e l'osservazione partecipante dei parlanti sassolesi, riservandoci di commentare la loro incidenza e frequenza all'interno del corpus dialettale sassolese, nelle conclusioni della presente ricerca (cfr. capitolo 6).